Qualunquismo

di Dino Cofrancesco

Il qualunquismo – termine derivato dall’«Uomo Qualunque», il giornale che diede il nome al movimento politico fondato da Guglielmo Giannini nel 1945 e destinato a durare non più di tre anni – non ha mai goduto, almeno fino a qualche tempo fa, di buona stampa. Nella sua accezione negativa, esso rinvia a vizi antichi (o presunti tali) della società italiana, all’«uomo del particulare» che Francesco De Sanctis, attento lettore di Francesco Guicciardini, stigmatizzava in pagine famose, al familismo amorale analizzato nel classico saggio di Edward Banfield, all’«aborto della coscienza nazionale italiana» studiato dall’antropologo culturale Carlo Tullio-Altan, al quale si deve, addirittura, un «indice qualaut» (qualunquismo autoritario) di misurazione della nostra arretratezza civica.

Le condanne sommarie del qualunquismo traducono la sua presunta irresponsabilità civica in una vera e propria tara dell’anima. La pubblicistica più impegnata su questo terreno, a destra e a sinistra, sembra non porsi neppure il problema se il «diritto ad appartarsi» non sia, in qualche misura, legato alla «libertà dei moderni» contrapposta da Benjamin Constant, nella celebre Prolusione parigina del 1819, alla «libertà degli antichi».

Ma meritava l’Uomo Qualunque tante colate di fango? Aveva davvero spalancato gli armadi della political culture nazionale e mostrato quanti disgustosi scheletri vi fossero nascosti? In realtà, rispondere a questa domanda non significa solo chiarire «che cosa è stato» o «che cosa ha veramente detto Guglielmo Giannini», nei pochi anni in cui ha fatto la sua comparsa sulla scena politica, ma, altresì, fare i conti con equivoci inveterati che continuano ad annidarsi nelle pieghe di una concezione della democrazia e del liberalismo che, forse, ancora oggi, ci impedisce di diventare un «paese normale».

La figura di Guglielmo Giannini è molto più complessa di quanto non si sia scritto. Che fosse un uomo di teatro, un cineasta, uno scrittore di gialli, un canzonettista, è certo. Ma era proprio così digiuno di politica e così incolto come si è spesso sostenuto? Nato nel 1891 in una famiglia di media borghesia napoletana – il padre, Federico, era un giornalista abbastanza noto – Giannini, non aveva alle spalle grandi studi ma indubbiamente era molto interessato alla vita nazionale e locale e non poco attratto dal mondo della carta stampata. Tra il febbraio e il marzo 1919, sul nittiano «Giornale della Sera» di Napoli fu il primo «a lanciare l’idea di un partito del lavoro, comprendente non solo operai, ma media e piccola borghesia». Con l’avvento del fascismo, Giannini si dedica esclusivamente all’attività letteraria e allo spettacolo – teatro e cinema. Il rientro nella politica avviene – prima ancora che nella Resistenza romana, tra le file del partito repubblicano – solo nel 1942 quando l’amatissimo figlio Mario, perde la vita in guerra. È allora che inizia la sua dolente meditazione sul cinismo dei politici che si tradurrà in un librone prolisso, amaro, oscillante tra spunti decisamente libertari e dissacranti e nostalgia della perduta dimensione comunitaria, La folla. Seimila anni di lotta contro la tirannide (Ed. Lo Faro, Roma luglio 1945). «Quest’opera – si legge nella dedica – è dedicata/ a una meravigliosa creatura d’amore/ Mio figlio Mario/ che cessò di vivere/ all’età di ventun anni undici mesi/ diciassette giorni/ nel pieno della salute e della bellezza/ il 24 aprile 1942/ Una versione ufficiale dice/ ch’egli cadde nell’adempimento del proprio dovere/ verso la patria/ ma in realtà fu assassinato/ insieme a milioni di altri innocenti esseri umani/ da alcuni pazzi criminali/ che scatenarono la guerra».

Non va trascurato, però – come si è spesso fatto –, il «momento positivistico» della filosofia de La Folla. Giannini, anche per il suo lavoro teatrale e cinematografico, ha esperienza delle «meraviglie della tecnica», dell’impatto dei mass media sull’opinione pubblica, delle ricadute sociali delle invenzioni dell’ingegneria e della medicina moderna. In tal modo, non esita a sottoscrivere la legge comtiana del rapporto a somma zero tra politica e scienza, in virtù del quale più avanza il progresso, meno necessario diventa il potere. Il progresso, scrive, è «una forza messa al servizio della libertà dell’uomo: ed è questa l’oscura origine dell’ostilità dei Capi verso il Progresso. La sua potenza sempre crescente limita sempre più il loro potere».

Anche se il libro venne venduto sulla scia della crescente notorietà dell’autore, le tematiche de La Folla, però, con la discesa in campo del Fondatore, arretrarono sempre di più rispetto ad altre.

Le Vespe, dà fondo alla sua vena partenopea, alterando i nomi dei suoi avversari politici – che diventano Piero Caccamandrei, Luigi Servitorelli, Mario Perdiguerra, Fessuccio Parmi ecc. – o ribattezzando i partiti rivali – i compagni, già camerati, diventano i «cameragni», i democristiani, i «demofradici cristiani» ecc. C’era in lui del «tersitismo» – il dileggio dei potenti – ma, soprattutto quella desacralizzazione della politica (di cui la guerra perduta indubbiamente, aveva posto le condizioni), che, comunque la si voglia giudicare è una conditio sine qua non di una democrazia liberale, laica, senza complessi, dove i rappresentanti del popolo sono «persone come noi» e John Doe va a Washington per ricordare a essi gli impegni presi e non mantenuti. Dopo il fascismo, si ha bisogno di un rapporto meno teso con la politica, non si sopportano più i «monumenti» storici e ideologici, il «pathos» della distanza, le mitologie che si costruiscono attorno agli esponenti della nuova classe dirigente. Si vuole introdurre anche nella politica un po’ di «leggerezza» dal momento che la «serietà» ha prodotto tanti disastri. È il punto d’incontro di Guglielmo Giannini con l’Italia giornalistica e letteraria che non si riconosce nel «vento del Nord» (ribattezzato sull’U.Q. «rutto del Nord») e nei disegni di rigenerazione etico-politica nutriti dai partiti di sinistra del Cln (Pci, Psi, Pd’a.). I Guareschi, i Longanesi, i Flaiano, i Montanelli, i Giovanni Mosca ecc.

Siamo uomini o caporali? del1955, di Camillo Mastrocinque, alla cui sceneggiatura aveva collaborato anche Totò, che, nel ricordo di Zavattini, faceva tutto quello che gli diceva Giannini.

Conclusioni e proposte risolvevano il dilemma allora più sentito dell’economia programmata contrapposta al mercato e al capitalismo. È la economia controllata la via da imboccare: «l’intervento sembra inutile e dannoso, buono soltanto per gonfiare le gote con le parole grosse (socializzazione, nazionalizzazione, e simili) che non creeranno mai la ricchezza, quando non c’è».

Senza gli slogan tanto irriverenti quanto efficaci di Giannini, senza l’uso di un linguaggio immediato, diretto, che non si faceva scrupolo a richiamare le parti basse del corpo umano – un «pornografo» lo definì l’antipatizzante Giovannino Guareschi – senza la full immersion in una quotidianità in cui lettori e ascoltatori si riconoscevano, come avrebbe potuto l’U.Q. convogliare le speranze e le attese della «gente meccanica e di piccolo affare»?

Con l’inizio della guerra fredda e la divisione dell’Europa, tuttavia, l’area moderata fu sempre più indotta a far quadrato attorno alla Dc degasperiana, vista come l’unica grande forza nazionale in grado di far da diga contro l’avanzata delle sinistre. L’U.Q. aveva beneficiato, nonostante l’antifascismo non retorico di Giannini, della vietata ricostituzione del partito fascista e dello scarso consenso ottenuto dalle formazioni monarchiche. Quando la Dc, shoccata dal sorpasso dell’U.Q. alle amministrative di Roma (autunno del 1946), iniziò la lenta manovra di recupero dei voti qualunquisti, trovò nel disinvolto pragmatismo di Giannini un tallone d’Achille fin troppo scoperto. Il Fronte, di lì a poco cominciò a sgonfiarsi in un mare di polemiche e di recriminazioni.

Demonizzato allora, vilipeso oggi, all’U.Q., però, non mancarono voci più critiche e pacate in grado di cogliere, senza esecrarli, aspetti significativi della sua prassi e della sua protesta – Filippo Burzio, Santi Romano, Augusto Del Noce ecc.

L’analisi del filosofo cattolico inquadrava la «reazione qualunquista» nello «spirito dell’epoca» e, in radicale dissenso con la cultura azionista, come nel fascismo si rifiutava di vedere un brutto episodio provinciale, impensabile al di fuori dell’Italia, così in quella reazione – rivolta soprattutto all’antifascismo – vedeva una risposta su cui meditare seriamente. «L’essenza del qualunquismo – concludeva – è in questa rivolta dell’uomo comune, di colui che all’élite politica non appartiene ed è da questa ridotto a strumento per l’attuazione di questo o quel piano, contro i “professionali della politica”».

polis del dopoguerra e potessero liberamente esprimersi senza, per questo, costituire un pericolo o una minaccia per i vincitori della guerra civile. Ma non è il compito che si sarebbe dovuto dare una democrazia secolarizzata, ovvero una democrazia intesa come registrazione e non come redenzione o come risanamento dell’esistente? Se i tempi non sono ancora del tutto maturi oggi si può ben immaginare quanto lo fossero allora quando le ideologie dominanti non avevano alcuna intenzione ricostruire la comunità politica su «valori forti e condivisi»!»

Mezzo secolo dopo Del Noce, saranno soprattutto Roberto Chiarini e Giovanni Orsina a rendere giustizia all’U.Q. Sintetizzando ombre e luci del qualunquismo, scriverà il primo ne La Destra italiana: «Si tratta di un impasto, certo informe e irrisolto, di giudizi, e soprattutto di pregiudizi e di luoghi comuni, di cui si nutre l’italiano medio del tempo. Ma è anche un impasto che, nonostante tutto, incorpora l’assunto, mai davvero fatto proprio dai vari soggetti della politica nazionale, secondo cui in democrazia la sovranità spetta in ultima istanza all’uomo della strada, senza tutele di sorta da parte di minoranze politiche. Un impasto di modernità e di arretratezza. Di modernità laddove reclama una società civile emancipata dalla politica, di arretratezza quando dà voce ad un popolo appunto di qualunquisti, nutriti di una cultura volgarmente impolitica (nel senso che rifiuta l’irrinunciabile divisione del lavoro tra stato e società) e schiettamente illiberale (laddove respinge l’idea della fertilità del conflitto nella fisiologia della democrazia). Tutto ciò non è del resto per niente una sorpresa nell’Italia degli anni Quaranta, erede diretta dell’Italia fascista, che di una cultura civica intimamente antiliberale è stata la più convinta ed efficace propagandista». Per la verità, è difficile trovare negli articoli e nell’opus maius di Giannini le tracce di una «cultura volgarmente impolitica» «che rifiuta l’irrinunciabile divisione del lavoro tra stato e società». Il suo sarà pure un liberalismo ingenuo e approssimativo ma il rigetto assoluto dello Stato etico – che Giannini vede attuato sia nel fascismo che nel comunismo – comporta proprio quella «divisione del lavoro tra stato e società», destinata a dileguarsi nelle teorie organicistiche elaborate dai regimi totalitari di destra e di sinistra.

È innegabile, invece, che nell’U.Q. manca o si appanna uno dei pilastri del liberalismo: «l’idea della fertilità del conflitto nella fisiologia della democrazia». È un’assenza, però, che si spiega con due motivi, l’uno antropologico culturale e l’altro storico. Il primo sta nella saggezza sottesa all’adagio popolare che nei periodi di sommovimenti gli stracci vanno sempre in aria. Delle guerre e delle rivoluzioni le vittime designate non sono i poveri e le classi socialmente pericolose che, se moderne e strutturate, possono costituire l’esercito marciante del Progresso e se marginalizzate dai processi produttivi sono abituate a vivere di espedienti e in attesa di occasioni propizie per rivalersi sulle classi agiate. È il ceto piccolo borghese d’ancien régime – che vive di poco, conduce un’esistenza regolare, dispone di una piccola proprietà e di un lavoro modesto ma sicuro – a vedere nel conflitto non un fatto fisiologico della democrazia ma un potenziale distruttivo del suo mondo e dei suoi valori. Il secondo motivo sta nella reazione a una cultura politica, come quella italiana, che continua a esaltare nella lotta il sale del liberalismo, il vento che soffia sulla laguna della società civile e ne impedisce la degenerazione in palude. Si tratta di una concezione romantica e irrazionalistica portata a esaltare la vita, la «critica», la contestazione ovunque esse si manifestino e, insieme, incapace di intendere che il conflitto liberale è un conflitto «regolato», dove l’aggettivo è importante quanto il sostantivo: in una democrazia a norma, le squadre in campo giocano obbedendo a regolamenti rigidi e codificati e sotto la sorveglianza di arbitri e di guardalinee. Nell’Italia di Giannini, invece, l’esaltazione del conflitto è legata all’ossessione del nuovo, dell’andare avanti, alla riedizione (a sinistra) del «chi si ferma è perduto», alla «partecipazione» come dovere sacro del cittadino. La «lotta», la risoluzione a «fare i conti» con i nemici politici e i loro complici ignavi, il risveglio brusco della vecchia Italia sonnolenta sono la guerra civile che continua con altri mezzi, quelli delle parole e dei simboli minacciosi.

In virtù di queste considerazioni si dovrebbe forse essere più indulgenticol qualunquismo, un liberalismo plebeo rivestito di abiti populisti ma consapevole, a differenza dei liberali aristocratici, del mutamento sociale in atto e della correlata necessità di ripensare radicalmente i modi di far politica. La volgarità del movimento andrebbe letta anche come una delle espressioni della «laicizzazione degli spiriti», come la fine dei privilegi del potere e del sapere, che possono prevalere sull’uomo qualunque, con il loro denaro e il loro latinorum, ma non più pretendere su di lui una qualsiasi superiorità morale e un diritto innato di guida e di comando. Col qualunquismo finisce l’era dei «chierici»: alla loro «cultura del piagnisteo» e al loro «oh tempora o mores!», il qualunquismo, depurato delle sue scorie «plebee», contrappone la profonda eticità del principio democratico «un uomo, un voto».

Bibliografia

L’Italia populista. Dal qualunquismo ai girotondi, il Mulino, Bologna 2003.