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Diritto del mercato

di Natalino Irti

L’autore di questa «voce» ha consegnato la propria tesi a un libro, L’ordine giuridico del mercato, che reca in prima edizione laterziana la data del 1998. Il libro si raccoglie intorno a un concetto direttivo: che l’economia di mercato, al pari di altri e diversi assetti (collettivistico, misto ecc.), è locus artificialis, e non locus naturalis; che codesta artificialità deriva da una tecnica del diritto, la quale, in dipendenza di decisioni politiche, conferisce forma all’economia, e la fa, di tempo in tempo, mercantile o collettivistica o mista, e via seguitando; che quelle decisioni politiche sono di per sé mutevoli, sicché i vari regimi dell’economia vengono segnati dalla storicità, e nessuno può dirsi assoluto e definitivo.

La tesi esprime netto e fermo rifiuto di qualsiasi naturalismo economico, onde il diritto appaia come semplice immagine o riproduzione di un ordine che sia prima e fuori di esso. Il naturalismo, caduta ormai la fede o l’ideologia del diritto naturale, occupa il terreno dell’economia; e come il diritto naturale era preso per assoluto e immutabile, così l’economia di mercato sarebbe provvista di quei caratteri e aspirerebbe alla stessa incondizionata validità. Ancora una volta, la «natura» è contrapposta alla storia degli uomini, ed elevata a criterio di guida e di giudizio del diritto positivo. Il giusnaturalismo si ripresenta, non più in specie teologiche o razionali, ma nella moderna dimensione dell’economia.

Il naturalismo, avendo dalla sua l’immutabilità di «leggi dell’economia», rifiuta la discordia della politica, il mutevole flusso delle opinioni, l’instabile divenire del diritto. Esso è, per sua indole, antipolitico e antigiuridico: e perciò crea ed ama la zone «neutre», «tecniche», «indipendenti», dove tace ogni conflitto e sole dominano le «leggi del mercato». I «competenti», hanno la capacità di intenderle, e di tradurle, se proprio sia necessario, in norme giuridiche: ma sempre lontano dalle risse parlamentari e dal conflitto dei partiti. È davvero singolare che notabili della sinistra storica non si stanchino di professare l’ideologia del mercato, e adoperino le vicende finanziarie ed economiche per esclusivi criteri di giudizio, e muovano rimprovero alla destra di poco o molto discostarsene: singolare davvero, poiché così decretano la rovina della politica [cfr. Cacciari 1994], o, meglio, praticano la politica dei loro stessi avversari.

Al naturalismo, ossia ai «liberisti della cattedra», può subito opporsi che quelle «leggi dell’economia», le quali si vorrebbero immutabili e perenni, sono tutte popolate di istituti giuridici: dalla proprietà privata all’autonomia contrattuale, dal dovere di eseguire gli accordi alla libertà di disposizione testamentaria. E sono istituti, non naturali, o dati da sempre e per sempre all’uomo, ma storicamente definiti: risultati raggiunti nel corso di quelle battaglie politiche, che ora si desiderano silenziose e spente. Si scopre così che il naturalismo è assai poco «naturale», e piuttosto ascrive alla natura, e protegge con predicati di assolutezza e immutabilità, il contingente risultato di un periodo storico e di una volontà politica. Il metodo di ogni giusnaturalismo sta proprio nel trasferire al mondo naturale ciò che appartiene al mondo storico, e dunque nel convertire un processo di volontà in processo di pensiero, sicché la conoscenza di leggi naturali dispensi dal volere leggi storiche o obblighi a volerle ad esse conformi.

E pure può opporsi che lo stesso Friederich August von Hayek, riconosciuto per maestro dai «liberisti della cattedra», avverte l’intrinseca connessione fra diritto ed economia, e questa colloca in un cosmos fondato su nomoi (nomos è «una norma astratta non dovuta alla volontà concreta di qualcuno, applicabile in casi particolari indipendentemente dalle conseguenze, una legge che poté esser «trovata», e non creata per particolari fini prevedibili» [Hayek (1967) 1988, p. 90]. Notiamo – e nel libro si trovano più larghi svolgimenti – che Hayek profila due forme di connessione tra diritto ed economia (la taxis costruita con leggi volute e il cosmos riposante su leggi «trovate»), mostrando di pregiare e preferire la seconda, e dunque facendo appello alla volontà degli uomini affinché condividano ed eseguano tale scelta. Prima del «volere» la taxis o del «trovare» il cosmos, c’è la decisione di scegliere quel volere o quel trovare: dalla volontà, quanto a posizione e im-posizione di norme, lo stesso Hayek non può uscire. È appena da aggiungere che le leggi «trovate» – spostando, com’è nel metodo d’ogni giusnaturalismo, il problema normativo dal volere al conoscere – esigerebbero l’indicazione del luogo di trovamento, il quale non sarebbe poi altro dalla storia di istituti giuridici, prodotti dalla volontà umana nel corso del tempo.

Alla definizione del mercato come locus artificialis (formula entrata dal 1998 nel circolo del linguaggio giuridico) suole replicarsi che il mercato non ha bisogno del diritto statale, poiché è, esso stesso, capace di produrre il proprio diritto. Non crediamo di meritare rimprovero circa lo scambio tra legislativo e normativo, o fra statale e giuridico. Il problema è altro, e sta nel configurare e pensare l’intrinseca normatività del mercato. Non si conosce per vero alcun mercato (mercato, determinato nel tempo e nello spazio) che non presupponga istituti giuridici: anche l’elementare distinzione di «mio» e «tuo», dalla quale procede ogni atto di scambio, implica il rinvio ad un criterio determinativo. Il mercato non crea, ma postula la distinzione tra «mio» e «tuo», e dunque che i beni siano attribuiti in proprietà privata, e non caduti in proprietà comune. Rilievo, che anche concerne la presupposizione delle monete, o di forme di garanzie e responsabilità patrimoniali, e via seguitando.

Il punto è che i sostenitori della spontanea normatività del mercato immaginano –ancorché non confessino di immaginare – uno stato originario e primordiale, in cui gli uomini, affrancati dai lacci dei diritti storici, s’incontrino e negozino e stipulino accordi. I quali sarebbero, come tali, vincolanti e obbligatori. Si tratta, come ognun vede, del consueto naturalismo, che tuttavia dimentica di spiegare perché gli accordi avrebbero efficacia vincolante, e quali rimedî e sanzioni sarebbero predisposti per il caso di loro inosservanza. Ogni accordo, sciolto da legami con diritti positivi (di Stati o di unioni di Stati), sarebbe a sé, raccolto ed esaurito nella propria solitudine. Il solipsismo negoziale trasferirebbe agli accordi, al singolo accordo, gli attributi della sovranità: originari, poggianti su se stessi, non richiedenti ad altri la loro legittimazione. E allora dovrebbe immaginarsi, per ciascuno di essi, una Grundnorm, che sia all’inizio e ne decreti l’obbligatorietà: il famoso pactum est servandum di cui ogni accordo farebbe solitaria applicazione.

A questo non giungono (né così per vero argomentano) i sostenitori della naturale normatività del mercato, i quali neppure spiegano l’estremo appello alla forza coercitiva degli Stati, che, tenuti in disparte e sepolti tra le reliquie del passato, tuttavia risorgono e si fanno necessari. Indispensabili, come luoghi di esecuzione degli accordi (che pur debbono appoggiarsi a un qualche territorio); e indispensabili nell’offrire la forza coercitiva, quando i patti sono violati e i singoli si scoprano impotenti e disarmati.

Proprio quando l’ideologia del mercato sembra unica ed esclusiva forma del pensare collettivo, imprenditori e uomini di finanza e «tecnici» dell’economia, non solo chiedono che lo Stato abdichi a ciò che rimane di pubblico, ma si fanno a invocare nuove regole. Vicenda non strana né inspiegabile, se appena si consideri che le vecchie regole contrastano od ostacolano l’egemonia del mercato, e le nuove lo espandono e rafforzano. Ma vicenda, che pure attesta la necessità conformativa del diritto, e come sempre alla volontà degli uomini, abrogatrice o emanatrice di norme, si metta capo per l’impianto di un regime economico.

Dietro l’antitesi fra leggi naturali dell’economia, neutre assolute oggettive, e leggi storiche, dipendenti dal volere umano, sempre si agita la lotta politica, sempre stanno di fronte ideologie o visioni della società. Conflitto tra una politica e un’altra, e non fra politica e a-politica neutralità. Quando si afferma che il diritto disegna l’economia, e il mercato si risolve in statuto di norme, non si propone uno o un altro regime degli scambi, una o un’altra disciplina della proprietà, ma solo si ricorda l’elementare presupposto di tutti gli assetti: la volontà politica, tradotta in statuizioni giuridiche.

Le soluzioni eclettiche e compromissorie, che si provano a distribuire percentuali d’influenza tra diritto ed economia, poco o nulla raggiungono in linea di nettezza argomentativa e precisione di pensiero. Il discorso sempre torna alla volontà dell’uomo, dispiegantesi nella lotta politica e nelle scelte legislative. La conformazione dell’economia non è il terreno della pace, ma del più aspro e duro conflitto: dove stanno, l’uno contro l’altro, visioni della vita, progetti di società, interpretazioni del passato, attese per il futuro. E così – conviene ancora di ribadire –, quando lo Stato si ritira dall’economia, e «privatizza» beni e imprese, non c’è vuoto di politica, non l’oggettivo imperio della natura, ma pienezza della politica, di quell’umano volere che ha scelto un dato regime della proprietà e degli affari.

L’ordine giuridico del mercato può dirsi schiettamente liberale, poiché consegna alla libertà degli uomini, quale si svolge nelle lotte politiche e nelle scelte legislative, il potere di conformare l’economia, e di volerne questo o quell’assetto. «Chi ha paura della volontà – ha scritto un filosofo – ha paura della storia» [Calogero 1939, p. 89]: e, aggiungeremo, chi ripara nel naturalismo economico, e tiene per assoluto e immutabile il regime della proprietà e degli scambi privati, ha paura della volontà e della storia. La volontà come istituisce e pone un dato assetto dell’economia, così è in grado di demolirlo e deporlo: e perciò l’agire degli uomini è parimenti necessario per difenderlo e per abbatterlo. L’inerte e passiva natura non ha nulla da dirci.

Queste vedute – si sente replicare – potevano forse convenire all’economia degli Stati nazionali, ma certo non spiegano forme e modi della «globalizzazione». Dove non c’è più pluralità di territori, ma un solo e unico spazio; dove è caduta l’antica coestensione di politica diritto economia, giacché quest’ultima ha respiro planetario, mentre gli altri elementi rimangono chiusi nei vecchi confini. La s-confinatezza, in cui domina la nuova alleanza fra economia e tecnica, rifiuterebbe, non solo i singoli diritti statuali, ma ogni specie di prescrizione eteronoma. Essa produrrebbe da sé il suo proprio diritto.

È inutile ripetere qui la critica, poco sopra svolta, alla spontaneità normativa del mercato; e ribadire che gli accordi, dovunque e comunque conclusi, si appoggiano necessariamente a territori di singoli Stati. Il passaggio dallo spazio tecnico-economico a luoghi determinati è ineludibile. Il problema – posto, appunto, che l’economia globale ha bisogno di diritto, e senza diritto non può né costituirsi né svolgersi –, il problema, si diceva, è nell’individuazione del diritto applicabile [cfr. Irti 2002]. Qui si profilano soluzioni diverse: o che un potere imperiale domini e regoli l’economia globale; o che gli affari scelgano, essi, il luogo del diritto (sicché gli Stati appaiano, quasi in una «corsa al ribasso», offerenti la merce giuridica); o che gli Stati, sfruttando al massimo l’artificialità della tecnica normativa, stipulino trattati, istituiscano unioni e organi internazionali, e perciò siano capaci di inseguire e catturare gli atti delle imprese. Ancora una volta, sta alla decisione politica di scegliere la strada. Qualunque soluzione sarà una soluzione politica.

E così si torna al carattere di artificialità, da cui mossero queste pagine. L’artificialità, che designa l’assoluta in-naturalità è il tratto precipuo del diritto moderno, o, se si preferisce, della modernità giuridica. La volontà politico-giuridica, sciolti i legami con il diritto naturale e con ogni immutabile fondamento, può accogliere qualsiasi contenuto, adottare qualsiasi statuizione. Le norme sono arte-fatte, indifferenti ai contenuti, capaci di determinare il loro tempo e il loro spazio. Ad esse si applica il mero formalismo della produzione: tutto è procedura; la procedura tiene luogo di fondamento [cfr. Irti 2002, pp. 1159 e ss.].

Codesta artificialità permette al diritto di distaccarsi dai luoghi originari, e di allargarsi, mercé di accordi fra Stati, a una pluralità di territori.

L’artificialità giuridica è fraterna alla tecno-economia planetaria, e perciò, nell’identità di essenza, può starle o di fronte come ostile e nemica, o accanto come solidale e secondatrice. Lo sradicamento del diritto, la caduta del Nomos antico, la capacità di determinare tempi e spazi di applicazione: soltanto questi fattori consentono di scendere sul terreno medesimo della tecno-economia, e rendono la misura della regola coestensiva alla misura del regolato. Attraverso accordi fra gli Stati, e dunque con strumenti artificiali, il diritto è in grado di abbracciare, in tutto o in parte, l’economia planetaria.

E sempre agli Stati si rivolge l’estremo appello dell’economia, quando – come già notammo – gli accordi privati siano ineseguiti e il bisogno della forza coercitiva diventi indifferibile. Proprio codesto appello dimostra che i singoli accordi, e la stessa lex mercatoria, non costituiscono fonti originarie di diritto, ma sempre presuppongono gli ordinamenti statali. Non la lex mercatoria si serve del diritto statale (o di unioni di Stati), ma tali ordinamenti lasciano spazi, più o meno larghi, all’autonomia dei privati. Accordi negoziali e lex mercatoria stanno dentro quei diritti, di cui, in caso di violazione, s’invoca la potestà coercitiva. Bene è stato osservato che «il potere sovrano è chiamato a garantire e assicurare la lex mercatoria, ma questa tutela è sempre una relazione di inclusione, determinata in misura dei bisogni di tutte le parti in causa» [Hardt, Negri, in Negri 2003, p. 61]. Dove solo sarebbe da chiarire che l’inclusione non è un posterius, ma un prius; e che in tanto le parti possono fruire della tutela, in quanto quei loro accordi e quella lex siano già previsti dalla legge statale e reputati meritevoli di protezione. L’ammissione alla tutela, giudiziale e coercitiva, sempre postula un criterio di scelta, onde gli Stati determinano – o, meglio, predeterminano – il lecito e l’illecito, il rilevante e l’irrilevante, il protetto e il rifiutato.

Il discorso, o che muova dal diritto verso l’economia o che risalga da questa a quello, sempre si riannoda alla decisione politica, alla presa di posizione sugli interessi in gioco. La scelta dell’interesse meritevole di protezione, e degli interessi destinati al sacrificio, non si affida a criteri oggettivi o a leggi naturalistiche, ma al volere umano. Quando i «liberisti della cattedra» invocano le leggi naturali dell’economia, o la neutralità del mercato, e pretendono che il diritto vi si adegui e conformi; non sanno (o sanno fin troppo bene) di esercitare nuda e schietta politica, amica o nemica di altre visioni della vita e della società. Fuori dalla politica nessuno può uscire, neppure chi professi l’antipolitica del tecnicismo e delle competenze professionali. Alla frase famosa di Walther Rathenau, essere oggi il destino non più la politica ma l’economia, l’acuminata sottilità di Carl Schmitt oppose: «Sarebbe più corretto dire che, ora come prima, il destino continua ad essere rappresentato dalla politica, ma che nel frattempo è solo accaduto che l’economia è diventata qualcosa di “politico” e perciò anche essa “destino”» [Schmitt (1927) 1972, p. 164]. Non è perciò da credere che al paneconomicismo (a cui del pari si riconducono ideologia del mercato e filosofia di Marx) si contrapponga una sorta di algido pangiuridicismo: ma piuttosto, all’uno e all’altro, la seria volontà della politica, la quale, esprimendosi in norme di diritto, disegna le storiche e mutevoli sagome dell’economia. Se l’assetto dell’economia rimanda alle scelte normative, e queste all’esito della lotta politica, ecco quest’ultima svelarsi come l’originario fondamento, la volontà decidente e conformante delle due sfere [cfr. Kelsen (1955-’56) 1984, p. 335]. Qui non si tratta di «trovare» leggi, che la natura abbia dato agli uomini una volta per sempre, o di ricavarle da altre fonti terrene o sopra-terrene, ma soltanto di volerle, ossia di scendere nella lotta politica al fine di difendere o modificare o abolire un dato sistema giuridico-economico (ed economico perché presupponente un certo regime di diritto). Le decisioni fondamentali, capaci di dar forma a una o ad altra economia (se i mezzi di produzione debbano essere in proprietà privata, se siano da tutelare gli accordi, se i profitti d’impresa meritino tutela, e via seguitando); tali decisioni sono, appunto, decisioni, atti cioè dell’agire politico e non del puro conoscere, e dunque implicano amicizia o inimicizia fra idee e visioni della società. Il pensiero unico – l’ideologia liberistica, in cui paion trovarsi concordi destra e sinistra – occulta l’intrinseca politicità di ogni assetto economico, e contrabbanda per legge «naturale», neutra oggettiva imparziale, ciò che propriamente è risultato di una decisione. Soltanto questo smascheramento può restituire alla politica la passione delle idee e la responsabilità delle scelte.

Bibliografia

Aa.Vv., Il dibattito sull’ordine giuridico del mercato, Laterza, Roma-Bari 1999; Cacciari M., Geo-filosofia dell’Europa,Adelphi,Milano 1994; Calogero G., La scuola dell’uomo, Sansoni, Firenze 1939; Croce B., Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia (1907), Ricciardi, Napoli 1926; Hayek F.A. von, La confusione del linguaggio nel pensiero politico (1967), in Id., Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, Armando, Roma 1988; Hardt M., Negri A., Sovranità, in Negri A., Guide: cinque lezioni su impero e dintorni; Cortina, Milano 2003; Irti N., Nichilismo e medoto giuridico, in «Riv. trim. dir. e proc. Civ», 2002; Id., Le categorie giuridiche della globalizzazione, in «Riv. dir. civ»., 2002, I; Id., Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Laterza, Roma-Bari 2002; Kelsen H., I fondamenti della democrazia (1955-56), trad. it. in La democrazia, il Mulino, Bologna 1984; Negri A., Guide – Cinque lezioni su impero e dintorni, Mondolibri, Milano 2003; Schmitt C., Il concetto di politico (1927), in Le categorie del politico, trad. it., il Mulino, Bologna, 1972; Vattimo G., Apologia del proceduralismo, in Nichilismo ed emancipazione. Etica, politica, diritto, Garzanti, Milano 2003.

Brano tratto dal "Dizionario del liberalismo italiano", edito da Rubbettino Editore. Clicca qui per acquistarlo con il 15% di sconto