Sciopero/Serrata

di Gianni C. Donno

Le definizioni di sciopero sono molteplici, variando a seconda dei tempi, dei luoghi, delle modalità, dei protagonisti. Così che si è parlato di sciopero come forma di protesta con finalità di rivendicazione economica, di sciopero «politico» (sino alla forma estrema dello sciopero generale), legato a richieste più ampie, spesso estranee al rapporto di lavoro, di sciopero «bianco», sciopero «a rovescio», ecc. La definizione più coerente e accettata risulta quella di sciopero come «ritiro del lavoro», nel rapporto di scambio col salario. Ma forme di sciopero possono essere individuate nei lavori abusivi del contadiname meridionale e della Bassa padana, a cavallo fra Otto e Novecento e nel primo e nel secondo dopoguerra, nelle azioni di boicottaggio in diverse fasi della produzione, nel danneggiamento delle linee produttive o dei materiali, nella esatta applicazione del mansionario (a tal punto da quasi paralizzare le attività, come nel caso dello sciopero ferroviario del 1905), nella occupazione di campi o fabbriche. In generale lo sciopero è un’azione collettiva, organizzata o meno (sciopero spontaneo).

Nell’Italia postunitaria, sin dal 1884 si prestò a questo fenomeno sociale una particolare attenzione, che si accrebbe con l’attivazione dell’Ufficio del Lavoro (1901) e l’elaborazione di più affinate statistiche per aree territoriali e settori produttivi. Ma già per la classe dirigente liberale postunitaria la questione era divenuta centrale nella considerazione dei modi dello sviluppo del nascente apparato industriale e, al contempo, come fenomeno di ordine pubblico, per quanto riguarda le frequenti agitazioni contadine.

Una prima strutturata rilevazione del fenomeno è rintracciabile negli atti dell’Inchiesta industriale del 1870-74 e, subito dopo, negli scritti del cavalier Alessandro Rossi, primo fra i grandi capitani d’industria del Belpaese. Nella ideologia paternalistica che caratterizza azione e pensiero del Cavaliere, e con lui di tanti capitani d’industria, lo sciopero è azione riprovevole, in quanto turba il corretto rapporto produttivo e anche umano fra le parti, originando una contesa nociva a entrambe. E Alessandro Rossi era – e sarebbe stato poi così ricordato – un imprenditore moderno e di idee assai avanzate, esponente di quella classe dirigente liberale, che fuorusciva da vecchie posizioni del conservatorismo politico-economico.

L’inchiesta industriale del 1870-74 tracciava una significativa divisione, in merito alle azioni e al giudizio sullo sciopero, fra il settore tessile, assai legato ancora al lavoro a domicilio (con forte presenza della figura di operaio-contadino), insieme con quello delle manifatture con prevalente manodopera femminile e minorile, e il settore dell’industria pesante, allora in avvio di sviluppo tecnologico. Nel primo settore lo sciopero risultava raro e comunque ritenuto frutto della cattiva propaganda di «mestatori» o «visionari», che turbavano con le loro idee i timorati costumi dei lavoratori e l’equilibrato svolgersi delle attività. Di fronte a ciò la principale risposta, autorevole e necessaria, era ritenuta il licenziamento. Diversa la situazione del settore siderurgico, metallurgico e meccanico, in discreta evoluzione tecnologica e con maestranze sempre più specializzate. Qui la predicazione degli «istigatori» e dei «dottrinari» doveva essere prevenuta, «accogliendo le richieste giudicate legittime, purché presentate in modo pacifico e non organizzato» [Baglioni 1974].

Alessandro Rossi, di lì a pochi anni, dava una complessiva testimonianza dell’autoritarismo padronale di fronte agli scioperi, in una serie di scritti in cui elaborava quello che è stato definito paternalismo «organico». La protesta operaia attraverso lo sciopero – affermava Rossi – ha primaria origine nell’egoismo padronale, un «industrialismo pagano e spregiudicato», che ha costretto i lavoratori alla protesta – e da lì all’organizzazione sindacale e socialista – per le difficili condizioni di lavoro e di vita che ha instaurato. Cosicché è compito primario dell’industriale ricondurre al senso religioso della pacifica convivenza del tempo andato, attuando egli provvidenze a favore dei lavoratori. Non lo Stato (chiamato a non interferire) né le organizzazioni sindacali si sarebbero dovuti occupare di ciò, bensì i datori di lavoro spontaneamente, secondo una visione – appunto religiosa e paternalistica – del proprio ruolo.

Filantropismo e paternalismo delle origini dello sviluppo industriale italiano, che Stefano Merli ha definito «feudale» [Merli 1972], per le concessioni dall’alto: case operaie, cucine economiche, assistenza medica, asili-nido, lavatoi, convitti-dormitori, scuole d’arti e feste operaie, ecc. È ritenuta, questa, una forma globale di truck-system, realizzata in forme differenti: «un truck-ricatto continuo che minaccia a ogni sciopero di creare dei senza tetto e dei senza lavoro».

A distanza di un ventennio, agli albori della rivoluzione industriale italiana, l’atteggiamento degli imprenditori, in merito ai rapporti di lavoro e allo sciopero, è radicalmente mutato. Ne è testimonianza la bella inchiesta del giovane Luigi Einaudi, apparsa su «La Stampa» di Torino, nel settembre 1897. Percorrendo le valli del Biellese, Einaudi, incaricato di far la cronaca degli scioperi dei tessili, ricorda il tempo «patriarcale», ormai andato, del paternalismo padronale e assiste al «meraviglioso» rivolgimento dei rapporti di lavoro, che, come nel caso inglese, si volgono al superamento del contrasto acuto – quali sono lo sciopero e la serrata – verso le moderne forme di arbitrato e contrattazione. Einaudi è attento all’esperienza inglese, ormai molto avanzata per ciò che riguarda le relazioni industriali, ma dalla vicenda del Biellese trae spunti nuovi di riflessione e di proposta, indirizzati alle parti in campo: operai, industriali, governo:

Le sollecitazioni del giovane liberale trovavano sostegno nell’esperienza del probivirato che, con esiti diversi, veniva realizzandosi in Italia. Qui lo Stato interveniva soltanto con leggi (295/1893), che tracciavano le norme per la costituzione di quest’Ufficio nelle diverse province. Al 1897-98, il numero dei collegi di probiviri era salito a 59 (28 funzionanti), con una crescita significativa nel 1899 (86/39) [Zaninelli 1973]. E tuttavia la conflittualità, sino al 1901 si sarebbe dimostrata difficilmente governabile con gli strumenti dell’arbitrato. La stessa agitazione del Biellese si sarebbe conclusa ben 7 mesi dopo con un accordo fra le parti.

Einaudi torna a interessarsi dello sciopero, in occasione dell’agitazione nel porto di Genova del dicembre 1900, che aveva portato allo scioglimento prefettizio della locale Camera del lavoro. Qui l’analisi è chiara: si tratta di uno sciopero politico, in difesa della libertà di associazione, scaturito da richieste salariali, e rispetto al quale «il governo deve mantenersi al disopra dei partiti, non cedere né ai desideri degli imprenditori né ai clamori degli operai i quali chiedano interventi illegali a favore di una parte». La condanna dell’operato del prefetto e – dietro di questi – del governo Saracco, si accompagna alla constatazione del grave danno che lo sciopero, ormai generale, porta all’economia genovese e nazionale. Ripetuta è la richiesta di istituzione di un Tribunale dei probiviri. Il giovane Einaudi esprime una visione avanzata delle relazioni industriali, che di lì a pochi giorni sarebbe stata riproposta, in un dibattito parlamentare sul caso dello scioglimento prefettizio della Camera del Lavoro di Genova, da Giovanni Giolitti, poi divenuto nel marzo 1901 ministro dell’Interno del nuovo gabinetto Zanardelli:

Neutralità dello Stato, libertà di associazione e di sciopero, ma imperio della legge, quindi, nella visione liberale di Giolitti. Essa si alimentava delle esperienze internazionali dei paesi a democrazia avanzata, quali l’Inghilterra: ad alti salari, ottenuti grazie ad azioni rivendicative e a scioperi anche duri, corrispondono maggiori consumi della famiglia operaia, il cui reddito è migliorato e, quindi, maggior spinta alla produzione dovuta a quella accresciuta domanda di beni. Un circuito economico-sociale virtuoso, tuttavia efficace solo nelle fasi espansive del ciclo economico. E il biennio 1901-02 avrebbe registrato uno fra i più alti livelli di scioperosità di carattere economico, favorendo il miglioramento delle condizioni economiche dei lavoratori.

Ben diverso il discorso per le campagne meridionali, come avrebbe osservato Errico Presutti, delegato tecnico dell’inchiesta parlamentare Faina, per la Puglia:

Lo sciopero generale del settembre del 1904 impegna nuovamente la riflessione dei liberali italiani. Promosso dalla dirigenza sindacalista rivoluzionaria, ascesa alla guida del Partito socialista italiano, dopo il congresso nazionale di Bologna, lo sciopero generale risentiva anche degli influssi ideologici del dibattito sulla revisione del marxismo, nella nuova formulazione datane da Georges Sorel. Benedetto Croce, che pur aveva apprezzato la revisione soreliana, formulò un giudizio critico severo su quello sciopero generale, «che parve aver messo l’Italia intera nelle mani degli operai perché ne disponessero a lor talento. Ci fu dapprima qualche brivido di terrore, ma successe presto l’indignazione di tutti gli altri ceti sociali e la scarsa soddisfazione degli operai stessi, che persero salari e non videro alcun frutto dell’atto a cui erano stati indotti» [Croce 1928]. E lo stesso Einaudi, dopo poche settimane da quell’evento, avrebbe rinnovato la riflessione in tema di diritto allo sciopero e di legge sul crumiraggio. A ciò Einaudi giungeva dall’osservazione dell’andamento e dagli esiti avuti dallo sciopero generale, quando sulla spinta di quello – e per i contrasti che esso aveva originato in diverse componenti della classe operaia e del Psi – il radicale Sacchi aveva parlato di una proposta di legge sul reato di crumiraggio. Anche in questo caso le osservazioni di Einaudi sono improntate a una visione liberale delle relazioni industriali, nella quale le proposte circa l’obbligatorietà dell’arbitrato e addirittura dello sciopero (quando sia deliberato dalla maggioranza degli iscritti nei sodalizi operai), da cui sortirebbe addirittura il reato di crumiraggio, sono smontate punto dopo punto, sul filo di un ragionamento concreto, fuori da astrattezze para-giuridiche:

E quindi il giudizio sugli strumenti del probivirato e arbitrali, proposti come obbligatori, al fine di comporre pacificamente i contrasti fra operai e datori di lavoro, si fa assai critico, superando l’antico favore: «osiamo affermare che l’arbitrato, come ha funzionato in Italia sin qui, rappresenta un vero decadimento del modo di risolvere i conflitti operai». Il tema dell’obbligatorietà per legge degli strumenti dell’arbitrato ritornerà in forme diverse nei primi anni del fascismo, di fronte all’affacciarsi delle proposte corporative, affermate come soluzione definitiva del contrasto operaio-datore di lavoro.

È del 1924 l’introduzione, intitolata La bellezza della lotta, che Einaudi volle porre al volume Le lotte del lavoro, richiestogli da Piero Gobetti. Einaudi critica le teorie corporative, mostrate come panacea rispetto al contrasto operai-imprenditori, ribadendo in poche parole la sua visione liberale del conflitto sociale: «È preferibile l’equilibrio ottenuto attraverso a discussioni ed a lotte a quello imposto da una forza esteriore». Conclusione, questa, di un ragionamento stringente, in cui il richiamo agli scioperi degli operai del Biellese e del porto di Genova, d’un ventennio prima, è la premessa del discorso:

I capisaldi della visione liberale, in tema di diritto di sciopero, sarebbero stati riproposti da Einaudi, dopo la caduta del fascismo, in occasione delle discussioni in Assemblea costituente, a proposito dell’articolo 57 (poi art. 40) del Testo costituzionale.

Ma nell’Italia del secondo dopoguerra, a differenza di altri Paesi, la «serrata», pur non essendo penalmente illecita, avrebbe ricevuto diversa considerazione giuridica, restando spesso equiparata ad «attività antisindacale» [Treu 1983]. Il parallelismo o la contrapposizione allo sciopero sarebbero sfumati nella ricerca di soluzioni ed istituti «intermedi», con l’intervento dello Stato, diretto a «correggere l’equilibrio di potere tra le parti collettive a favore di quella considerata più debole».

Bibliografia

Le lotte nelle fabbriche 1861-1921, Mondadori, Milano 1973.