Diritto del mercato

di Natalino Irti

storicità, e nessuno può dirsi assoluto e definitivo.

Il naturalismo, avendo dalla sua l’immutabilità di «leggi dell’economia», rifiuta la discordia della politica, il mutevole flusso delle opinioni, l’instabile divenire del diritto. Esso è, per sua indole, antipolitico e antigiuridico: e perciò crea ed ama la zone «neutre», «tecniche», «indipendenti», dove tace ogni conflitto e sole dominano le «leggi del mercato». I «competenti», hanno la capacità di intenderle, e di tradurle, se proprio sia necessario, in norme giuridiche: ma sempre lontano dalle risse parlamentari e dal conflitto dei partiti. È davvero singolare che notabili della sinistra storica non si stanchino di professare l’ideologia del mercato, e adoperino le vicende finanziarie ed economiche per esclusivi criteri di giudizio, e muovano rimprovero alla destra di poco o molto discostarsene: singolare davvero, poiché così decretano la rovina della politica [cfr. Cacciari 1994], o, meglio, praticano la politica dei loro stessi avversari.

Al naturalismo, ossia ai «liberisti della cattedra», può subito opporsi che quelle «leggi dell’economia», le quali si vorrebbero immutabili e perenni, sono tutte popolate di istituti giuridici: dalla proprietà privata all’autonomia contrattuale, dal dovere di eseguire gli accordi alla libertà di disposizione testamentaria. E sono istituti, non naturali, o dati da sempre e per sempre all’uomo, ma storicamente definiti: risultati raggiunti nel corso di quelle battaglie politiche, che ora si desiderano silenziose e spente. Si scopre così che il naturalismo è assai poco «naturale», e piuttosto ascrive alla natura, e protegge con predicati di assolutezza e immutabilità, il contingente risultato di un periodo storico e di una volontà politica. Il metodo di ogni giusnaturalismo sta proprio nel trasferire al mondo naturale ciò che appartiene al mondo storico, e dunque nel convertire un processo di volontà in processo di pensiero, sicché la conoscenza di leggi naturali dispensi dal volere leggi storiche o obblighi a volerle ad esse conformi.

E pure può opporsi che lo stesso Friederich August von Hayek, riconosciuto per maestro dai «liberisti della cattedra», avverte l’intrinseca connessione fra diritto ed economia, e questa colloca in un cosmos fondato su nomoi (nomos è «una norma astratta non dovuta alla volontà concreta di qualcuno, applicabile in casi particolari indipendentemente dalle conseguenze, una legge che poté esser «trovata», e non creata per particolari fini prevedibili» [Hayek (1967) 1988, p. 90]. Notiamo – e nel libro si trovano più larghi svolgimenti – che Hayek profila due forme di connessione tra diritto ed economia (la taxis costruita con leggi volute e il cosmos riposante su leggi «trovate»), mostrando di pregiare e preferire la seconda, e dunque facendo appello alla volontà degli uomini affinché condividano ed eseguano tale scelta. Prima del «volere» la taxis o del «trovare» il cosmos, c’è la decisione di scegliere quel volere o quel trovare: dalla volontà, quanto a posizione e im-posizione di norme, lo stesso Hayek non può uscire. È appena da aggiungere che le leggi «trovate» – spostando, com’è nel metodo d’ogni giusnaturalismo, il problema normativo dal volere al conoscere – esigerebbero l’indicazione del luogo di trovamento, il quale non sarebbe poi altro dalla storia di istituti giuridici, prodotti dalla volontà umana nel corso del tempo.

Alla definizione del mercato come locus artificialis (formula entrata dal 1998 nel circolo del linguaggio giuridico) suole replicarsi che il mercato non ha bisogno del diritto statale, poiché è, esso stesso, capace di produrre il proprio diritto. Non crediamo di meritare rimprovero circa lo scambio tra legislativo e normativo, o fra statale e giuridico. Il problema è altro, e sta nel configurare e pensare l’intrinseca normatività del mercato. Non si conosce per vero alcun mercato (mercato, determinato nel tempo e nello spazio) che non presupponga istituti giuridici: anche l’elementare distinzione di «mio» e «tuo», dalla quale procede ogni atto di scambio, implica il rinvio ad un criterio determinativo. Il mercato non crea, ma postula la distinzione tra «mio» e «tuo», e dunque che i beni siano attribuiti in proprietà privata, e non caduti in proprietà comune. Rilievo, che anche concerne la presupposizione delle monete, o di forme di garanzie e responsabilità patrimoniali, e via seguitando.

Il punto è che i sostenitori della spontanea normatività del mercato immaginano –ancorché non confessino di immaginare – uno stato originario e primordiale, in cui gli uomini, affrancati dai lacci dei diritti storici, s’incontrino e negozino e stipulino accordi. I quali sarebbero, come tali, vincolanti e obbligatori. Si tratta, come ognun vede, del consueto naturalismo, che tuttavia dimentica di spiegare perché gli accordi avrebbero efficacia vincolante, e quali rimedî e sanzioni sarebbero predisposti per il caso di loro inosservanza. Ogni accordo, sciolto da legami con diritti positivi (di Stati o di unioni di Stati), sarebbe a sé, raccolto ed esaurito nella propria solitudine. Il solipsismo negoziale trasferirebbe agli accordi, al singolo accordo, gli attributi della sovranità: originari, poggianti su se stessi, non richiedenti ad altri la loro legittimazione. E allora dovrebbe immaginarsi, per ciascuno di essi, una Grundnorm, che sia all’inizio e ne decreti l’obbligatorietà: il famoso pactum est servandum di cui ogni accordo farebbe solitaria applicazione.

Proprio quando l’ideologia del mercato sembra unica ed esclusiva forma del pensare collettivo, imprenditori e uomini di finanza e «tecnici» dell’economia, non solo chiedono che lo Stato abdichi a ciò che rimane di pubblico, ma si fanno a invocare nuove regole. Vicenda non strana né inspiegabile, se appena si consideri che le vecchie regole contrastano od ostacolano l’egemonia del mercato, e le nuove lo espandono e rafforzano. Ma vicenda, che pure attesta la necessità conformativa del diritto, e come sempre alla volontà degli uomini, abrogatrice o emanatrice di norme, si metta capo per l’impianto di un regime economico.

Dietro l’antitesi fra leggi naturali dell’economia, neutre assolute oggettive, e leggi storiche, dipendenti dal volere umano, sempre si agita la lotta politica, sempre stanno di fronte ideologie o visioni della società. Conflitto tra una politica e un’altra, e non fra politica e a-politica neutralità. Quando si afferma che il diritto disegna l’economia, e il mercato si risolve in statuto di norme, non si propone uno o un altro regime degli scambi, una o un’altra disciplina della proprietà, ma solo si ricorda l’elementare presupposto di tutti gli assetti: la volontà politica, tradotta in statuizioni giuridiche.

Le soluzioni eclettiche e compromissorie, che si provano a distribuire percentuali d’influenza tra diritto ed economia, poco o nulla raggiungono in linea di nettezza argomentativa e precisione di pensiero. Il discorso sempre torna alla volontà dell’uomo, dispiegantesi nella lotta politica e nelle scelte legislative. La conformazione dell’economia non è il terreno della pace, ma del più aspro e duro conflitto: dove stanno, l’uno contro l’altro, visioni della vita, progetti di società, interpretazioni del passato, attese per il futuro. E così – conviene ancora di ribadire –, quando lo Stato si ritira dall’economia, e «privatizza» beni e imprese, non c’è vuoto di politica, non l’oggettivo imperio della natura, ma pienezza della politica, di quell’umano volere che ha scelto un dato regime della proprietà e degli affari.

L’ordine giuridico del mercato può dirsi schiettamente liberale, poiché consegna alla libertà degli uomini, quale si svolge nelle lotte politiche e nelle scelte legislative, il potere di conformare l’economia, e di volerne questo o quell’assetto. «Chi ha paura della volontà – ha scritto un filosofo – ha paura della storia» [Calogero 1939, p. 89]: e, aggiungeremo, chi ripara nel naturalismo economico, e tiene per assoluto e immutabile il regime della proprietà e degli scambi privati, ha paura della volontà e della storia. La volontà come istituisce e pone un dato assetto dell’economia, così è in grado di demolirlo e deporlo: e perciò l’agire degli uomini è parimenti necessario per difenderlo e per abbatterlo. L’inerte e passiva natura non ha nulla da dirci.

coestensione di politica diritto economia, giacché quest’ultima ha respiro planetario, mentre gli altri elementi rimangono chiusi nei vecchi confini. La s-confinatezza, in cui domina la nuova alleanza fra economia e tecnica, rifiuterebbe, non solo i singoli diritti statuali, ma ogni specie di prescrizione eteronoma. Essa produrrebbe da sé il suo proprio diritto.

decisione politica di scegliere la strada. Qualunque soluzione sarà una soluzione politica.

Codesta artificialità permette al diritto di distaccarsi dai luoghi originari, e di allargarsi, mercé di accordi fra Stati, a una pluralità di territori.

L’artificialità giuridica è fraterna alla tecno-economia planetaria, e perciò, nell’identità di essenza, può starle o di fronte come ostile e nemica, o accanto come solidale e secondatrice. Lo sradicamento del diritto, la caduta del Nomos antico, la capacità di determinare tempi e spazi di applicazione: soltanto questi fattori consentono di scendere sul terreno medesimo della tecno-economia, e rendono la misura della regola coestensiva alla misura del regolato. Attraverso accordi fra gli Stati, e dunque con strumenti artificiali, il diritto è in grado di abbracciare, in tutto o in parte, l’economia planetaria.

lex siano già previsti dalla legge statale e reputati meritevoli di protezione. L’ammissione alla tutela, giudiziale e coercitiva, sempre postula un criterio di scelta, onde gli Stati determinano – o, meglio, predeterminano – il lecito e l’illecito, il rilevante e l’irrilevante, il protetto e il rifiutato.

Bibliografia

Apologia del proceduralismo, in Nichilismo ed emancipazione. Etica, politica, diritto, Garzanti, Milano 2003.