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Scuola e istruzione

di Gabriella Ciampi

Parlare di scuola e di istruzione significa parlare della storia dell’Italia unita.

La ricerca storiografica degli ultimi trenta anni, le tematiche affrontate, le domande che sono via via emerse con sempre maggiore urgenza, hanno portato ad analisi e verifiche che hanno stabilito un nesso costante fra formazione della coscienza nazionale e formazione del cittadino.

Moderati, liberali, democratici, l’élite intellettuale del paese nella sua interezza, pur distinta per canoni ideologici e per metodologia politica, posero come problema fondamentale e fondante per la costituzione e per lo sviluppo del nuovo stato, nel 1861, la questione scolastica. Quanti diressero la cosa pubblica fecero propria la consapevolezza che istruzione significava insieme scolarizzazione – e dunque saper leggere e scrivere – ma anche educazione. L’educazione del popolo di mazziniana matrice appare l’elemento che più interagisce nell’approccio che la classe politica postunitaria ebbe nell’affrontare la questione dell’educazione delle masse. Una società borghese, quale fu quella che operò a partire dal 1861, che pragmaticamente pose al centro delle sue priorità la costruzione e il buon funzionamento della macchina dello stato a essa affidata, si fece interprete del dovere di trasformare il «regnicolo» in cittadino. Ne conseguirono scelte e comportamenti, talora coerenti, talora dissonanti.

La scelta di adottare in tutto il regno la legge Casati formulata in regime di pieni poteri – il testo legislativo è del 13 novembre 1859 – nacque non da incuria o disinteresse. La scansione di disegni di legge sull’istruzione presentati fra il 1861 e il 1865, anno delle grandi leggi unificatrici, attesta la volontà di produrre un testo nuovo, che recepisse appieno la novità della nuova realtà statuale. Il testo più organico che prefigurava la scrittura di un nuovo Codice scolastico fu presentato da Terenzio Mamiani, titolare del dicastero della pubblica istruzione dal gennaio 1860 al marzo 1861, ma doveva restare un tentativo concluso ancor prima dell’uscita di Mamiani dal governo e che coincise con la stagione dell’ipotesi di un sistema incentrato su una possibile forma di autonomia territoriale, le note Farini-Minghetti, ove anche l’istruzione pubblica trovava un suo collegamento.

I testi successivi di De Sanctis e Matteucci, il confronto intenso, animato, talora aspro, che si sviluppò su riviste, su giornali parvero ridursi al principio della praticabilità piuttosto che della congruità generale. Da subito si decise di abbandonare il progetto ambizioso di un disegno complessivo, articolato in tutte le tipologie proprie di una legge sull’istruzione pubblica, ma si procedette per ambiti definiti, per spazi delimitati e questo modo di procedere si accompagnò alla scelta di attuare la legge Casati sull’intero territorio nazionale, affidando a quel testo il compito di costituire la cornice unificante e omogenea su cui avviare l’opera urgente della formazione del cittadino italiano.

La domanda di fondo è perché non si seppe produrre un testo unitario e del tutto originale. La linea identificata da Mamiani, di una sorte di costituzione morale dello stato nuovo si fermò per una serie di paralisi e di emergenze. Discutere una legge sull’istruzione significava fra l’altro impegnare le Camere per un lungo periodo e nel frattempo lasciare il paese con norme giuridiche dissonanti. Applicare la Casati, e l’attuazione fu comunque immediata solo per il titolo V relativo all’istruzione elementare, permetteva di dare da subito una cornice di riferimento, per mostrare la presenza dello stato sul territorio, senza lasciare vuoti pericolosi in un settore – la scuola – che fotografava immediatamente la capacità del nuovo stato, liberale e laico, di imporre la sua idea di istruzione.

Gli studi hanno messo in luce come l’uniformità legislativa e l’accentramento amministrativo nascondessero in verità una reale attenzione per la distinzione, per la specificità: il rapporto Stato/società civile o per meglio dire alto/basso, fu da subito la lente adottata per leggere la realtà dissonante del paese e attraverso tale lettura individuare possibili atti concreti con i quali produrre una fattiva circolazione fra esigenze specifiche e necessità assolute, fra centro e periferia.

La storia della scuola appare dunque caratterizzata dalla volontà di avvalersi di organi di mediazione fra stato e società civile, così da creare un’interazione proficua fra cultura e politica, sviluppo ed esigenze del paese: rapporti difficoltosi spesso, come ad esempio esplicita il ruolo svolto dal Consiglio superiore della pubblica istruzione, ma che pur tuttavia esprimono il «fervore educativo» – la bella espressione è di Angiolo Gambaro – contenuto in quel «sistema di libertà media» di cui la legge Casati era espressione e che pienamente rispondeva alle finalità della classe dirigente.

L’ordinamento dell’istruzione toccava la società per diffusione, come un insieme di innumerevoli rivoli sotterranei. L’utente era una entità a più facce: accanto allo studente spiccava la figura del docente, specie il maestro, che diveniva di fatto il primo rappresentante dello stato con il quale la società circostante entrava in contatto. Senza maestri, senza professori idonei, il procedere scolastico non poteva trovare sostanza e dunque la costruzione del docente diventava l’immediato obiettivo da raggiungere proprio per il pieno e consapevole uso della libertà d’insegnamento. Il nesso fra discenti e docenti era ineludibile. I numeri relativi all’analfabetismo sono quelli più noti, certamente di suggestione immediata; ma il problema di saper educare chi dovrà educare è il banco di prova forse il più significativo per chi governa. La trasmissione del sapere, inteso nell’accezione lata, non significava solo trasformate la plebe in cittadinanza, ma significava in primo luogo proporre e trasmettere un modello culturale agli educatori, a quanti erano già sul mercato, in attesa di produrre un gruppo di espressione di uno stato nato da ideali e proponimenti politici perlopiù estranei, quando non ostili, alla maggior parte degli stessi operatori. Il problema del reclutamento del corpo insegnante, sia per l’istruzione elementare sia per l’istruzione secondaria, si sarebbe rivelato come una delle difficoltà operative più forti e soprattutto perduranti nel tempo.

Il cambio della maggioranza politica avvenuta nella primavera 1876 con la rivoluzione parlamentare fece registrare un rilancio di progettualità nella questione dell’alfabetizzazione. Il testo Coppino, che senza intervenire sul dettato della Casati imponeva il primo biennio obbligatorio, gratuito e laico, sottolineava con forza il valore della funzione educatrice. La riforma si collegava a un primo ampliamento della legge elettorale, introducendo come elemento essenziale per esercitare il diritto al voto la categoria della capacità, attestata dal superamento dell’esame di «proscioglimento», che diveniva, dunque, la fonte principale del diritto all’elettorato politico. Al di là dell’allargamento del corpo elettorale conseguito dalla legge (nella sua prima applicazione nelle elezioni del 1882 il corpo elettorale passò da circa 800.000 a circa 2 milioni di cittadini) il significato vero stava nella connessione fra istruzione e formazione del cittadino nella sua interezza, civile e politica. Non è un caso che l’art. 2 del testo della legge Coppino recitava che all’alunno dovevano essere insegnate «le prime nozioni sui doveri dell’uomo e del cittadino» – che diventavano per così dire l’intelaiatura cui facevano da corredo «la lettura, la calligrafia, i rudimenti della lingua italiana, dell’aritmetica e del sistema metrico», le materie dell’insegnamento del corso elementare inferiore.

Che nulla fosse ovvio sui compiti e sugli obiettivi da raggiungere nel governare la scuola lo attestano le riserve espresse circa un’indifferenziata istruzione senza contestualmente produrre la trasformazione delle condizioni economiche e sociali del paese. Era questa la tesi di Pasquale Villari che, nel suo noto articolo La scuola e la questione sociale in Italia apparso nel 1872 sulla «Nuova Antologia», si chiedeva preoccupato: «Se vi riuscisse d’insegnare a leggere e a scrivere a quella moltitudine, lasciandola nelle condizioni in cui si trova, voi apparecchiereste una delle più tremende rivoluzioni sociali»: dunque «o lasciare il popolo nella sua ignoranza o […] educarlo e migliorare le sue condizioni economiche e sociali».

La scuola era la questione sociale: i dati relativi al tasso di analfabetismo in Italia nel primo ventennio postunitario illustrano una realtà ancora numericamente pesante: tra il 1861 e il 1871 gli iscritti alle scuole elementari erano passati da 1.109.224 a 1.604.978; nel 1881-82 gli iscritti risultavano 1.736.482. In breve: dal 1861 al 1901 la percentuale degli alfabetizzati passava dal 25 per cento al 50 per cento. C’era stata certo «una crescita lenta, anche se costante» [Vigo 1971, p. 47], ma restava pesante il distacco con le nazioni europee più progredite che avevano pressoché sconfitto l’analfabetismo. Oltre a ciò pesava la disomogeneità territoriale, che si confermava centrale nella questione dell’istruzione popolare.

Su questo aspetto appuntò la sua attenzione Sonnino, collegando la questione dell’analfabetismo al tema dell’emigrazione, che si stava proponendo, proprio per i drammatici dati quantitativi, come il problema strutturale del primo Novecento. Sonnino in particolare faceva riferimento all’emigrazione italiana diretta verso l’America del Nord, quella che difficilmente sarebbe rientrata in patria, e in un suo articolo apparso nel 1902 su «Il Giornale d’Italia» rabbiosamente denunciava: «Fa pena il vedere, nelle statistiche pubblicate dall’Ufficio federale d’immigrazione degli Stati Uniti, classificata l’Italia del Nord distintamente dall’Italia del Sud, valutando la percentuale degli immigranti analfabeti nell’ultimo triennio, per la prima a 11,8 e per la seconda a 42,8. Il sig. Shattuc, autore della legge ora in discussione, proponeva al comitato senatoriale di esonerare da ogni esame di analfabetismo tutte le nazionalità che dessero una media di analfabeti non maggiore del 10 per cento. Se questa percentuale si elevasse al solo 12 per cento, vedremmo in base alle statistiche federali ammettersi senza esami gli immigranti dell’Italia superiore, e non quelli meridionali, quasi si trattasse di due razze diverse. È inutile voler noi chiudere gli occhi a tutti questi fatti» [Sonnino 1972, I, pp. 930-1].

Da questo sdegno nasceva la proposta di legge del radicale Daneo, ministro della Pubblica Istruzione nel primo governo Sonnino (1906), poi ripresa dall’altro radicale Credaro, ministro della pubblica Istruzione prima con Luzzatti, poi nel «lungo» ministero Giolitti: nel 1911 diventava legge l’avocazione dell’istruzione elementare allo stato. Era la vittoria del «partito degli educatori» e delle competenze pedagogiche e soprattutto era la vittoria dello stato che assumendo il carico dell’istruzione elementare «poteva così imprimere nuovi impulsi alla società, rafforzando la sua presa su di essa, e farsi garante della coesione nazionale» [De Fort 1996, p. 282]. La legge Daneo-Credaro recepiva dunque l’esigenza di portare finalmente a compimento l’abbattimento dell’analfabetismo e di conseguenza di sancire appieno il principio della capacità, che, alla vigilia del suffragio universale maschile (1912), si poneva a garanzia del tessuto sociale, nel complesso passaggio a una società di massa, quale si stava verificando anche in Italia.

È stato ampiamente sottolineato come la costruzione centrale dell’istruzione esplicitata dalla politica liberale risiedesse nella istruzione classica, ritenuta essenziale per la formazione della classe dirigente: il ginnasio di 5 anni e il liceo di tre erano destinati a quanti costituivano «il cemento» che manteneva insieme il corpo della nazione – l’espressione è sempre di Pasquale Villari. L’alternativa costituita dalla istruzione tecnica sanciva la netta destinazione d’uso fra quanti seguivano un percorso finalizzato all’immediata applicazione delle competenze acquisite nel mondo del lavoro e quanti passavano all’istruzione universitaria, per approdare poi nel mondo delle professioni liberali e amministrative.

Il quadro della formazione prevedeva infine l’istruzione tecnica con la presenza delle scuole tecniche triennali seguite dagli istituti tecnici, anch’essi triennali. Era il settore dedicato a quanti intendevano «dedicarsi a determinate carriere del pubblico servizio, alle industrie, ai commerci ed alla condotta delle cose agrarie» [art. 272], ma la sua diversità o per meglio dire la sua subalternità era acclarata dal fatto che la legge Casati l’avesse confinato al terzo ramo dell’istruzione, insieme all’istruzione primaria. L’impalcatura formativa dell’istruzione classica era disegnata sulle discipline umanistiche. Il liceo classico era costruito con l’assoluta prevalenza delle materie umanistiche (l’80 per cento del monte ore): nel biennio ginnasiale gli insegnamenti scientifici si limitavano allo studio dell’aritmetica, con 9 ore settimanali in tutto, e solo al ginnasio superiore e al liceo erano presenti gli insegnamento di fisica e di storia naturale. L’istruzione classica dunque vedeva il sostanziale prevalere di un impianto classicistico e linguistico letterario. Centrale risultava l’insegnamento della lingua: la padronanza della lingua parlata e scritta era il punto centrale e prioritario nel processo formativo della futura classe dirigente e rappresentava il nucleo dell’identità nazionale. I grandi prosatori del passato erano proposti come esemplari nel saper costruire la struttura del comporre, per procedere all’acquisizione piena degli strumenti idonei per tradurre i pensieri in parole. La lingua, volgare e classica, era il passe partout per comunicare con l’età passata e presente, con il procedere del sapere. La scuola doveva portare il giovane a seguire un excursus, che costringeva le menti giovanili in pochi anni a percorrere passaggi secolari, a calarsi nelle pieghe intime, profonde della costruzione dell’identità dell’uomo contemporaneo. La padronanza della lingua, in questo caso greca e latina, assicurava la capacità di analizzare il testo originale e dunque di verificare individualmente il divenire della civiltà occidentale.

Il possesso della cultura generale avveniva con piena consapevolezza a detrimento delle scienze, considerate in qualche modo «applicative». In realtà, il dibattito su una possibile riforma del sistema prese subito vita. I tentativi furono vari, a cominciare dalla riforma generale ipotizzata da Mamiani. La necessità di rafforzare nell’impianto curriculare dell’istruzione classica lo studio delle scienze, oltre che delle lingue vive, significava sostituire a una scuola classica una scuola «elastica», che, recependo significativamente fra le tante istanze politiche, anche le sollecitazioni di Arturo Graf e Cesare Lombroso – poeta e letterato l’uno, antropologo l’altro –, ponesse rimedio a quella impreparazione media nel campo delle scienze, che, di fatto, relegando le materie scientifiche al più basso monte ore rispetto ai principali paesi europei, rafforzava il ritardo del decollo industriale e tecnologico del paese, mentre, paradossalmente, il dialetto restava la lingua prevalente.

Rigidamente strutturato il percorso formativo disegnato dalla legge Casati, cui corrispondeva un’altrettanto rigida divisione di competenze, e dunque di sbocchi professionali, con il procedere degli anni mostrava indubbie inadeguatezze rispetto ad una società in forte cambiamento. Mantenere un’istruzione secondaria fondata sul ginnasio-liceo classico, ingabbiato in un percorso curriculare e didattico che privilegiava gli studi linguistici e letterari, lasciando da parte gli studi scientifici in quanto ritenuti non riconducibili alla cultura generale, significava produrre squilibri che rifluivano anche nel rapporto con il mondo del lavoro. L’incapacità di produrre nella scuola secondaria un reale progetto innovativo, frutto di una elaborazione condivisa, portava a procedere per interventi settoriali, aggrappandosi «ora al modello francese ora al modello tedesco» [Raicich 2005, p. 191].

Non per nulla l’avvio del ventesimo secolo corrispose alla ripresa delle indagini sul campo. Nel 1905 era istituita la «Reale Commissione per l’ordinamento degli studi secondari in Italia», fortemente voluta dal ministro Leonardo Bianchi per elaborare una concreta proposta per istituire una scuola media unica inferiore incardinata sullo studio della lingua italiana, della storia e della geografia, alla quale far seguire tre percorsi currriculari ben distinti: la scuola normale, l’istituto tecnico e il liceo, a sua volta suddiviso fra classico, incentrato sullo studio di greco e latino, e «moderno», con la presenza del latino, ma anche delle scienze e di una lingua viva. La Commissione, presieduta da Paolo Boselli fu vittima dei forti contrasti interni, primi fra tutti con Salvemini: ne usciva la debole proposta di un’istruzione media inferiore unica nel senso di tre scuole – ginnasiale, tecnica, complementare – tutte di durata triennale. Di seguito l’istruzione media superiore, avrebbe dovuto confluire nelle scuole tecniche e professionali e nei licei-classico, scientifico, moderno.

Fu il ministro Credaro nel 1911, in concomitanza con il primo cinquantenario dell’Unità, a proporre atti concreti per far entrare la cultura scientifica e le lingue moderne nel pacchetto formativo dello studente italiano che si è ormai affacciato al XX secolo: si aprirono in forma sperimentale licei «moderni» a Roma, Firenze, Milano, Torino, Palermo, ove, accanto al latino si proponeva lo studio di tedesco e inglese e il prolungamento del francese, oltre al maggior peso attribuito alle materie scientifiche e all’introduzione di elementi di scienze giuridiche ed economiche. «Il ginnasio liceo-moderno non ebbe comunque lunga vita e fu abolito qualche anno dopo con la riforma Gentile. Con esso scompare il più serio tentativo di ammodernamento liceale che lo Stato tentò di portare avanti nell’età liberale e, conseguentemente, si mortificano le istanze timidamente innovative che si erano affermate in quegli anni» [Bonetta 1995, p. 76]

La proposta di una scuola media unica suscitava la netta contrapposizione fra chi la riteneva la scuola democratica per eccellenza attraverso la quale favorire una reale mobilità sociale e chi la accusava di falsa democrazia perché inutile sia verso la formazione alta sia verso la formazione popolare. Si trattava di troncare nodi che purtroppo erano destinati a restare irrisolti: non se ne fece certo carico la riforma Gentile che creava sì il liceo scientifico ma nel contempo lo distingueva nettamente dal binario ginnasio-liceo classico, riaffermando così la centralità dell’istruzione classica e soprattutto distinguendo nettamente le funzioni del sapere.

Solo con l’Italia repubblicana il tema di un’adeguata istruzione di base, sollecitata fortemente dai settori industriali, anche a causa delle forti emigrazioni interne Sud-Nord e dalla necessità di poter disporre di una forza lavoro capace, portò, dopo il fallimento di portare a compimento la riforma Gonella, all’approvazione nel 1962 della scuola media unica dell’obbligo. Malgrado il tema della scuola diventasse centrale nel dibattito interno dei partiti e producesse l’incontro fattivo con gli «esperti» del mondo della scuola e della cultura, non si riuscì a produrre una riforma strutturale della scuola secondaria e ci si rifugiò nel metodo della «sperimentazione», che al di là di alcune positive innovazioni, «comportava anche il declino dell’iniziativa propriamente politica a tutto vantaggio dell’amministrazione» [Talamo 1960, p. 681].

Bibliografia

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