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Qualunquismo

di Dino Cofrancesco

Il qualunquismo – termine derivato dall’«Uomo Qualunque», il giornale che diede il nome al movimento politico fondato da Guglielmo Giannini nel 1945 e destinato a durare non più di tre anni – non ha mai goduto, almeno fino a qualche tempo fa, di buona stampa. Nella sua accezione negativa, esso rinvia a vizi antichi (o presunti tali) della società italiana, all’«uomo del particulare» che Francesco De Sanctis, attento lettore di Francesco Guicciardini, stigmatizzava in pagine famose, al familismo amorale analizzato nel classico saggio di Edward Banfield, all’«aborto della coscienza nazionale italiana» studiato dall’antropologo culturale Carlo Tullio-Altan, al quale si deve, addirittura, un «indice qualaut» (qualunquismo autoritario) di misurazione della nostra arretratezza civica.

Le condanne sommarie del qualunquismo traducono la sua presunta irresponsabilità civica in una vera e propria tara dell’anima. La pubblicistica più impegnata su questo terreno, a destra e a sinistra, sembra non porsi neppure il problema se il «diritto ad appartarsi» non sia, in qualche misura, legato alla «libertà dei moderni» contrapposta da Benjamin Constant, nella celebre Prolusione parigina del 1819, alla «libertà degli antichi».

Significativo quanto scriveva Norberto Bobbio nel 1945, alludendo a Guglielmo Giannini e ai suoi seguaci: «Mentre la critica dei partiti è stimolatrice di riforme e di miglioramenti all’interno dei partiti e quindi è feconda, la critica della politica di partito lusinga e quindi rafforza inveterate abitudini, vizi tradizionali del popolo italiano; incoraggia gli ignavi a vantarsi della loro ignavia presentandola come intelligenza politica o come spirito d’indipendenza, o come un’altra qualsiasi virtù; fa insuperbire gli ottusi e gli inerti, i quali finiranno per trovare nella loro ottusità e nella loro inerzia uno speciale decoro, se non addirittura una ragione di superiorità; offre infine a tutti gli apolitici un motivo per allearsi, facendo di una folla di isolati una massa organica se non organizzata di persone che la pensano nello stesso modo e hanno di fronte lo stesso nemico; e per tal modo rende più compatta e quindi più opaca la grande moltitudine degli indifferenti che genereranno di nuovo quel pantano in cui finirà per impaludarsi lo sforzo di rinnovamento democratico dello Stato italiano».

È una condanna senza appello che non si trova solo negli esponenti della sinistra azionista ma, altresì, in quelli dell’estrema destra neo-fascista. Non poco emblematico è quanto si legge sulla rivista «La Rivolta ideale» (8 agosto 1946): «La formula basilare del “qualunquismo” – come è noto – è “non ci rompete i…”. L’insegna del “dolce far niente”. Gli eroi del “qualunquismo”, sono Pulcinella e Sciosciammocca. La parola d’ordine, il “chi t’o fa ffa?”, è quella dell’atavico agnosticismo imbelle e anarcoide, insofferente di ogni disciplina, che discende dai servili “qualunquisti” del Medio Evo che invocavano “Franza o Allemagna purché se magna”».

Ma meritava l’Uomo Qualunque tante colate di fango? Aveva davvero spalancato gli armadi della political culture nazionale e mostrato quanti disgustosi scheletri vi fossero nascosti? In realtà, rispondere a questa domanda non significa solo chiarire «che cosa è stato» o «che cosa ha veramente detto Guglielmo Giannini», nei pochi anni in cui ha fatto la sua comparsa sulla scena politica, ma, altresì, fare i conti con equivoci inveterati che continuano ad annidarsi nelle pieghe di una concezione della democrazia e del liberalismo che, forse, ancora oggi, ci impedisce di diventare un «paese normale».

La figura di Guglielmo Giannini è molto più complessa di quanto non si sia scritto. Che fosse un uomo di teatro, un cineasta, uno scrittore di gialli, un canzonettista, è certo. Ma era proprio così digiuno di politica e così incolto come si è spesso sostenuto? Nato nel 1891 in una famiglia di media borghesia napoletana – il padre, Federico, era un giornalista abbastanza noto – Giannini, non aveva alle spalle grandi studi ma indubbiamente era molto interessato alla vita nazionale e locale e non poco attratto dal mondo della carta stampata. Tra il febbraio e il marzo 1919, sul nittiano «Giornale della Sera» di Napoli fu il primo «a lanciare l’idea di un partito del lavoro, comprendente non solo operai, ma media e piccola borghesia». Con l’avvento del fascismo, Giannini si dedica esclusivamente all’attività letteraria e allo spettacolo – teatro e cinema. Il rientro nella politica avviene – prima ancora che nella Resistenza romana, tra le file del partito repubblicano – solo nel 1942 quando l’amatissimo figlio Mario, perde la vita in guerra. È allora che inizia la sua dolente meditazione sul cinismo dei politici che si tradurrà in un librone prolisso, amaro, oscillante tra spunti decisamente libertari e dissacranti e nostalgia della perduta dimensione comunitaria, La folla. Seimila anni di lotta contro la tirannide (Ed. Lo Faro, Roma luglio 1945). «Quest’opera – si legge nella dedica – è dedicata/ a una meravigliosa creatura d’amore/ Mio figlio Mario/ che cessò di vivere/ all’età di ventun anni undici mesi/ diciassette giorni/ nel pieno della salute e della bellezza/ il 24 aprile 1942/ Una versione ufficiale dice/ ch’egli cadde nell’adempimento del proprio dovere/ verso la patria/ ma in realtà fu assassinato/ insieme a milioni di altri innocenti esseri umani/ da alcuni pazzi criminali/ che scatenarono la guerra».

Se non ci fossero gli uomini politici professionali – gli upp non ci sarebbero le guerre, ragiona l’autore de La Folla, tagliando la storia universale con l’accetta. Pertanto «mandiamoli tutti in un campo di concentramento dove possano sfogarsi a eleggere chi vogliono a capo del campo, e sorteggiamoci noi, con calma e senza seccature quel migliaio di deputati e senatori di cui abbiamo bisogno». La politica e i partiti sono cose che servono soltanto ai Capi per ottenere potere e privilegi: la si finisca con queste farse che, quando sfociano nella guerra diventano tragiche. «Dunque aboliamo gli elettori, aboliamo gli aderenti al partito abolendo il partito, sopprimiamo il giornale di parte sopprimendo la parte, e allora fare il ministro sarà una cosa facilissima e tale che basti un galantuomo a farla, e senza nessun bisogno del parassitario uomo politicoprofessionale, nemico della pace interna di tutta la Comunità per amore del suo partito di cui a noi non importa niente». Agli uomini qualunque occorrono solo «persone che «sanno governare», e che di fatto governano, illuminandoci le strade di notte provvedendo a che le fognature funzionino, e che le derrate arrivino sui mercati e a tutti gli altri bisogni pubblici» e un migliaio di «deputati e senatori eletti dalla sorte e tratti dalle categorie che costituiscono la Comunità» in grado di controllarne l’opera. Grazie a questo «stato amministrativo» – che ricorda, in qualche modo, lo «stato minimo» dei libertari americani – il paese, non dovendo più sopportare gli alti «costi della politica», potrà permettersi la massima libertà di accoglienza e di congedo: chi vuol venire, sia benvenuto; chi se ne vuole andare sappia che la secessione non è vietata.

L’unico figlio maschio è morto per l’Italia, ma cos’è l’Italia, cosa sono le nazioni, cos’è la patria? «Capi – si legge in una pagina che rimarrà sempre come un’ombra tra Giannini e i suoi seguaci e simpatizzanti provenienti dalla destra – per costringere le Folle a battersi per essi, […] hanno fatto ricorso a certi speciali mezzi di costrizione spirituale, che agiscono con enorme forza specialmente sull’animo dei giovani, nei quali la generosa inesperienza facilita l’assorbimento delle panzane. Questi miti si presentano sotto i più bei nomi, fra i quali quello di Patria è il più affascinante e sonoro. Ma è sempre un mito […] Non c’è niente di più falso, e, se qualcosa è mortale sulla terra,1’idea della patria è la più mortale di tutte». «La sconfitta, realtà per i Capi, che perdono lo stipendio, è soltanto un’opinione per la Folla. Supponiamo che l’Italia dovesse cedere il Veneto alla Iugoslavia, e che la Iugoslavia fosse tanto sciocca da prenderselo. Cosa accadrebbe per la Folla? Niente […] Unico vero cambiamento: il prefetto di Venezia sarebbe iugoslavo anziché napoletano o piemontese. E cos’importa all’uomo della Folla che un prefetto si chiami Milan Nencic anziché Gennaro Coppola o Alberto Rossi? Deve dare la vita dei suoi figli e la sua per così poco?». Erano le riflessioni esacerbate di un uomo incapace di elaborare il lutto per la perdita di Mario e che, nel dolore mai attenuato, non solo rimuoveva il significato storico e culturale dello Stato-nazione, atteggiamento comprensibile negli anni della «morte della patria», ma altresì il dramma dei profughi istriani, la tragedia delle foibe, l’ansia di quegli italiani che non avevano alcuna voglia di finire sudditi del regime comunista titoino e del compagno-prefetto Milan Nencic.

Se la comunità politica non trova grazia agli occhi di Giannini, per le forme di governo va ancora peggio. «Fra dittatura e democrazia non c’è nessuna differenza se non di forma, ma la sostanza è la stessa: «uno»,circondato da pochi, comanda: tutti debbono obbedire. Sia il partito unico delle dittature, sia i vari partiti del regime democratico, hanno il «monopolio»della politica nel paese, nel quale non costituiscono che una minoranza. Essi propongono dei programmi che il paese deve votare in regime democratico, accettare senza discutere in regime dispotico totalitario. Ma l’importante per il paese non è «accettare»con le buone o con le cattive un programma fatto da altri: ma farselo da sé. Messo davanti a un programma solo in regime totalitario, messo davanti a due o più programmi in regime democratico, il paese si trova sempre nelle condizioni di dover subire la volontà altrui […] È preferibile, se non altro per la brutale sincerità e per l’assoluta mancanza di ipocrisia, il sistema totalitario che dice: questo e basta. Almeno non si perde tempo: si prende la catena, si chiude il lucchetto e si tira a campare». Potrebbero essere le riflessioni di un anarchico a tutto tondo se l’auspicato ritiro della politica dalla società civile non mirasse alla protezione – o meglio all’autoprotezione – del «piccolo mondo antico» quale vagheggiato dagli strati inferiori della borghesia. Purché quel mondo pacifico e ordinato sia preservato, Giannini è disposto ad accordarsi con tutti (da ultimo tenterà di farlo persino con il partito comunista di Togliatti e sarà la sua fine politica).

Come si può vedere da queste citazioni, su un fondo di giustificato e mai sopito risentimento personale, si innesta una political culture dilettantesca in cui il tema della «classe politica» viene ritrascritto in termini plebei e piccolo-borghesi, come distinzione quasi razziale tra «uomini e caporali»; i lutti della storia vengono riportati alla nequizia degli «upp» che hanno trasformato le semplici funzioni amministrative, che erano state loro affidate, in risorse di potere e in privilegiate rendite di posizione grazie alla spremitura (non solo fiscale, purtroppo) degli uomini qualunque; la società civile viene percepita come un’arena non conflittuale in cui è l’interesse bene inteso a consigliare il rispetto dei patti e delle regole, anche grazie all’esperienza di tutti i giorni che, per adoperare una metafora cara a Giannini (ed ai liberali) ci mostra quanto sia conveniente dare le precedenze agli incroci e fermarsi al semaforo rosso.

Non va trascurato, però – come si è spesso fatto –, il «momento positivistico» della filosofia de La Folla. Giannini, anche per il suo lavoro teatrale e cinematografico, ha esperienza delle «meraviglie della tecnica», dell’impatto dei mass media sull’opinione pubblica, delle ricadute sociali delle invenzioni dell’ingegneria e della medicina moderna. In tal modo, non esita a sottoscrivere la legge comtiana del rapporto a somma zero tra politica e scienza, in virtù del quale più avanza il progresso, meno necessario diventa il potere. Il progresso, scrive, è «una forza messa al servizio della libertà dell’uomo: ed è questa l’oscura origine dell’ostilità dei Capi verso il Progresso. La sua potenza sempre crescente limita sempre più il loro potere».

Anche se il libro venne venduto sulla scia della crescente notorietà dell’autore, le tematiche de La Folla, però, con la discesa in campo del Fondatore, arretrarono sempre di più rispetto ad altre.

Il 27 dicembre 1944, in un’Italia ancora divisa in due, Giannini decide di fondare un settimanale (in formato quotidiano), preso da un’incontenibile passione di far sentire la sua voce di «uomo qualunque», vittima del fascismo e diffidente dei progetti palingenetici dei partiti antifascisti, che fanno temere altre mobilitazioni, altri sacrifici, altri rinvii del sospirato ritorno alla normalità. Il giornale va a ruba: dalle 25 mila copie del primo numero, si arriverà, nel maggio del 1945, alle 850 mila. Ciò che si chiede a quanti reggono ora le sorti del paese è molto semplice: «Noi vogliamo vivere tranquilli, non vogliamo agitarci permanentemente come non abbiamo voluto vivere pericolosamente […] Ciò che noi chiediamo, noi gente, noi Folla, noi enorme maggioranza della Comunità, noi padroni della Comunità e dello Stato, è che nessuno ci rompa più i coglioni». Alla gente non sembra vero trovare un interprete così spiritoso, efficace e immediato dei suoi bisogni elementari e naturali. Giannini, inoltre, nella sua rubrica Le Vespe, dà fondo alla sua vena partenopea, alterando i nomi dei suoi avversari politici – che diventano Piero Caccamandrei, Luigi Servitorelli, Mario Perdiguerra, Fessuccio Parmi ecc. – o ribattezzando i partiti rivali – i compagni, già camerati, diventano i «cameragni», i democristiani, i «demofradici cristiani» ecc. C’era in lui del «tersitismo» – il dileggio dei potenti – ma, soprattutto quella desacralizzazione della politica (di cui la guerra perduta indubbiamente, aveva posto le condizioni), che, comunque la si voglia giudicare è una conditio sine qua non di una democrazia liberale, laica, senza complessi, dove i rappresentanti del popolo sono «persone come noi» e John Doe va a Washington per ricordare a essi gli impegni presi e non mantenuti. Dopo il fascismo, si ha bisogno di un rapporto meno teso con la politica, non si sopportano più i «monumenti» storici e ideologici, il «pathos» della distanza, le mitologie che si costruiscono attorno agli esponenti della nuova classe dirigente. Si vuole introdurre anche nella politica un po’ di «leggerezza» dal momento che la «serietà» ha prodotto tanti disastri. È il punto d’incontro di Guglielmo Giannini con l’Italia giornalistica e letteraria che non si riconosce nel «vento del Nord» (ribattezzato sull’U.Q. «rutto del Nord») e nei disegni di rigenerazione etico-politica nutriti dai partiti di sinistra del Cln (Pci, Psi, Pd’a.). I Guareschi, i Longanesi, i Flaiano, i Montanelli, i Giovanni Mosca ecc.

Nella «folla»dei lettori dell’U.Q., nondimeno, s’intravvedono soprattutto i volti di Aldo Piscitello, il vecchio con gli stivali del dolente racconto di Vitaliano Brancati del 1944 – divenuto sullo schermo Anni difficili di Luigi Zampa – o del pensionato Umberto D. il film del 1952 diretto da Vittorio De Sica con la sceneggiatura del grande Cesare Zavattini; o ancora di Totò Esposito, il protagonista di Siamo uomini o caporali? del1955, di Camillo Mastrocinque, alla cui sceneggiatura aveva collaborato anche Totò, che, nel ricordo di Zavattini, faceva tutto quello che gli diceva Giannini.

È a questa gente bistrattata, non inquadrata in stabili classi sociali, in sezioni protette della comunità nazionale, in subculture solidaristiche – per motivi religiosi o professionali –, priva della sicurezza conferita dal vivere nelle regioni caratterizzate da elevato senso civico, che Giannini vuol dare la parola. E questa «umile Italia» lo ricambia, costringendolo nel febbraio del 1946 a fondare un partito con lo stesso simbolo del periodico, il torchietto fiscale che spreme un omino atterrito dalle cui tasche escono alcune monete. Il programma è quello delle Conclusioni e proposte di qualche anno prima, in cui si citano – a riprova del fatto che l’«uomo faceto» era molto meno ignorante di quanto pensassero gli avversari – Montesquieu e Rousseau, Proudhon e Sorel, Bryce e Tocqueville (non erano molti allora i leader politici che avessero letto la Democrazia in America o i Ricordi del 1848-1849), Sombart e Spengler. Sono 80 pagine ben diverse dalle arditezze concettuali de La Folla. Innanzitutto, vi si ritrova una sincera volontà di contribuire alla fondazione di una comunità politica non conflittuale. «Tedeschi, Francesi e Italiani, lavorando insieme, hanno formato in Svizzera uno degli Stati più uniti e compatti d’Europa. Perché non dobbiamo credere che funzionari, produttori, tecnici, politici riescano a dar vita allo Stato Italiano? Basta che lavorino insieme; o almeno, ne è la condizione pregiudiziale». Vi si sostiene una divisione dei poteri portata al punto di non consentire ai membri del Legislativo di far parte dell’Esecutivo ed è non poco significativo che diverse altre proposte istituzionali vengano motivate con citazioni di Cavour. Sostanzialmente liberale – almeno come si poteva esserlo nell’Italia del secondo dopoguerra – il programma non fa più cenno del sorteggio dei rappresentanti del popolo; riconosce che «la democrazia afferma ormai in pieno i suoi diritti», ma avverte che «il numero è una brutta bestia» e che «la maggioranza deve essere difesa contro se stessa» per cui il governo dev’essere affidato a un’aristocrazia che però «non sia a ruoli chiusi, ma aperti, che non sia del censo o dei privilegi acquisiti, ma del merito e della volontà»; rifiuta le classi, che non esistono, giacché tutti lavorano e danno il loro contributo all’economia nazionale, ma richiama l’attenzione sull’ineludibilità della «questione sociale»; ricorda che l’Italia «è ormai troppo piccola per il suo popolo e, col suo territorio, non può più provvedere» e, insieme, richiama la necessità di impegnarsi per l’unità europea – di cui, peraltro, l’U.Q. fu uno dei più convinti assertori nella seconda metà degli anni Quaranta. Infine, le Conclusioni e proposte risolvevano il dilemma allora più sentito dell’economia programmata contrapposta al mercato e al capitalismo. È la economia controllata la via da imboccare: «l’intervento sembra inutile e dannoso, buono soltanto per gonfiare le gote con le parole grosse (socializzazione, nazionalizzazione, e simili) che non creeranno mai la ricchezza, quando non c’è».

A differenza di Croce e degli altri notabili liberali e democratici che tentò invano di coinvolgere nell’impresa, Giannini avrebbe potuto condividere la critica anti-aristocratica, che, in Italia scombinata muoveva Gaetano Salvemini ai partitini laici: «niente poi è più infantile che il pavoneggiarsi, come fanno alcuni «laici», con la soddisfazione di non militare in partiti di «masse», ma in partiti di gente «scelta». Un partito che – in regime di suffragio universale maschile e femminile – rinunzia a diventare partito di massa può chiudere bottega: vada in un convento e si faccia monaco». È quanto avrebbe rimproverato Giannini a Croce nel discorso tenuto al Teatro San Carlo di Napoli il 3 novembre 1946: «Il suo torto è quello di aver creduto nelle élites. Egli tiene al suo partito liberale antiquato, egli è convinto che quel partito sia una élite, egli pensa che ad onta di tutto quello che noi abbiamo fatto, costruito, realizzato, noi siamo soltanto una folla, una folla disorientata e disordinata» sennonché «la folla non è più gregge. La folla ha una volontà, una capacità, un peso politico enorme […] E noi, noi che siamo fra questa folla, noi che ne abbiamo conquistato una grandissima parte e che ogni giorno ne conquistiamo di più e meglio, perché ogni giorno vengono a noi operai di tutte le opere, lavoratori di tutte le industrie, e non soltanto intellettuali, impiegati artigiani, industriali, ma anche piccola, umile gente, che sente la verità e la bellezza di quest’idea che i professori non hanno saputo diffondere con il loro linguaggio astruso».

Senza gli slogan tanto irriverenti quanto efficaci di Giannini, senza l’uso di un linguaggio immediato, diretto, che non si faceva scrupolo a richiamare le parti basse del corpo umano – un «pornografo» lo definì l’antipatizzante Giovannino Guareschi – senza la full immersion in una quotidianità in cui lettori e ascoltatori si riconoscevano, come avrebbe potuto l’U.Q. convogliare le speranze e le attese della «gente meccanica e di piccolo affare»?

Con l’inizio della guerra fredda e la divisione dell’Europa, tuttavia, l’area moderata fu sempre più indotta a far quadrato attorno alla Dc degasperiana, vista come l’unica grande forza nazionale in grado di far da diga contro l’avanzata delle sinistre. L’U.Q. aveva beneficiato, nonostante l’antifascismo non retorico di Giannini, della vietata ricostituzione del partito fascista e dello scarso consenso ottenuto dalle formazioni monarchiche. Quando la Dc, shoccata dal sorpasso dell’U.Q. alle amministrative di Roma (autunno del 1946), iniziò la lenta manovra di recupero dei voti qualunquisti, trovò nel disinvolto pragmatismo di Giannini un tallone d’Achille fin troppo scoperto. Il Fronte, di lì a poco cominciò a sgonfiarsi in un mare di polemiche e di recriminazioni.

Demonizzato allora, vilipeso oggi, all’U.Q., però, non mancarono voci più critiche e pacate in grado di cogliere, senza esecrarli, aspetti significativi della sua prassi e della sua protesta – Filippo Burzio, Santi Romano, Augusto Del Noce ecc.

Fu soprattutto Del Noce a dedicare al fenomeno qualunquista le considerazioni più acute e profonde, in parte in articoli pubblicati su riviste come «Comunità», in parte, in note inedite. Rifacendosi a Joseph de Maistre, Del Noce vedeva un’analogia tra l’esigenza espressa dall’autore delle Considérations sur La France di porre fine alla rivoluzione non con una «controrivoluzione» ma con qualcosa che fosse il contrario della rivoluzione e l’esigenza, espressa da Giannini, di un ritorno alla «normalità» democratica che, per riprendere il bon mot di Flaiano, non sostituisse al fascismo fascista il fascismo antifascista. Vi è nell’UQ, si legge in una pagina inedita della seconda metà del 1945, la consapevolezza, «ignota al giacobinismo, che divinizza la tensione della massa rivoluzionaria e considera reazionario ogni sforzo diretto a calmarla» che «lo spirito di violenza in chi è stato oppresso è ancora contagio dell’oppressore e il contagio più perverso perché infetta lo spirito: in parole povere e concrete che l’antifascismo immediato è ancora fascismo». Del Noce non esitava a dedurne «che il cosiddetto neofascismo dell’UQ non è altro che forma matura e vera dell’antifascismo, come contrario del fascismo, contro un antifascismo immediato e irriflesso, il cui sbocco logico saarebbe la delizia di una dittatura antifascista dopo quella della dittatura fascista […] La cattiva fama dell’UQ rischia di non esser altro che la cattiva sorte dei precursori».

L’analisi del filosofo cattolico inquadrava la «reazione qualunquista» nello «spirito dell’epoca» e, in radicale dissenso con la cultura azionista, come nel fascismo si rifiutava di vedere un brutto episodio provinciale, impensabile al di fuori dell’Italia, così in quella reazione – rivolta soprattutto all’antifascismo – vedeva una risposta su cui meditare seriamente. «L’essenza del qualunquismo – concludeva – è in questa rivolta dell’uomo comune, di colui che all’élite politica non appartiene ed è da questa ridotto a strumento per l’attuazione di questo o quel piano, contro i “professionali della politica”».

Nell’articolo La scissione dell’U.Q., pubblicato su «Comunità» nel settembre del 1947, il filosofo concedeva a Giannini, ormai al suo tramonto, un generoso onore delle armi: «non è affatto un’eresia riconoscere che la sua azione è stata complessivamente benefica e positiva in senso democratico, per la semplice ragione che ha dato modo di esprimersi e di partecipare alla vita democratica a quella parte di opinione pubblica che non poteva trovarsi nelle forze politiche esistenti; chiamato, insomma, ad esistere dalla forza delle cose ha effettivamente collaborato all’instaurarsi di un costume democratico». «Contenere la tendenza neofascista entro lo spirito democratico» significava fare in modo che le idealità alle quali gli italiani del ventennio erano stati educati e nelle quali molti, anche dopo la disfatta, continuavano a credere, trovassero cittadinanza nella polis del dopoguerra e potessero liberamente esprimersi senza, per questo, costituire un pericolo o una minaccia per i vincitori della guerra civile. Ma non è il compito che si sarebbe dovuto dare una democrazia secolarizzata, ovvero una democrazia intesa come registrazione e non come redenzione o come risanamento dell’esistente? Se i tempi non sono ancora del tutto maturi oggi si può ben immaginare quanto lo fossero allora quando le ideologie dominanti non avevano alcuna intenzione ricostruire la comunità politica su «valori forti e condivisi»!»

Mezzo secolo dopo Del Noce, saranno soprattutto Roberto Chiarini e Giovanni Orsina a rendere giustizia all’U.Q. Sintetizzando ombre e luci del qualunquismo, scriverà il primo ne La Destra italiana: «Si tratta di un impasto, certo informe e irrisolto, di giudizi, e soprattutto di pregiudizi e di luoghi comuni, di cui si nutre l’italiano medio del tempo. Ma è anche un impasto che, nonostante tutto, incorpora l’assunto, mai davvero fatto proprio dai vari soggetti della politica nazionale, secondo cui in democrazia la sovranità spetta in ultima istanza all’uomo della strada, senza tutele di sorta da parte di minoranze politiche. Un impasto di modernità e di arretratezza. Di modernità laddove reclama una società civile emancipata dalla politica, di arretratezza quando dà voce ad un popolo appunto di qualunquisti, nutriti di una cultura volgarmente impolitica (nel senso che rifiuta l’irrinunciabile divisione del lavoro tra stato e società) e schiettamente illiberale (laddove respinge l’idea della fertilità del conflitto nella fisiologia della democrazia). Tutto ciò non è del resto per niente una sorpresa nell’Italia degli anni Quaranta, erede diretta dell’Italia fascista, che di una cultura civica intimamente antiliberale è stata la più convinta ed efficace propagandista». Per la verità, è difficile trovare negli articoli e nell’opus maius di Giannini le tracce di una «cultura volgarmente impolitica» «che rifiuta l’irrinunciabile divisione del lavoro tra stato e società». Il suo sarà pure un liberalismo ingenuo e approssimativo ma il rigetto assoluto dello Stato etico – che Giannini vede attuato sia nel fascismo che nel comunismo – comporta proprio quella «divisione del lavoro tra stato e società», destinata a dileguarsi nelle teorie organicistiche elaborate dai regimi totalitari di destra e di sinistra.

È innegabile, invece, che nell’U.Q. manca o si appanna uno dei pilastri del liberalismo: «l’idea della fertilità del conflitto nella fisiologia della democrazia». È un’assenza, però, che si spiega con due motivi, l’uno antropologico culturale e l’altro storico. Il primo sta nella saggezza sottesa all’adagio popolare che nei periodi di sommovimenti gli stracci vanno sempre in aria. Delle guerre e delle rivoluzioni le vittime designate non sono i poveri e le classi socialmente pericolose che, se moderne e strutturate, possono costituire l’esercito marciante del Progresso e se marginalizzate dai processi produttivi sono abituate a vivere di espedienti e in attesa di occasioni propizie per rivalersi sulle classi agiate. È il ceto piccolo borghese d’ancien régime – che vive di poco, conduce un’esistenza regolare, dispone di una piccola proprietà e di un lavoro modesto ma sicuro – a vedere nel conflitto non un fatto fisiologico della democrazia ma un potenziale distruttivo del suo mondo e dei suoi valori. Il secondo motivo sta nella reazione a una cultura politica, come quella italiana, che continua a esaltare nella lotta il sale del liberalismo, il vento che soffia sulla laguna della società civile e ne impedisce la degenerazione in palude. Si tratta di una concezione romantica e irrazionalistica portata a esaltare la vita, la «critica», la contestazione ovunque esse si manifestino e, insieme, incapace di intendere che il conflitto liberale è un conflitto «regolato», dove l’aggettivo è importante quanto il sostantivo: in una democrazia a norma, le squadre in campo giocano obbedendo a regolamenti rigidi e codificati e sotto la sorveglianza di arbitri e di guardalinee. Nell’Italia di Giannini, invece, l’esaltazione del conflitto è legata all’ossessione del nuovo, dell’andare avanti, alla riedizione (a sinistra) del «chi si ferma è perduto», alla «partecipazione» come dovere sacro del cittadino. La «lotta», la risoluzione a «fare i conti» con i nemici politici e i loro complici ignavi, il risveglio brusco della vecchia Italia sonnolenta sono la guerra civile che continua con altri mezzi, quelli delle parole e dei simboli minacciosi.

In virtù di queste considerazioni si dovrebbe forse essere più indulgenticol qualunquismo, un liberalismo plebeo rivestito di abiti populisti ma consapevole, a differenza dei liberali aristocratici, del mutamento sociale in atto e della correlata necessità di ripensare radicalmente i modi di far politica. La volgarità del movimento andrebbe letta anche come una delle espressioni della «laicizzazione degli spiriti», come la fine dei privilegi del potere e del sapere, che possono prevalere sull’uomo qualunque, con il loro denaro e il loro latinorum, ma non più pretendere su di lui una qualsiasi superiorità morale e un diritto innato di guida e di comando. Col qualunquismo finisce l’era dei «chierici»: alla loro «cultura del piagnisteo» e al loro «oh tempora o mores!», il qualunquismo, depurato delle sue scorie «plebee», contrappone la profonda eticità del principio democratico «un uomo, un voto».

Bibliografia

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Brano tratto dal "Dizionario del liberalismo italiano", edito da Rubbettino Editore. Clicca qui per acquistarlo con il 15% di sconto