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Stato di diritto

di Anna Pintore

Si suole dire, con formula ispirata ad Aristotele, che lo Stato di diritto è quello in cui governano le leggi e non gli uomini, è lo stato limitato dal diritto. La formula è suggestiva ma, come si dirà, insufficiente di per sé a catturare la complessità di questa nozione e le controversie teoriche ed etico-politiche che la contornano. Invero, non è affatto pacifico quali siano le caratteristiche che un’organizzazione statale deve possedere per essere considerata uno Stato di diritto e quali rapporti intercorrano tra questo e altri modelli di Stato, in particolare lo Stato liberale, quello democratico e quello costituzionale. Per questa ragione nessuna trattazione del tema può essere neutrale, e neppure questa lo sarà.

Forse proprio a causa della sua indeterminatezza, la formula ha goduto fin dalla sua nascita di apprezzamento pressoché universale, al punto da segnare oggi una strada senza alternative: uno Stato che non incarni questo modello deve essere considerato illegittimo e indegno di obbedienza. Ma il carattere apprezzativo della formula, unito all’evanescenza del suo contenuto, ha fatto sì che di essa si appropriassero le più disparate ideologie: non solo quelle liberale e democratica ma anche quella socialista e financo, come accadde nella prima metà del secolo scorso, quelle nazionalsocialista e fascista. Ciò non deve stupire, se è vero che il concetto di Stato di diritto non è legato né a particolari condizioni storiche, né a specifiche premesse filosofiche, essendo viceversa antico quanto il pensiero filosofico-politico stesso [Fassò 1974]. L’idea generica della superiorità del governo delle leggi su quello degli uomini, su cui s’impernia la nozione in esame, nasce infatti assai prima della formazione dello Stato moderno; essa rappresenta un tema ricorrente nelle riflessioni dei teorici politici medioevali, e ancor prima può essere ritrovata negli scritti degli autori classici, da Platone e Aristotele in avanti.

L’argomento ricorrente nella storia in favore della superiorità del governo delle leggi su quello degli uomini fa leva sulla loro impersonalità, generalità e stabilità, in antitesi al carattere personale, arbitrario e transeunte delle passioni umane. Lo Stato di diritto si oppone insomma a quello in cui governa la volontà arbitraria di un singolo o di una moltitudine, perché nel suo operare si ispira al «principio di legalità». La legge viene considerata la negazione dell’arbitrio in ragione dei suoi connotati di generalità e astrattezza, ossia in quanto strumento normativo che, almeno nel suo modello ideale, si indirizza a categorie generali di individui e regola tipi astratti di condotte ripetibili nel tempo. Essa si caratterizza di conseguenza per la relativa stabilità della regolamentazione, oltre che per l’uguaglianza di trattamento assicurata ai suoi destinatari. Per ragioni non del tutto intuitive si reputa inoltre che la legge sia, dai propri destinatari, più agevolmente conoscibile del decreto estemporaneo. Per tutte queste ragioni la legalità viene considerata fin da epoca risalente come una virtù dei sistemi politici, in quanto garanzia per il cittadino (si ricordi l’adagio ciceroniano: legum servi sumus ut liberi esse possumus). Garanzia di eguaglianza, perché tratta casi uguali in modo uguale; garanzia di certezza, in quanto la conoscenza della legge consente al cittadino di prevedere le conseguenze giuridiche delle proprie azioni e dunque di pianificare autonomamente la propria vita in rapporto al diritto; infine, garanzia di libertà, perché consente di «seguire la [propria] volontà in ogni cosa quando la legge non lo proibisca, e di non essere sottopost[i] all’incerto, ignoto, arbitrario volere di un’altra persona» [Locke 1982].

Ma occorre ricordare che la legalità ha un duplice volto: vista ex parte populi essa è infatti certamente una garanzia per il cittadino, mentre ex parte principis essa è un potente strumento di concentrazione del potere e di sua razionalizzazione, onde assicurarne la migliore efficienza [Fioravanti 1995; Holmes 2003]: non a caso il percorso della formazione dello Stato moderno si caratterizza per una progressiva accentuazione del ruolo della legge a scapito di tutte le fonti tradizionali del diritto, come la consuetudine e il diritto naturale. Inoltre, anche se inteso nella sua valenza garantista, il principio di legalità non ha necessariamente connotazioni liberali: se è vero infatti che l’autonomia individuale è il valore liberale per eccellenza, la libertà sub legem assicurata al cittadino non coincide tuttavia con un insieme di diritti di libertà, ma è solo lo spazio che residua dalla regolamentazione della legge, spazio che potrebbe essere anche assai angusto o al limite inesistente. Risulta dunque meno sconcertante la ragione per cui si siano potute appropriare della formula dello Stato di diritto anche ideologie illiberali e totalitarie: poiché il rispetto del principio di legalità ci dice soltanto «come» un ordinamento giuridico opera, ma non ci dice nulla sui suoi effettivi contenuti, l’idea di un regime illiberale che s’ispiri al principio di legalità non ha in sé nulla di logicamente incoerente [Raz 1979]. Bisogna però ammettere che nei sistemi totalitari storicamente esistiti questo principio ha ricevuto omaggi per lo più solo formali. È bene inoltre aggiungere che il resoconto qui fornito della legalità, come strumento «neutro» in relazione ai fini dello Stato, non è per nulla pacifico: vi è infatti chi ritiene che il rapporto tra il rispetto della legalità e l’accettabilità morale dei contenuti di un diritto non sia meramente contingente [Fuller 1969]; la legalità in questa visione è considerata l’antidoto quantomeno alle forme più eclatanti di ingiustizia. Vi è pure chi si spinge più oltre e, attribuendo alle «forme» della legalità un ruolo ancillare, identifica senza mezzi termini lo Stato di diritto con il dominio del diritto «giusto»[Dworkin 1990]: giusto, naturalmente, sulla base della propria idiosincratica concezione della giustizia. A questo genere di letture «sostanzialiste» è stato giustamente rimproverato di trasformare la teoria dello Stato di diritto in una complessiva filosofia sociale [Raz 1979; Craig1997]. Contro di esse vale dunque l’elementare cautela analitica che suggerisce di non mescolare problemi di ordine diverso, struttural-organizzativi e contenutistici. Vale poi la considerazione che una visione così potente dello Stato di diritto finirebbe per vanificare irrimediabilmente l’utilità medesima del concetto [Tamanaha 2004].

Tornando alla legalità nel nostro senso minimo, va aggiunto che la valenza garantista della legge, sia pure nei termini minimi e modesti sopra delineati, dipende a sua volta da una molteplicità di fattori. Intanto, la legge deve essere effettivamente generale e astratta e non racchiudere nella sua forma provvedimenti ad hoc o ad personam; poi, deve essere effettivamente dotata di una certa stabilità nel tempo; inoltre, non deve essere retroattiva, ossia non deve disciplinare condotte che hanno avuto luogo prima della sua entrata in vigore; ancora, deve essere resa pubblica con una qualche forma di promulgazione, ai fini della sua conoscibilità; a questi fini, deve essere inoltre compresa dai suoi destinatari; infine, deve avere un contenuto sufficientemente determinato e deve essere applicata fedelmente dagli organi esecutivi e giudiziari.

Molti dei fattori sopra elencati mettono in chiaro che la legalità non è una questione di tutto o niente, bensì di grado: infatti, le leggi possono cambiare più o meno rapidamente, essere più o meno chiare e precise, essere applicate più o meno fedelmente, senza che sia possibile tracciare confini netti e indicare un grado massimo di stabilità, precisione, chiarezza ecc. Oggi è un luogo comune della teoria del diritto che molti degli aspetti della legalità, per quanto desiderabili, non potranno mai essere compiutamente realizzati. Questo vale innanzi tutto per la comprensibilità delle leggi da parte dei loro destinatari: l’ideale settecentesco delle poche leggi semplici e chiare si è rivelato da subito utopistico di fronte al tecnicismo del diritto moderno e contemporaneo, una costruzione incredibilmente complessa che in realtà solo un ceto di professionisti, i giuristi, è in grado di decifrare e comprendere veramente. Analogo discorso vale per la determinatezza del contenuto delle leggi. La semiotica giuridica contemporanea ha dimostrato che nel diritto la vaghezza è ineliminabile, e ciò naturalmente si riverbera in modo negativo sulla obiettività della sua applicazione, con effetti a catena su tutta la costruzione della legalità e in particolare sulla eguaglianza e sulla certezza del diritto a essa legate. Infatti, perché sia effettivamente la legge a governare, gli organi chiamati a eseguirla o applicarla ai casi concreti non devono manipolarne il contenuto, non devono cioè compiere scelte ulteriori rispetto a quelle già compiute da chi l’ha emanata, ed è evidente che, quanto maggiore è la vaghezza della legge, tanto maggiore sarà la discrezionalità dei giudici e della pubblica amministrazione. La distinzione tra la creazione del diritto e la sua applicazione, che è il nocciolo del principio della separazione dei poteri, è fondamentale per la realizzazione dello Stato di diritto, ma è essa stessa una distinzione precaria e secondo alcuni addirittura illusoria.

Il modello dello Stato di diritto inteso nel senso minimo fin qui trattato, come «stato che opera attraverso la legge», è dunque più un ideale regolativo che non un modello effettivamente realizzabile nella sua pienezza. Resta ulteriormente da osservare che il rispetto della legalità formale, pur con tutti i vantaggi che essa apporta al cittadino, ha un prezzo, perché può condurre a sacrificare esigenze e valori antagonisti. Così, la stabilità delle leggi può ostacolare il loro rapido adeguamento alla mutata realtà sociale, la loro precisione può andare a discapito della loro capacità di adattarsi a circostanze variabili, la loro puntuale applicazione può confliggere con l’esigenza di un giudizio equitativo, l’irretroattività può condurre a sacrificare esigenze di giustizia, l’uguaglianza formale può compromettere quella sostanziale, e via dicendo. Insomma, come sempre accade in etica e in politica, anche nel caso della legalità ci si deve preparare ad affrontare dei costi morali, che andrebbero comparati in maniera possibilmente equanime coi benefici che essa apporta.

Fin qui si è dato conto del significato storicamente più risalente dello Stato di diritto, come stato che opera tramite le leggi (per leges) e si oppone al governo arbitrario. Questo significato s’intreccia però con un altro, oggi divenuto preponderante: il significato per cui lo Stato di diritto è quello sottoposto alla legge (sub legem), ossia è quello in cui tutti i poteri, compreso il potere di chi crea il diritto, sono soggetti alla legge e da essa limitati. In questa seconda versione, lo Stato di diritto non è più solo la negazione del potere arbitrario, ma anche del potere assoluto, e la teoria dello Stato di diritto acquista coloriture univocamente liberali.

L’idea più specifica e pregnante del controllo di ogni potere dello stato da parte del diritto è dunque tipicamente moderna e si collega storicamente alla nascita degli stati nazionali e al fenomeno dell’accentramento del potere che in essi si realizza. Non per caso la formula Stato di diritto, o meglio il suo equivalente in lingua tedesca, Rechtsstaat, viene coniata solo nella metà dell’Ottocento, diffondendosi poi a macchia d’olio dalla Germania in tutta l’Europa occidentale (si sviluppa invece autonomamente la storia del rule of law inglese, che tuttavia presenta notevoli parentele concettuali con quella continentale). I giuristi tedeschi della seconda metà dell’Ottocento interpretarono l’esigenza di circoscrivere il potere statale in termini di «autolimitazione»: sarebbe lo Stato medesimo a decidere di assoggettarsi a dei vincoli sottoponendosi alla legge e con ciò conferendo, come riflesso di questa autolimitazione, diritti ai cittadini. Da questa costruzione emerge in tutta la sua paradossale nitidezza il grande rompicapo dello Stato di diritto: se infatti è possibile entro certi limiti vincolare al rispetto della legge gli organi da essa creati (in specie giudici e pubblica amministrazione), come è possibile sottoporre alla legge l’organo medesimo che la crea, ossia contenere entro limiti «giuridici» il detentore della sovranità? Sovranità che, nella versione classica di Bodin (e poi in quella di Hobbes) viene raffigurata come potestas superiorem non recognoscens, come potere ab-solutus, ossia sciolto da vincoli. È questo il grande dilemma delle teoriche moderne dello Stato di diritto e la temibile sfida con cui il pensiero liberale dovrà perennemente confrontarsi.

Va subito detto che l’idea della sovranità come potere privo di limiti è più una costruzione, in chiave critica, della teoria contemporanea che non una tesi storicamente dotata di effettivo seguito. Gli storici ci dicono che, a dispetto di formule come quella di Bodin, la sovranità è stata per lo più (e dallo stesso Bodin) concepita come limitata: dal diritto divino, dalle consuetudini, dalle leggi fondamentali del regno, dai patti coi sudditi, dal diritto naturale [Costa 2002]. In particolare quest’ultimo, nelle fattezze di un catalogo di «diritti naturali», ha giocato un ruolo cruciale nella genesi del contemporaneo Stato costituzionale, di cui si dirà subito. Nel contrattualismo liberale di John Locke, i diritti naturali alla vita, libertà e proprietà, che ciascun individuo possiede dalla nascita, rappresentano un limite invalicabile allo stesso potere legislativo, al punto da legittimare in caso di loro violazione l’esercizio dell’ulteriore «diritto»naturale «di resistenza» al tiranno. Ma nelle teorizzazioni lockiane si tratta, appunto, di limiti «esterni» al diritto prodotto detentore della sovranità. Limiti in quanto tali percepiti come precari e comunque destinati al definitivo tramonto con l’imporsi, nell’Ottocento, di una visione del diritto interamente secolarizzata.

Neppure la celeberrima dottrina della separazione dei poteri, legata al nome di Montesquieu [Montesquieu 1989] ancorché prefigurata già da Locke, pare risolvere in modo del tutto soddisfacente il rompicapo. Quello di Montesquieu è indubbiamente il più potente tentativo di limitare il potere statale dall’«interno»; la distinzione tra il potere che produce il diritto e quello che lo applica, che abbiamo visto essere una fondamentale precondizione della legalità, diventa in questo autore un espediente organizzativo-istituzionale pensato precisamente in funzione di limitazione del potere, sulla base della semplice considerazione per cui la reciproca indipendenza fra i principali poteri dello stato (legislativo, esecutivo e giudiziario) è condizione perché ciascuno di essi possa costituire un argine agli altri.

Questo geniale artificio di ingegneria istituzionale è ormai patrimonio comune degli stati occidentali contemporanei, con la notevole eccezione della Gran Bretagna, ossia proprio del paese a cui Montesquieu si ispirava, dove paradossalmente la separazione dei poteri si è realizzata in modo assai limitato e peculiare; qui infatti si è passati senza soluzioni di continuità dall’idea medievale della monarchia limitata (limitata cioè nei suoi poteri dai diritti feudali ed ecclesiastici) alla nozione moderna di rule of law, riferita però a un sistema in cui il Parlamento è considerato giuridicamente onnipotente.

Ma la separazione dei poteri soffre di due limiti cruciali: da un lato, essa presuppone un ruolo del giudice affatto passivo rispetto alla legge; oggi tuttavia l’immagine montesquiviana dei giudici come «esseri inanimati» votati a fungere da «bocca della legge» è universalmente screditata, e questo impone almeno di ripensare i termini della distinzione tradizionale fra potere giudiziario e legislativo. Dall’altro lato, essa appare inadeguata a contenere quest’ultimo potere, specie dacché, col trionfo ottocentesco del positivismo giuridico e l’imporsi di una visione volontarista del diritto, ormai visto come prodotto esclusivo della volontà umana, è caduta in discredito l’idea di limiti «naturali» al potere, in specie il diritto naturale. Neppure il carattere democratico-rappresentativo dell’organo legislativo costituisce un antidoto al pericolo giacché, come l’esperienza rivoluzionaria francese ha mostrato, anche il popolo può farsi tiranno.

Con la teoria e la pratica del costituzionalismo contemporaneo, la discussione sullo Stato di diritto pare giunta a un punto di svolta, perché molti ritengono di aver finalmente trovato una soluzione, semplice come quella di Montesquieu ma al contrario di essa davvero risolutiva, al problema del controllo del potere sovrano: soluzione consistente nel vincolarne l’operato al rispetto di norme di grado superiore alla legge, ossia a una «Costituzione». La Costituzione funge da limite al potere legislativo non solo disciplinando le «forme» in cui esso si esplica, ma anche fissando vincoli di «contenuto» alle leggi, vincoli primariamente rappresentati da un catalogo di diritti individuali, positivi quanto alla fonte ma identici nel contenuto ai diritti naturali della tradizione inaugurata da Locke. Ma la Costituzione, per garantire effettivamente contro l’arbitrio del legislatore, deve essere a sua volta garantita; i principali accorgimenti al riguardo consistono in primo luogo nel renderne più ardua la modifica o addirittura nel sancirne la parziale o totale immodificabilità e in secondo luogo nel sottoporne l’osservanza da parte del legislatore al controllo diffuso dei giudici comuni o al controllo giurisdizionale di un organo apposito, una Corte Costituzionale.

Per di più, nel modello dello «Stato costituzionale di diritto», sembrano trovare compiuta attuazione non solo il principio di legalità, ma anche il «principio democratico» (tramite i diritti politici e un parlamento rappresentativo), il «principio liberale» (tramite il riconoscimento dei diritti civili e di libertà), nonché le istanze di «giustizia sociale» (tramite il riconoscimento di diritti sociali) [Ferrajoli 2008].

Non è questa la sede in cui discutere di una tale raffigurazione irenica dello Stato costituzionale. Basti qui osservare che i suoi principi costitutivi, lungi dal combinarsi armoniosamente, esprimono viceversa istanze in perenne conflitto reciproco. Per quel che qui rileva, il sospetto è che l’aspirazione soggiacente all’idea dello Stato di diritto non soltanto non trovi il suo coronamento nel modello dello Stato costituzionale, ma possa essere da esso addirittura minacciata. L’immagine del governo della legge, per quanto suggestiva, rischia infatti di occultare la circostanza che nessuna disposizione giuridica si crea, s’interpreta e si applica da sé medesima. Il governo della legge, come già aveva ben chiaro Hobbes, è in realtà sempre governo di individui in carne e ossa e, per quanto ci si periti di imbrigliare il potere di fare il diritto aggiungendo stratificazioni normative all’ordinamento, «ci sarà sempre qualcuno – non qualche testo bensì qualche «corpo»– a cui spetta l’ultima parola»: e sarà questo corpo il vero legis-latore della società, ancorché sotto altro nome [Waldron 2002]. A questa cruda lezione di realismo politico non si sottrae neppure lo Stato costituzionale, in cui il vincolo normativo della Costituzione sulla legislazione ha come inevitabile contropartita un ampliamento smisurato dei poteri delle Corti Costituzionali e dei giudici comuni a cui è affidato il controllo delle leggi. Infatti la legalità costituzionale non è affatto un vincolo più pregnante rispetto alla «mera» legalità dello Stato ottocentesco, perché le Costituzioni sono raccolte di disposizioni intrinsecamente vaghe e controverse che catalizzano i conflitti di valore apicali in una società, sono un terreno di lotta etico-politica per far prevalere una tra le tante filosofie sociali in campo. E quando l’ultima parola spetta ai giudici, il potere legislativo non risulterà limitato ma solo dislocato altrove (a detrimento, occorre aggiungere, del carattere democratico-rappresentativo dell’ordinamento).

Se questo è vero, occorre allora ripensare il problema dello Stato di diritto, non tanto per accantonare come wishful thinking la secolare aspirazione legata a questa formula, quanto per affrontarlo con la coscienza del carattere giocoforza precario e dei costi morali di ogni soluzione «giuridica»del rompicapo. In assenza di ricette infallibili, occorrerà forse recuperare l’antica idea dei limiti «naturali» al potere. Certo non in termini di un ritorno al passato, impossibile e neppure desiderabile, o peggio al diritto naturale, ma come consapevolezza che l’acume giuridico e l’ingegneria applicata alle istituzioni politiche, per quanto fondamentali, non possono far tutto: quella dei limiti al potere è anche, e forse soprattutto, una questione di assetto sociale, di cultura politica, di etica liberale. La storia del concetto cugino di rule of law è in questo senso emblematica, perché in Gran Bretagna l’idea del governo della legge si è imposta nonostante l’assenza delle forme giuridiche ritenute essenziali allo Stato di diritto.

Bibliografia

Bodin J., I sei libri dello Stato, a cura di M. Isnardi Parente, 3 Voll. Utet, Torino 1988-1997; Costa P., Lo Stato di diritto: un’introduzione storica, in Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, a cura di P. Costa, D. Zolo, Feltrinelli, Milano 2002; Craig P., Formal and Substantive Conceptions of the Rule of Law, in «Public Law» 1997; Dworkin R., Questioni di principio, il Saggiatore, Milano 1990; Fassò G., Società, legge e ragione, Comunità, Milano 1974; Ferrajoli L., Principia iuris, 2 Voll., Laterza, Roma-Bari 2008; Fioravanti M., Principio di legalità e Stato di diritto, in «Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari», Quaderno n. 5, Giappichelli, Torino 1995; Fuller L.L., La moralità del diritto, Giuffré, Milano 1969; Hobbes T., Leviatano, a cura di A. Pacchi, Laterza, Roma-Bari 1996; Holmes S., Lineages of the Rule of Law, in Democracy and the Rule of Law, a cura di J.M. Maravall, A. Przeworski Cambridge University Press, Cambridge 2003; Locke J., Due trattati sul governo, a cura di L. Pareyson, Utet, Torino 1982; Raz J., The Rule of Law and its Virtue, in Id., The Autority of Law. Essays on Law and Morality,Clarendon Press, Oxford 1979; Secondat de Montesquieu C.L., Lo spirito delle leggi, BUR, Milano 1989; Tamanaha B.Z., On the Rule of Law. History, Politics and Theory, Cambridge University Press, Cambridge 2004; Waldron J., Is the Rule of Law an Essentially Contested Concept (in Florida)?, in «Law and Philosophy» 2002.

Brano tratto dal "Dizionario del liberalismo italiano", edito da Rubbettino Editore. Clicca qui per acquistarlo con il 15% di sconto