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Metodo liberale

di Maurizio Serio

Storicamente, il problema dell’individuazione di un metodo liberale si affaccia nel dibattito italiano per fronteggiare gli eccessi della filosofia idealista traboccanti nello Stato etico, con pretese totalitarie, propugnato dal fascismo – cioè paradossalmente proprio al tramonto dell’età liberale propriamente detta. Lo scenario è quello della crisi del sistema delle garanzie individuali e del funzionamento degli organi istituzionali, mentre si consuma l’erosione progressiva degli istituti dello stato di diritto, una delle grandi conquiste dell’Italia liberale. L’individuazione di un metodo politico liberale consente allora di scindere i portati positivi del liberalismo dalle sue manifestazioni storiche per incanalarli nelle varie culture politiche, delle quali può diventare un solido denominatore comune spendibile nella concreta vita e attività politica.

Da qui discende il tentativo di Gaetano Salvemini di una sintesi del metodo liberale, basato sulla libertà individuale, con l’ideale socialista del comune benessere. Su questa strada insiste ancora Carlo Rosselli che nel 1923, sul primo numero di «Critica Sociale», indica come metodo liberale «il rispetto per alcune fondamentali regole di gioco, che stanno alla base della civiltà moderna e che si riassumono nel sistema rappresentativo, nel riconoscimento di un diritto di opposizione e nella ripulsa dei mezzi violenti di opposizione e contestazione». Ad esplicitare la portata della sua osservazione, un anno più tardi, nella seconda versione di Liberalismo socialista, pubblicata ne «La rivoluzione liberale» diretta da Gobetti, Rosselli propone una antitesi tra sistema e metodo liberale: il primo è elemento di conservazione, in quanto riflesso della struttura sociale, economica e giuridica dello Stato borghese; mentre il secondo è un ideale, il cui «contenuto concreto […] muta nel tempo; quel che è fondamentale è lo spirito, la funzione immortale, l’elemento dinamico e progressista insito in esso». Per Rosselli, lungi dall’essere appannaggio di una élite culturalmente o storicamente determinata, esso è proponibile come «complesso di regole di giuoco che tutte le parti in lotta si impegnano di rispettare in quanto servono ad assicurare […] la pacifica convivenza dei cittadini e delle classi».

Il metodo della libertà

È questo il filo rosso cui si lega anche Luigi Sturzo, che, commentando nel 1925 la Storia del liberalismo europeo di Guido De Ruggiero, riconosceva al liberalismo d’aver introdotto due conquiste ormai inderogabili per la civiltà: il «metodo della libertà» e il «metodo rappresentativo». Il primo va «inteso nel campo politico come libero gioco delle forze sociali, sia come partiti, sia come organismi economici, sia come correnti intellettuali e morali». Il merito del liberalismo sta nell’averlo ridotto a sistema, applicandolo alla vita politica, spogliandolo degli eccessi dell’individualismo e adattandolo agli sviluppi democratici. A sua volta, l’antropologia cristiana soccorre nell’arricchire il senso di questa libertà, evitando di personificare lo Stato, la struttura, perché lo riferisce agli uomini concreti che operano nelle istituzioni, con tutto il corollario di antiperfettismo e contingenza che i teorici liberali dell’individualismo metodologico (Hayek, Mises, Boudon, ecc.) non mancheranno poi di indagare approfonditamente. Aver introdotto il metodo della libertà «vuol dire aver dato anche agli altri la medesima arma di lotta e il medesimo diritto di esistenza». Lo stesso Sturzo riconosce che della sua introduzione «tutti ne approfittarono, anche la Chiesa» come nel caso delle battaglie condotte in Europa nel secolo XIX per «la libertà della Chiesa, la libertà della scuola e la libertà delle associazioni»; pertanto, «il vantaggio su tutti gli altri sistemi politici è enorme». A questo proposito possiamo notare come ad esempio un fenomeno come il clerico-moderatismo sia stato paradossalmente l’ultima scintilla del sistema liberale italiano, teso com’era ad assicurare la riproducibilità in senso elettorale di una élite e di un blocco sociale che pretendeva di rappresentare un mondo (stavolta quello cattolico) invece assai variegato al suo interno, estromettendo le masse popolari da questo meccanismo – donde la sua tiepidezza nei riguardi del suffragio universale (che invece sarà uno dei punti programmatici del Ppi di Sturzo). Da qui emerge un tratto fondamentale del metodo liberale: la laicità come cifra dell’agire politico, cioè, per dirla con Norberto Bobbio, come «quell’insieme di regole formali per la pacifica convivenza di persone appartenenti a fedi diverse, e quindi come un metodo di libertà e di eguaglianza (libertà di credere e uguaglianza di fronte alla legge)», che rifiuta ogni dogmatismo, sia esso politico o religioso, nell’accettazione della necessità del confronto e della lotta politica – finanche del dissenso interno, cardine del metodo liberale contro qualsiasi assolutizzazione degli stessi meccanismi democratici.

L’opinione pubblica

Il tema del libero confronto di opinioni, e della conseguente rivendicazione di spazi di libertà, formali (istituzionali) e informali (società civile), dove esso possa esplicarsi, fra gli altri era stato sottolineato anche da Massimo D’Azeglio, che vi ravvisava l’essenza del metodo liberale. È pertanto la dimensione dell’opinione pubblica a costituire la cinghia di trasmissione tra il metodo della libertà e il sistema rappresentativo: l’opinione pubblica, in quanto sanzione popolare agli atti di governo e in quanto sfera di formulazione e condivisione delle diverse culture politiche, «necessita di un ambiente di libera discussione per potersi correttamente formare, mantenere, diffondere». Sicché lo stesso problema democratico, letto alla luce del metodo liberale, appare in fondo e «in sostanza, un problema di libertà». Libertà che non è mai un dato pacificamente acquisito, ma è una meta da raggiungersi nello svolgimento della storia, incarnandosi la forma della libertà nelle forme istituzionali, secondo i canoni del costituzionalismo. Sturzo parla di libertà «come equilibrio tra cittadini e come possibilità reale del giuoco dinamico delle forze politiche» e denuncia il tentativo di limitarla a partire dal secolo XIX, quando «è stata concepita una nuova divinità»: lo Stato accentratore. Elevato «all’assoluto di un mito», lo Stato deve pensare a difendersi da quanti minacciano di porre un freno ai suoi poteri: i corpi intermedi e i singoli individui, verso cui si scatena una progressiva campagna di contrazione dei diritti di libertà fino all’annullamento. Pertanto, è proprio a partire dai diritti di libertà (ossia dal passaggio storico dal suddito al cittadino), che può avvenire la conciliazione dei due termini necessari alla vita sociale, la libertà e l’autorità, operata per mezzo di organismi di compensazione, quali la divisione dei poteri e l’eguaglianza di tutti di fronte alla legge, che la scienza politica successiva codificherà fra i cosiddetti «universali procedurali», le regole di funzionamento minimo per un sistema democratico. Ciò consente di evitare che l’autorità si risolva in una pura delega di poteri e che la libertà si appiattisca su una dimensione meramente individualistica. Piuttosto, continua Sturzo, «il concetto politico basilare in democrazia è quello di Cicerone: la libertà è partecipazione di autorità. Questa partecipazione è fatta in due modi: una estra [sic] giuridica: l’opinione pubblica formata con mezzi liberi; l’altra giuridica: la partecipazione elettorale e legislativa», diretta o indiretta.

Il metodo rappresentativo

A questo proposito viene ad inserirsi la riflessione sturziana sul metodo rappresentativo, categoria dirimente nel dibattito secolare sulla partecipazione del popolo e sull’attribuzione di sovranità nei sistemi politici. Infatti, «l’essenza della democrazia consiste nel rendere il popolo e i suoi organismi (che ne sono diretta o indiretta emanazione) coscienti del valore dei diritti individuali e collettivi (e dei doveri corrispondenti) e della loro coordinazione o subordinazione secondo i casi. In democrazia l’opzione e decisione politica appartiene agli organismi tecnici e responsabili ma il giudizio di valore è un giudizio popolare». Stante questo intreccio fra istituti di rappresentanza e sovranità popolare, occorre chiarire come quest’ultima venga intesa alla luce del metodo liberale. Quanto alla sostanza democratica, il metodo liberale concepisce la sovranità popolare come partecipazione del popolo, in regime costituzionale, alla formazione del regime stesso tramite l’elezione di organismi rappresentativi, la petizione popolare, il ricorso agli istituti referendari. Contro qualsiasi residuo idealistico, non ammette che il popolo sia fonte assoluta di autorità e di sovranità quale principio etico-giuridico – come ugualmente non ammetteva che lo fosse il sovrano assoluto d’ancien régime. Che il metodo politico liberale sia un superamento dello Stato etico e un’efficace sintesi della dimensione formale e degli aspetti sostanziali della democrazia lo si può dimostrare ricorrendo al «caso di scuola» dell’opposizione a una legge ingiusta: come conciliare l’opposizione alla legge ingiusta con l’adesione alle regole democratiche? Ebbene, il metodo della libertà prescrive che l’opposizione a una legge ingiusta avvenga all’interno delle procedure democratiche, ovvero accettando il principio di maggioranza: la stessa volontà sovrana che ha voluto la legge deve essere quella che deve respingerla – con ciò implicando un esercizio attivo e continuato della sovranità popolare, anche fino all’obiezione di coscienza. In definitiva, il metodo liberale resta l’unica maniera incruenta di cambiamento per i regimi politici, giacché ne garantisce l’evoluzione attraverso la composizione pacifica del conflitto, con il ricorso al metodo della libertà e al metodo rappresentativo.

Il pluralismo come metodo e come risorsa

Alla luce di quanto detto sinora, il metodo liberale risulta un anticorpo necessario a sostanziare una realistica sfiducia verso le pretese ordinatrici dello Stato moderno, tanto nella sua versione totalitaria, quanto nelle non meno pericolose epifanie dello spirito democratico giacobino. Per dirla con Matteucci, sul piano strettamente politico il liberalismo si è sempre presentato come il difensore delle autonomie locali e della libertà della società civile, ovvero dell’autonoma capacità aggregativa e organizzativa dei corpi intermedi, della loro funzione di mediare tra istanze particolari e istanze generali, tra finalità sociali e obiettivi politico-strategici. Si è sempre contrapposto al potere centrale, il quale si presenta sotto forma di esercizio minuzioso e sistematico del potere, con i caratteri della varietà, della diversità e del pluralismo; caratteri tipici piuttosto della società civile e ostentati come aspetti positivi. Di fronte allo stato burocratico e amministrativo, il metodo liberale da un lato oppone i principi di sussidiarietà e l’immagine di un ordine poliarchico, come naturale evoluzione del principio classico della rappresentanza, mentre dall’altro propone la riscoperta della politica, ovvero di quell’aspetto che rende unica l’azione politica: l’arte della composizione degli interessi, accettando il costo in termini di conflitto sociale che tale funzione architettonica comporta, dal momento che i conflitti politici, se contenuti all’interno del quadro costituzionale, sono l’espressione di un ordine – domestico, internazionale o globale che sia – che nasce proprio dalla vitalità e dal pluralismo della società civile. In definitiva, continua Matteucci, «il liberalismo, in continuità con il pensiero medioevale, si configura proprio come lotta contro l’affermarsi dello Stato assoluto». E conclude: «[…] è proprio il pensiero liberale, da Tocqueville a Weber, a vedere nello Stato amministrativo la maggior minaccia alla politica e quindi alla libertà. Infine si rischia di non intendere la natura (liberale e non democratica) e le origini (medioevali e non moderne) di un istituto cardine degli attuali sistemi costituzional-pluralistici, quello del controllo di costituzionalità delle leggi, che serve appunto a garantire i diritti dei “singoli” cittadini contro la volontà della maggioranza e senza il quale ogni Dichiarazione dei diritti dell’uomo resta la mera espressione di un atto di buona volontà».

Bibliografia

Bedeschi G., Storia del pensiero liberale, Laterza, Roma-Bari 2004; Bobbio N., Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984; Cofrancesco D., La democrazia liberale (e le altre), Rubbettino, Soveria Mannelli 2003; D’Azeglio M., Raccolta di Scritti Politici,Tipografia Fory e Dalmazzo, Torino 1850; De Ruggiero G., Storia del liberalismo europeo, Laterza, Bari 1925; Matteucci N., Il liberalismo in un mondo in trasformazione, il Mulino, Bologna 1972; Id., voce «Liberalismo» in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di politica, Utet, Torino 2004; Paolozzi E., Il liberalismo come metodo, Fondazione «L. Einaudi», Roma 1995; Id., Croce e il metodo liberale, Libro Aperto, Ravenna 2010; Rosselli C., Liberalismo socialista, in «Critica sociale», 15 luglio 1923, seconda versione in «La rivoluzione liberale», 15 luglio 1924; Sturzo L., Politica e morale (1938) – Coscienza e politica (1953), Zanichelli, Bologna 1972; Id., Il partito popolare italiano, III, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2003.

Brano tratto dal "Dizionario del liberalismo italiano", edito da Rubbettino Editore. Clicca qui per acquistarlo con il 15% di sconto