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Sciopero/Serrata

di Gianni C. Donno

Le definizioni di sciopero sono molteplici, variando a seconda dei tempi, dei luoghi, delle modalità, dei protagonisti. Così che si è parlato di sciopero come forma di protesta con finalità di rivendicazione economica, di sciopero «politico» (sino alla forma estrema dello sciopero generale), legato a richieste più ampie, spesso estranee al rapporto di lavoro, di sciopero «bianco», sciopero «a rovescio», ecc. La definizione più coerente e accettata risulta quella di sciopero come «ritiro del lavoro», nel rapporto di scambio col salario. Ma forme di sciopero possono essere individuate nei lavori abusivi del contadiname meridionale e della Bassa padana, a cavallo fra Otto e Novecento e nel primo e nel secondo dopoguerra, nelle azioni di boicottaggio in diverse fasi della produzione, nel danneggiamento delle linee produttive o dei materiali, nella esatta applicazione del mansionario (a tal punto da quasi paralizzare le attività, come nel caso dello sciopero ferroviario del 1905), nella occupazione di campi o fabbriche. In generale lo sciopero è un’azione collettiva, organizzata o meno (sciopero spontaneo).

Nell’Italia postunitaria, sin dal 1884 si prestò a questo fenomeno sociale una particolare attenzione, che si accrebbe con l’attivazione dell’Ufficio del Lavoro (1901) e l’elaborazione di più affinate statistiche per aree territoriali e settori produttivi. Ma già per la classe dirigente liberale postunitaria la questione era divenuta centrale nella considerazione dei modi dello sviluppo del nascente apparato industriale e, al contempo, come fenomeno di ordine pubblico, per quanto riguarda le frequenti agitazioni contadine.

Una prima strutturata rilevazione del fenomeno è rintracciabile negli atti dell’Inchiesta industriale del 1870-74 e, subito dopo, negli scritti del cavalier Alessandro Rossi, primo fra i grandi capitani d’industria del Belpaese. Nella ideologia paternalistica che caratterizza azione e pensiero del Cavaliere, e con lui di tanti capitani d’industria, lo sciopero è azione riprovevole, in quanto turba il corretto rapporto produttivo e anche umano fra le parti, originando una contesa nociva a entrambe. E Alessandro Rossi era – e sarebbe stato poi così ricordato – un imprenditore moderno e di idee assai avanzate, esponente di quella classe dirigente liberale, che fuorusciva da vecchie posizioni del conservatorismo politico-economico.

L’inchiesta industriale del 1870-74 tracciava una significativa divisione, in merito alle azioni e al giudizio sullo sciopero, fra il settore tessile, assai legato ancora al lavoro a domicilio (con forte presenza della figura di operaio-contadino), insieme con quello delle manifatture con prevalente manodopera femminile e minorile, e il settore dell’industria pesante, allora in avvio di sviluppo tecnologico. Nel primo settore lo sciopero risultava raro e comunque ritenuto frutto della cattiva propaganda di «mestatori» o «visionari», che turbavano con le loro idee i timorati costumi dei lavoratori e l’equilibrato svolgersi delle attività. Di fronte a ciò la principale risposta, autorevole e necessaria, era ritenuta il licenziamento. Diversa la situazione del settore siderurgico, metallurgico e meccanico, in discreta evoluzione tecnologica e con maestranze sempre più specializzate. Qui la predicazione degli «istigatori» e dei «dottrinari» doveva essere prevenuta, «accogliendo le richieste giudicate legittime, purché presentate in modo pacifico e non organizzato» [Baglioni 1974].

Alessandro Rossi, di lì a pochi anni, dava una complessiva testimonianza dell’autoritarismo padronale di fronte agli scioperi, in una serie di scritti in cui elaborava quello che è stato definito paternalismo «organico». La protesta operaia attraverso lo sciopero – affermava Rossi – ha primaria origine nell’egoismo padronale, un «industrialismo pagano e spregiudicato», che ha costretto i lavoratori alla protesta – e da lì all’organizzazione sindacale e socialista – per le difficili condizioni di lavoro e di vita che ha instaurato. Cosicché è compito primario dell’industriale ricondurre al senso religioso della pacifica convivenza del tempo andato, attuando egli provvidenze a favore dei lavoratori. Non lo Stato (chiamato a non interferire) né le organizzazioni sindacali si sarebbero dovuti occupare di ciò, bensì i datori di lavoro spontaneamente, secondo una visione – appunto religiosa e paternalistica – del proprio ruolo.

Filantropismo e paternalismo delle origini dello sviluppo industriale italiano, che Stefano Merli ha definito «feudale» [Merli 1972], per le concessioni dall’alto: case operaie, cucine economiche, assistenza medica, asili-nido, lavatoi, convitti-dormitori, scuole d’arti e feste operaie, ecc. È ritenuta, questa, una forma globale di truck-system, realizzata in forme differenti: «un truck-ricatto continuo che minaccia a ogni sciopero di creare dei senza tetto e dei senza lavoro».

A distanza di un ventennio, agli albori della rivoluzione industriale italiana, l’atteggiamento degli imprenditori, in merito ai rapporti di lavoro e allo sciopero, è radicalmente mutato. Ne è testimonianza la bella inchiesta del giovane Luigi Einaudi, apparsa su «La Stampa» di Torino, nel settembre 1897. Percorrendo le valli del Biellese, Einaudi, incaricato di far la cronaca degli scioperi dei tessili, ricorda il tempo «patriarcale», ormai andato, del paternalismo padronale e assiste al «meraviglioso» rivolgimento dei rapporti di lavoro, che, come nel caso inglese, si volgono al superamento del contrasto acuto – quali sono lo sciopero e la serrata – verso le moderne forme di arbitrato e contrattazione. Einaudi è attento all’esperienza inglese, ormai molto avanzata per ciò che riguarda le relazioni industriali, ma dalla vicenda del Biellese trae spunti nuovi di riflessione e di proposta, indirizzati alle parti in campo: operai, industriali, governo:

Lo sciopero che ancora si prolunga tra i tessitori della Val Sessera e dilaga sporadicamente anche nelle altre valli ed in Biella non è stato privo di insegnamenti agli interessati nell’industria della lana. Agli operai ha insegnato che la tattica degli scioperi deve essere sottile e sapiente e richiede accorgimenti e cautele infinite riguardo ai modi e ai tempi più opportuni […] Sovratutto esso ha insegnato loro a pregiare ed a valersi accortamente dell’arma della solidarietà mercè la lega di resistenza […] Le leghe, che ad alcuni industriali paiono mafie occulte e pericolose da sopprimersi colla forza della legge, sono invece i portati naturali e necessari della grande industria moderna. Ora sono semplici strumenti per lo sciopero, come erano le prime unioni artigiane inglesi. Ma avverrà delle leghe italiane come delle unioni inglesi. Queste, col crescere in potenza ed in ricchezza, videro la utilità di proseguire atri scopi, oltre la resistenza agli industriali, e crearono così nel loro seno casse contro la vecchiaia, la invalidità, le malattie, la disoccupazione, ecc. I capi di potenti unioni guardano con diffidenza allo sciopero, che farebbe sfumare come nebbia al vento le centinaia di migliaia di lire di riserva penosamente accumulate e porrebbe in pericolo il servizio delle pensioni e dei sussidi per malattia e per disoccupazione. Tutte le più potenti unioni artigiane inglesi preferiscono allo sciopero le trattative, gli arbitrati, le reciproche concessioni […] Gli industriali, dal canto loro, hanno imparato quanto valore risieda nell’amichevole accordo per opporsi alle domande degli operai […] Molti industriali sono avversi all’arbitrato, alle trattative con le leghe di resistenza, e si dimostrano riluttanti persino a nominare i membri della loro parte nei futuri collegi dei probi-viri, perché credono che arbitrato significhi resa, abdicazione della propria indipendenza […] Pel governo, finalmente, scaturiscono dallo sciopero biellese insegnamenti gravi e solenni. La tranquillità delle masse operaie scioperanti ha dimostrato che è inutile e pericolosa la repressione nei conflitti fra capitale e lavoro [Einaudi 1897].

Le sollecitazioni del giovane liberale trovavano sostegno nell’esperienza del probivirato che, con esiti diversi, veniva realizzandosi in Italia. Qui lo Stato interveniva soltanto con leggi (295/1893), che tracciavano le norme per la costituzione di quest’Ufficio nelle diverse province. Al 1897-98, il numero dei collegi di probiviri era salito a 59 (28 funzionanti), con una crescita significativa nel 1899 (86/39) [Zaninelli 1973]. E tuttavia la conflittualità, sino al 1901 si sarebbe dimostrata difficilmente governabile con gli strumenti dell’arbitrato. La stessa agitazione del Biellese si sarebbe conclusa ben 7 mesi dopo con un accordo fra le parti.

Einaudi torna a interessarsi dello sciopero, in occasione dell’agitazione nel porto di Genova del dicembre 1900, che aveva portato allo scioglimento prefettizio della locale Camera del lavoro. Qui l’analisi è chiara: si tratta di uno sciopero politico, in difesa della libertà di associazione, scaturito da richieste salariali, e rispetto al quale «il governo deve mantenersi al disopra dei partiti, non cedere né ai desideri degli imprenditori né ai clamori degli operai i quali chiedano interventi illegali a favore di una parte». La condanna dell’operato del prefetto e – dietro di questi – del governo Saracco, si accompagna alla constatazione del grave danno che lo sciopero, ormai generale, porta all’economia genovese e nazionale. Ripetuta è la richiesta di istituzione di un Tribunale dei probiviri. Il giovane Einaudi esprime una visione avanzata delle relazioni industriali, che di lì a pochi giorni sarebbe stata riproposta, in un dibattito parlamentare sul caso dello scioglimento prefettizio della Camera del Lavoro di Genova, da Giovanni Giolitti, poi divenuto nel marzo 1901 ministro dell’Interno del nuovo gabinetto Zanardelli:

Pur troppo persiste ancora nel Governo, ed in molti dei suoi rappresentanti, la tendenza a considerare come pericolose tutte le Associazioni di lavoratori. Questa tendenza è effetto di poca conoscenza delle nuove correnti economiche e politiche che da tempo si sono determinate nel nostro come in tutti i paesi civili, e rivela che non si è ancora compreso che la organizzazione degli operai cammina di pari passo col progresso della civiltà […] La ragione principale per cui si osteggiano le Camere del lavoro è questa: che l’opera loro tende a far crescere i salari. Il tenere i salari bassi comprendo che sia un interesse degli industriali, ma che interesse ha lo Stato di fare che il salario del lavoratore sia tenuto basso? […] Il Governo, quando interviene per tenere bassi i salari commette un’ingiustizia, un errore economico e un errore politico. Commette un’ingiustizia, perché manca al suo dovere di assoluta imparzialità fra i cittadini, prendendo parte alla lotta contro una classe. Commette un errore economico, perché turba il funzionamento della legge economica dell’offerta e della domanda, la quale è la sola legittima regolatrice della misura dei salari come del prezzo di qualsiasi altra merce. Il Governo infine commette un grave errore politico, perché rende, nemiche dello Stato, quelle classi le quali costituiscono in realtà la maggioranza del paese. Solo tenendosi completamente al di fuori di queste lotte fra capitale e lavoro lo Stato può utilmente esercitare una funzione pacificatrice, talora anche una funzione conciliatrice, che sono le sole funzioni veramente legittime in questa materia […] In caso di sciopero il Governo ha il dovere di intervenire in un solo caso: quando venisse turbata la libertà del lavoro, quando gli scioperanti volessero impedire ad altri operai di lavorare; perché la libertà del lavoro non può essere meno sacra della libertà dello sciopero [Giolitti 1901].

Neutralità dello Stato, libertà di associazione e di sciopero, ma imperio della legge, quindi, nella visione liberale di Giolitti. Essa si alimentava delle esperienze internazionali dei paesi a democrazia avanzata, quali l’Inghilterra: ad alti salari, ottenuti grazie ad azioni rivendicative e a scioperi anche duri, corrispondono maggiori consumi della famiglia operaia, il cui reddito è migliorato e, quindi, maggior spinta alla produzione dovuta a quella accresciuta domanda di beni. Un circuito economico-sociale virtuoso, tuttavia efficace solo nelle fasi espansive del ciclo economico. E il biennio 1901-02 avrebbe registrato uno fra i più alti livelli di scioperosità di carattere economico, favorendo il miglioramento delle condizioni economiche dei lavoratori.

Ben diverso il discorso per le campagne meridionali, come avrebbe osservato Errico Presutti, delegato tecnico dell’inchiesta parlamentare Faina, per la Puglia:

I proprietari terrieri si lagnano del contegno del Governo, dal quale pretenderebbero lo scioglimento delle Leghe contadine e l’arresto dei capi. E nei primi tempi delle agitazioni, quando da Roma venivano ordini per una politica di libertà, viceversa in alcuni luoghi si praticava una politica diametralmente opposta. I funzionari di P. S., legati da vincoli di parentela e di amicizia con i proprietari, molto spesso, contrariamente alle istruzioni del Governo centrale, esercitavano un’azione diretta a soffocare il movimento proletario […] Il movimento è diretto dai capi-lega, di cui ve ne è di intelligentissimi. Escono quasi sempre dalla classe dei contadini e sono pagati dalle Leghe. In genere sono spiriti avventurosi, i più vecchi dei quali hanno anche un passato politico consistente nell’attiva partecipazione alle lotte locali. I proprietari resistono tenacemente: abituati alla lunga tradizionale sottomissione del contadino, non sono ancora persuasi che i contadini sono uomini come loro e temono che questa massa amorfa ed oscura di proletari insorga in qualche sanguinosa jacquerie, uccidendo, depredando, saccheggiando, devastando […] D’altro canto gl’intraprenditori temono l’intervento dello Stato in questa materia: così io spiego le risposte tutt’altro che veritiere, che da molti proprietari ho avuto circa le condizioni dei contadini. Essi, sapendo dello scopo dell’inchiesta, temendo che, se le condizioni dei contadini apparissero quali sono, i poteri pubblici potessero adottare provvedimenti per migliorarne le sorti e che questi provvedimenti potessero risolversi in nuovi oneri per i proprietari, già abbastanza aggravati, cercavano d’ingannarmi […] Vi è in fondo nei proprietari la convinzione che i contadini non sono uomini come loro […] Il comm. Dalmazzo, ispettore generale del Ministero dell’Interno, mandato a Cerignola a comporre lo sciopero del maggio scorso, ebbe a dirmi di aver letto sul viso dei rappresentanti dei proprietari la meraviglia per la uguaglianza di trattamento formale, che esso faceva ai proprietari ed ai contadini, facendo sedere gli uni e gli altri accanto a sé […] I lavoratori rispondono in due modi: aumentando ancora i salari nei periodi in cui i lavori non possono assolutamente trascurarsi e diminuendo d’altro canto le ore giornaliere di lavoro; invadendo le terre dei proprietari, che trascurano determinati lavori, per eseguirvi i lavori stessi, salvo a chiederne poscia il pagamento […] Oggi sussiste tuttavia e sussisterà ancora per molto tempo questo stato di periodiche agitazioni proletarie, che vanamente i proprietari sperano di far cessare con i mezzi di lotta da loro adoperati […] [Presutti 1909].

Lo sciopero generale del settembre del 1904 impegna nuovamente la riflessione dei liberali italiani. Promosso dalla dirigenza sindacalista rivoluzionaria, ascesa alla guida del Partito socialista italiano, dopo il congresso nazionale di Bologna, lo sciopero generale risentiva anche degli influssi ideologici del dibattito sulla revisione del marxismo, nella nuova formulazione datane da Georges Sorel. Benedetto Croce, che pur aveva apprezzato la revisione soreliana, formulò un giudizio critico severo su quello sciopero generale, «che parve aver messo l’Italia intera nelle mani degli operai perché ne disponessero a lor talento. Ci fu dapprima qualche brivido di terrore, ma successe presto l’indignazione di tutti gli altri ceti sociali e la scarsa soddisfazione degli operai stessi, che persero salari e non videro alcun frutto dell’atto a cui erano stati indotti» [Croce 1928]. E lo stesso Einaudi, dopo poche settimane da quell’evento, avrebbe rinnovato la riflessione in tema di diritto allo sciopero e di legge sul crumiraggio. A ciò Einaudi giungeva dall’osservazione dell’andamento e dagli esiti avuti dallo sciopero generale, quando sulla spinta di quello – e per i contrasti che esso aveva originato in diverse componenti della classe operaia e del Psi – il radicale Sacchi aveva parlato di una proposta di legge sul reato di crumiraggio. Anche in questo caso le osservazioni di Einaudi sono improntate a una visione liberale delle relazioni industriali, nella quale le proposte circa l’obbligatorietà dell’arbitrato e addirittura dello sciopero (quando sia deliberato dalla maggioranza degli iscritti nei sodalizi operai), da cui sortirebbe addirittura il reato di crumiraggio, sono smontate punto dopo punto, sul filo di un ragionamento concreto, fuori da astrattezze para-giuridiche:

Per gli operai di uno stabilimento il caso è ben diverso [da quello dei soci di una società anonima].Si può sostenere, è vero, con ragione, che essi hanno un interesse comune ad essere pagati bene; si può comprendere che essi stringano una società coll’obbligo di agire d’accordo per conseguire certi miglioramenti; e se questa società si è costituita liberamente fra tutti gli operai della fabbrica, si può ammettere che sia l’assemblea sociale quella che decide sugli scioperi. Sin qui sta bene. Ma non più in là. Si può forse ammettere che se vi sono degli operai dissenzienti lo Stato debba intervenire per costringerli a non lavorare? Evidentemente no […] Lasciamo dunque in pace i crumiri. I quali, poveretti, hanno già da difendersi contro l’ostilità dei lavoratori organizzati, contro il pubblico disprezzo, contro gli insulti dei giornali popolari, e non meritano davvero l’onore del carcere per delitto di lesa solidarietà sociale […] Noi comprendiamo che si possa discutere seriamente l’arbitrato obbligatorio. È un sistema che, salvo alcuni casi di servizio pubblico, riteniamo inapplicabile al nostro paese, dove gli arbitri non avrebbero i mezzi, gli strumenti per giudicare […] [Einaudi 1924].

E quindi il giudizio sugli strumenti del probivirato e arbitrali, proposti come obbligatori, al fine di comporre pacificamente i contrasti fra operai e datori di lavoro, si fa assai critico, superando l’antico favore: «osiamo affermare che l’arbitrato, come ha funzionato in Italia sin qui, rappresenta un vero decadimento del modo di risolvere i conflitti operai». Il tema dell’obbligatorietà per legge degli strumenti dell’arbitrato ritornerà in forme diverse nei primi anni del fascismo, di fronte all’affacciarsi delle proposte corporative, affermate come soluzione definitiva del contrasto operaio-datore di lavoro.

È del 1924 l’introduzione, intitolata La bellezza della lotta, che Einaudi volle porre al volume Le lotte del lavoro, richiestogli da Piero Gobetti. Einaudi critica le teorie corporative, mostrate come panacea rispetto al contrasto operai-imprenditori, ribadendo in poche parole la sua visione liberale del conflitto sociale: «È preferibile l’equilibrio ottenuto attraverso a discussioni ed a lotte a quello imposto da una forza esteriore». Conclusione, questa, di un ragionamento stringente, in cui il richiamo agli scioperi degli operai del Biellese e del porto di Genova, d’un ventennio prima, è la premessa del discorso:

Oggi gli ideali burocratici son ridivenuti di moda. Sott’altro nome, l’aspirazione dei dirigenti le corporazioni fasciste di trovare un metodo, un principio per far marciare d’accordo imprenditori ed operai, è ancora l’antico ideale collettivistico. La lotta combattuta per insegnare agli operai che l’internazionalismo leninista era un’idea distruttiva e che la nazione era condizione di vita civile fu una cosa santa; ma il credere che si possa instaurare in terra un idillio perfetto tra industriali ed operai sotto la guida di qualche interprete autorizzato dell’interesse supremo nazionale è un’idea puramente burocratico-comunistica […] Oggi il problema operaio in Italia ha cambiato nome: invece di federazioni o di camere del lavoro rosse o bianche o gialle, si parla di corporazioni fasciste […] Il problema non è di negare l’equilibrio fra le forze contrastanti; cosa che sarebbe assurda. È di trovare il metodo col quale quell’equilibrio possa essere raggiunto […] Perché l’equilibrio duri, è necessario che esso sia minacciato ad ogni istante di non durare. Chi vorrà leggere le pagine di questo libro, vedrà quanto sia antica la mia ripugnanza verso i monopoli industriali ed operai. Ad un certo momento le leghe rosse, accortesi di essere diventate potenti […] vollero essere le sole padrone del lavoro; negarono ai bianchi ed ai gialli il diritto di esistere, si arrogarono il diritto esclusivo di eleggere rappresentanti nel Consiglio superiore del lavoro e si apprestarono a negare il diritto del parlamento a correggere le decisioni del Consiglio del lavoro caduto il loro mani. Fu il segnale della loro rovina. Oggi le corporazioni fasciste paiono avviarsi a commettere il medesimo errore. Anch’esse negano il diritto all’esistenza dei rivali sconfitti e ad uno ad uno li espellono dalle cooperative, dalle camere del lavoro, dai consigli del lavoro, dal parlamento. Solitudinem faciunt et pacem appellant. Anche ora, e sovratutto ora, bisogna negare che l’equilibrio esista nel monopolio, nella soppressione di diritto o di fatto degli avversari […] Altro non si deve chiedere allo Stato, se non che ponga per tutti le condizioni di farsi valere, che consenta a tutti la possibilità di negare il monopolio altrui […] [Einaudi 1924].

I capisaldi della visione liberale, in tema di diritto di sciopero, sarebbero stati riproposti da Einaudi, dopo la caduta del fascismo, in occasione delle discussioni in Assemblea costituente, a proposito dell’articolo 57 (poi art. 40) del Testo costituzionale.

Il diritto di sciopero è un’applicazione del concetto, prevalso nelle società civili del XIX secolo, della abolizione della schiavitù e della instaurazione della libertà del lavoro. Che cosa infatti significherebbe la negazione del diritto di sciopero? Evidentemente l’obbligo del lavoratore di lavorare non quando a lui piace e alle condizioni liberamente da lui discusse ed accettate, ma quando ad altri piace ed a condizioni diverse da quelle accettate da lui. Quell’obbligo ha un nome preciso e dicesi «schiavitù» […] Al diritto allo sciopero dei lavoratori, alla loro esigenza di non essere sottoposti a schiavitù corrisponde l’egual diritto dei consumatori di non acquistare le merci prodotte dai lavoratori. Non sono due diritti diversi: bensì due facce del medesimo diritto […] Se i due estremi, lavoratore e consumatore, fanno sciopero, i primi perché non ritengono di essere pagati abbastanza, gli altri perché ritengono il prezzo dei prodotti superiore al vantaggio che si ripromettono dal loro acquisto, l’imprenditore, il quale sta in mezzo dei due, non può rimanere fermo […] L’imprenditore, posto fra l’incudine e il martello, ha il diritto di serrata, ossia di riorganizzare la sua impresa, di mutare il genere della produzione, di ridurre o crescere il numero degli operai, di tentare nuovi mercati […] Diritto di sciopero e diritto di serrata sono due fattori o condizioni di un sistema economico improntato a libertà […] [Einaudi 1947].

Ma nell’Italia del secondo dopoguerra, a differenza di altri Paesi, la «serrata», pur non essendo penalmente illecita, avrebbe ricevuto diversa considerazione giuridica, restando spesso equiparata ad «attività antisindacale» [Treu 1983]. Il parallelismo o la contrapposizione allo sciopero sarebbero sfumati nella ricerca di soluzioni ed istituti «intermedi», con l’intervento dello Stato, diretto a «correggere l’equilibrio di potere tra le parti collettive a favore di quella considerata più debole».

Bibliografia

Baglioni G., L’ideologia della borghesia industriale nell’Italia liberale, Einaudi, Torino 1974; Cella G.P., (a cura di), Il movimento degli scioperi nel XX secolo, il Mulino, Bologna 1979; Croce B., Storia d’Italia, Laterza, Bari 1928; Einaudi L., Arbitrato e sciopero obbligatori e reato di crumiraggio, in «Il Corriere della Sera», 13 ottobre, 9, 27 novembre, 10 dicembre 1904, ora in Id., Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Einaudi, Torino 1965; Id., La bellezza della lotta, in Id., Le lotte del lavoro (1924), Einaudi, Torino 1972; Id., Gli scioperi del Biellese, in «La Stampa», 20, 22, 25, 27 settembre e 8 ottobre 1897, ora in Id., Scritti economici, storici e civili, a cura di R. Romano, Mondadori, Milano 1973; Ellena V., La Statistica di alcune industrie italiane, in «Annali di Statistica», serie II, vol. XIII, Roma 1880; Giolitti G., Discorsi parlamentari, a cura di S. Furlani, vol. II, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1953-1956; Merli S., Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano: 1880-1900, voll. 2, Sansoni, Firenze 1972; Presutti E., Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionale e nella Sicilia,Puglie, vol. III, Bertero, Roma 1909; Rossi A., Le trasformazioni industriali e i loro effetti nell’economia degli Stati, in «Nuova Antologia», marzo-aprile 1878; Treu T., Serrata, in Dizionario di politica, a cura di N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Einaudi, Torino 1983; Zaninelli S., Le lotte nelle fabbriche 1861-1921, Mondadori, Milano 1973.

Brano tratto dal "Dizionario del liberalismo italiano", edito da Rubbettino Editore. Clicca qui per acquistarlo con il 15% di sconto