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Aventino

di Elio d’Auria

Nel rispondere nel febbraio del 1925 alle tesi polemiche avviate nei confronti dell’Aventino da «Rinascita Liberale», che addebitava ai «secessionisti» di aver esaurita la loro forza propulsiva per non aver instaurato tutti quei contatti che erano possibili con l’«opposizione dell’aula» – cioè con i liberali di Salandra, Giolitti e Orlando, in pratica con quelle che venivano chiamate le «forze medie» che stavano alla base del maldestro tentativo del «governo dei tre presidenti» – e di accettare, al contrario, la convivenza con i massimalisti e i repubblicani contrari a quelle stesse «forze medie», Giovanni Amendola aveva con fierezza rivendicato le ragioni più profonde dell’Aventino, che erano «ragioni morali» e che non coincidevano assolutamente, come egli chiarì con forza, con la «questione morale», «perché esse hanno una comprensione assai più larga ed un valore assai più profondo, e possono riassumersi nella protesta, radicale e intransigente, che le Opposizioni del 6 aprile hanno sollevato contro un regime fondato sulla illegalità, sulla violenza, e sull’offesa sistematica alle norme essenziali della moralità sociale, dopo aver sopportato per venti mesi l’esperimento fascista. La protesta – continuava Amendola – scoppiò dalle profondità dell’istinto al cospetto delle estreme ed innegabili conseguenze di un sistema che rendeva impossibile ed incompatibile la normalità civile e la funzione dell’Opposizione: ed essa è stata gettata su di un piatto di quella bilancia che portava, sull’altro piatto, tutto il peso della passiva acquiescenza, dell’opportunismo codardo e del trasformismo interessato che umiliarono il costume politico del nostro paese, allorché il carro del trionfo fascista apparve per la prima volta oltre il miserabile crepuscolo dell’ottobre ’22».

A parte il grave giudizio che egli dava delle correnti d’opinione che rappresentavano la cosiddetta «situazione di centro» e della sua rappresentanza parlamentare, che avevano «esitato e oscillato a lungo» senza scegliere «una posizione chiara e definitiva nei confronti della grande crisi italiana» e ancora, dopo il colpo di stato del 3 gennaio 1925, «non accennano a riaversi, e fortificano, con la loro paralisi il tentativo disperato dell’oltranzismo fascista», Amendola poneva un problema di estrema rilevanza politica e cioè il rapporto fra politica e morale che stava alla base del patto costituzionale e che fungeva da struttura portante dello Stato liberale secondo il principio della volontà popolare quale elemento di legittimità di un sistema parlamentare all’interno del quale il governo era subordinato a un voto di fiducia del Parlamento. Il corollario essenziale di questo meccanismo costituzionale tipico dei liberi parlamenti erano state la conquista delle libertà statutarie, quali la libertà di stampa, di riunione, di associazione, le libere elezioni, la formazione di partiti che si potessero alternare al governo del Paese senza strappi e lacerazioni per le istituzioni, la formazione di governi che potevano reggersi su un solo partito o su più partiti i quali mediante accordi programmatici fra di loro potessero aspirare al potere per un tempo limitato. Insomma, un tipico sistema liberale di governo che si basava sul principio del potere limitato e sull’esercizio della volontà popolare quale mezzo di legittimazione del potere che si esercitasse attraverso un Parlamento liberamente composto da una maggioranza e da una opposizione in cui la maggioranza governa e l’opposizione esercita una funzione di stimolo, di controllo e di critica della maggioranza. Queste erano le «ragioni morali» di cui parlava Amendola, che non avevano nulla a che fare con la «questione morale», come quasi unanimemente la storiografia ha con superficialità equivocato, che il fascismo aveva apertamente violato. Queste erano le basi politiche dell’Aventino intorno a cui si erano raccolte le forze costituzionali e democratiche di tradizione liberale, cattolica e socialista. Ma ancora prima di tutto questo, l’Aventino aveva fissato un principio che le forze secessioniste facevano risalire alla radice profonda della sovranità in un sistema democratico: e cioè che non vi è libertà senza giustizia. «La storia ha registrato dei regimi assoluti cui ha arriso la fortuna, ed anche il consenso dei popoli: ma quei regimi non si risolsero in tirannie senza giustizia. Justitia fundamentum regni: non è un’invenzione dell’Opposizione antifascista. Purtroppo il fascismo ha costretto l’opposizione a farne la propria insegna». Insomma, l’Aventino fu la reazione ultima di un processo iniziato nell’ottobre del 1922 con il «discorso del bivacco» quando il fascismo andò al governo con modalità che travalicavano il patto costituzionale sancito dallo Statuto albertino. Modalità che erano gli elementi costitutivi del fascismo come movimento e che – come Amendola aveva segnalato a più riprese già dall’agosto del 1922 – contenevano già in origine tutti gli ingredienti del totalitarismo: la leadership del capo, la violenza fisica contro gli avversari, le squadre d’azione come proiezione di un esercito privato, l’utilizzo strumentale della massa come condizionamento dell’intera società civile e delle coscienze individuali, lo svuotamento delle funzioni dello Stato preesistente e la sua conquista. In ciò risiedeva anche la cautela con cui le componenti più autenticamente liberali e democratiche dell’Aventino si muovevano di fronte alla proposta di un’alleanza con quelle «forze medie» ora passate all’opposizione in quanto portatrici di una debolezza ideologica e programmatica per i cedimenti compromissori avuti nei confronti del fascismo per difendersi dalle violenze a dai pericoli del bolscevismo, che aprivano uno spazio entro il quale Mussolini, con la sua capacità di manovrare élites e masse, si muoveva con abilità e indifferenza, sfruttando le une contro le altre con il fine di mantenere il potere con l’uso della forza, instaurare un sistema cesaristico e plebiscitario in cui al Parlamento fosse riservata una funzione subalterna tenuta con il ricatto della violenza del partito armato; una dittatura mascherata che formalmente salvaguardasse, attraverso la continuazione solo formale di un sistema parlamentare, i suoi rapporti con la monarchia.

La strappo allo Statuto che si era attuato nell’ottobre del 1922 era il punto qualificante della lotta che le opposizioni liberali e democratiche avevano intentato contro il fascismo allorché avevano individuato nel metodo della violenza, nella prassi dei bandi e delle squadre d’azione, nell’occupazione delle proprietà private e nell’interdizione dalle loro sedi degli uomini dei partiti avversi una violazione grave e palese della costituzione che aveva tutta l’aria di un colpo di stato che la monarchia faceva finta di non vedere, sopravanzando tutti gli altri potenziali anti-fascisti con il porsi sin dal primo momento come il punto di riferimento di una resistenza democratica. E all’obiezione che a sinistra vi erano partiti e formazioni politiche che esercitavano ugualmente la violenza come «l’estrema bolscevica» verso cui «fummo fieramente avversi» – scriveva Amendola nel settembre del 1922 – perché «antinazionale e antidemocratica» e «verso cui è inutile ripetere che non abbiamo nessuna simpatia, né come idealità né come metodo […] così siamo ugualmente avversi alle dittature, che essendo antidemocratiche, ci rifiutiamo di riconoscere come espressione della unitaria volontà nazionale». Né, d’altra parte, egli era disposto ad accettare l’altra obiezione, cioè «che l’asserita insufficiente resistenza» agli «agguati dei comunisti» forieri di una «dittatura bolscevica tolga a noi il diritto, come democratici, di reagire a una dittatura nazionale», la quale sorta «per spezzare una schiavitù, non finisca per istaurarne un’altra». Fu in questo arco di tempo, prima cioè che il fascismo andasse ufficialmente al potere, che la frazione dei liberali non collaborazionisti che a lui faceva capo lanciò un ponte ai socialisti e ai popolari che, riconciliati oramai con lo Stato liberale, venivano chiamati a collaborare per la difesa dell’ordine e del regime parlamentare in pericolo, in omaggio al fatto che il loro posizionamento nella vita pubblica italiana era mutato per la presenza del fascismo. La difesa del regime parlamentare richiedeva ora più che mai un rapido inserimento nella vita pubblica delle «grandi moltitudini» che questi partiti «nazionali per eccellenza» rappresentavano e che più specificamente contribuivano a formare «una concezione integrale delle forze nazionali nelle quali la borghesia, piccola borghesia e proletariato coesistano», poiché «l’idea di nazione, come insegnò Giuseppe Mazzini, coincide meglio col concetto di popolo, risultante di tutte le classi, che col concetto di classe, che non esaurisce il concetto di popolo». Nel momento in cui la legalità subiva un «oltraggio irreparabile» prendeva corpo, per merito del suo capo più autorevole, l’idea di un patto politico fra le forze liberal-democratiche, demo-sociali, cattoliche e socialiste per opporsi al fascismo in difesa dello Stato e della costituzione e che darà luogo, di lì a pochi mesi, alla secessione parlamentare che prenderà il nome di Aventino.

L’opposizione sempre più ferma che la componente dei liberali non collaborazionisti che, dopo l’uscita di scena di Nitti, facevano capo ad Amendola fu dovuta ai continui strappi che Mussolini in nome della rivoluzione continuava ad attuare sia nei confronti del sistema politico, come l’affermazione che «il fascismo sarebbe passato ancora una volta se necessario sul corpo decomposto della Dea Libertà», sia nei confronti della Costituzione, date le voci che circolavano sempre più insistentemente su una qualche forma di cancellierato con lo scopo di eliminare le deviazioni del regime parlamentare e che si concretizzeranno, tra l’altro, con l’approvazione di una legge elettorale anti-liberale che violava lo spirito dello Statuto e con la successiva legislazione liberticida sulla libertà di stampa. Ciò fece da traino alle altre forze politiche, soprattutto riformisti e cattolici che inizialmente avevano collaborato con il fascismo, e successivamente a socialisti, soprattutto unitari, e repubblicani. Si trattava, peraltro, della prima di tante occasioni per lanciare un avvertimento alla monarchia e riaffermare, ancora una volta, che il fascismo non era un partito «leale» nei confronti del regime parlamentare e che, al contrario, rappresentava il tentativo di svuotare di contenuto tutta la tradizione di libertà in nome della quale si era fatto il Risorgimento; perché se era vero che le istituzioni parlamentari rendevano possibile, attraverso l’attività legislativa e attraverso la pratica, una evoluzione e un perfezionamento continuo della costituzione era anche vero però che quelle istituzioni dovevano poter funzionare nelle condizioni previste dallo Statuto «e cioè in condizioni di libertà, di normalità e di legalità». Qualora quelle condizioni che avevano legato la monarchia al Paese non si fossero verificate lo Statuto era formalmente e sostanzialmente violato.

Il primo banco di prova fu la discussione per l’introduzione di una nuova legge elettorale, che accentuò il contrasto fra maggioranza e opposizione, sia a causa del merito della legge, sia soprattutto per le pressioni e le vere e proprie intimidazioni esercitate dal governo sulla Camera con la minaccia di nuove reiterate violenze. L’approvazione del disegno di legge, inoltre, metteva alla prova i sostenitori non fascisti del governo, soprattutto la destra liberale, che, votando in suo favore, sebbene con la riserva di favorire la legalizzazione del fascismo, aveva gettato lo scompiglio nelle file dei costituzionali, in quanto appariva oramai evidente come il governo avesse escogitato, con il collegio unico nazionale legato al suffragio universale, una forma più o meno plebiscitaria di elezione che, avocando praticamente a sé la scelta dei deputati, legava di fatto la maggioranza in così larga misura all’attività politica del governo e all’inframmettenza del potere esecutivo nel legislativo, tale comunque da vanificare la funzione della minoranza e relegarla a esercitare un mero diritto di tribuna con il solo scopo di assistere ai dibattiti e alle deliberazioni della maggioranza dell’assemblea. Questo era un aspetto centrale della convergenza su un medesimo punto delle varie opposizioni liberali e democratiche, di fatto compattandole verso lo stesso obiettivo. Restava il problema dei comunisti che, con il loro rigido schematismo ideologico, seppure all’opposizione, alimentavano il mito dell’Antinazione, che era il mezzo attraverso il quale il fascismo combatteva la sua lotta strumentale contro le opposizioni, soprattutto quelle democratiche, svalutandone l’azione per poi eliminarle con il consenso tacito delle masse. Da qui la necessità di differenziarsi dai comunisti perché portatori di una ideologia ugualmente totalitaria che rafforzava il mito dell’Antinazione coinvolgendo anche i democratici e di rintuzzare le accuse «partigiane avvelenate di nazionalfascismo» con le armi legalitarie della difesa dello Stato e della Costituzione e che spiega l’apertura dei costituzionali nei confronti dei socialisti unitari con l’impostare il dibattito sul laburismo, così come era stato fatto nella difesa dei cattolici travagliati al loro interno tra le posizioni laiche del partito e quelle dell’inframmettenza del Vaticano nelle questioni politiche e che avevano portato alle dimissioni di don Sturzo. Il che era di notevole rilevanza politica in quanto era un tentativo che si lasciava alle spalle posizioni tattiche tra schieramenti per proiettarsi in una dimensione di alleanze più vaste, tali da attirare una parte consistente delle masse, e non solo di quelle operaie, nella lotta contro il fascismo. Più concretamente, il dibattito apertosi sul problema del laburismo e dei sindacati era l’occasione per affrontare la questione del ruolo che avrebbe dovuto svolgere il socialismo nella società italiana, assumendo quelle caratteristiche di laburismo all’inglese capace di far dimenticare alla borghesia il cattivo ricordo del terribile «biennio rosso» e di conseguenza capace di catturare il consenso dei ceti medi produttivi e intellettuali. Ma l’azione di compattamento degli oppositori compiuta da Amendola non si rivolgeva soltanto agli oppositori dichiarati com’erano i socialisti, ma anche a quelli potenziali. Così come la sua attenzione si era rivolta ai mutamenti interni del Partito popolare che avevano portato nell’aprile del 1923 all’uscita dei ministri popolari dal ministero e al travaglio di un possibile ingresso dei confederali nel governo, ora si rivolgeva ai demosociali, al fine di indurli ad abbandonare calcoli elettorali e interessi parlamentari e ritornare a valorizzare le tradizioni democratiche e radicali della democrazia italiana in difesa di quel «patrimonio ideale» di cui era portatrice che la rendeva incompatibile con il fascismo, come poi avvenne con l’uscita dei suoi ministri dal gabinetto Mussolini nel febbraio del 1924. Insomma, tra i primi mesi del 1923 e i primi mesi del 1924 già si profilava una concentrazione democratica di forze antifasciste con il prefigurare un Aventino ante litteram che maturerà di lì a poco con le elezioni generali, che costituiranno l’occasione della secessione parlamentare.

Le elezioni del 6 aprile 1924 avvennero tra le intimidazioni esercitate dalle amministrazioni prefettizie e dagli organi di polizia e la violenza delle «squadre», che avevano messo le opposizioni nell’impossibilità di svolgere un minimo di campagna elettorale. I fascisti ottennero la maggioranza assoluta della Camera con il 66,9 per cento dei voti e 356 deputati, mentre tutte le opposizioni, compresi i comunisti, otterranno il 33,1 per cento dei voti e 127 deputati. Molti fra i più illustri capi liberaldemocratici, fra i quali Ivanoe Bonomi in Lombardia, Giulio Alessio nel Veneto e Francesco Cocco Ortu in Sardegna, non furono rieletti, mentre tennero le loro posizioni le formazioni liberali di Giolitti in Piemonte, di Amendola in Campania e di Vittorio Emanuele Orlando in Sicilia. La XXVII legislatura si aprì il 24 maggio con il discorso tenuto da Antonio Salandra in risposta a quello della Corona, in un clima di rigido formalismo che si trasformò in grande tensione nei giorni successivi, quando vennero a scadenza due importanti impegni dell’Assemblea: l’elezione del presidente e dell’ufficio di presidenza della Camera e la convalida degli eletti. A dimostrazione del proprio dissenso e della tendenza della non partecipazione, tutte le opposizioni antifasciste decisero di non presentare alcun candidato e di votare scheda bianca; i fascisti votarono a larga maggioranza per Alfredo Rocco che fu eletto presidente dell’Assemblea. Mentre ci si preparava all’appuntamento più importante, alla convalida degli eletti, il clima si surriscaldò a causa della mozione, presentata il 28 maggio da Dino Grandi, per la modifica del regolamento che aboliva il sistema delle commissioni permanenti in cui erano rappresentati proporzionalmente tutti i gruppi parlamentari e ristabiliva il ritorno al sistema degli uffici, i cui componenti erano sorteggiati e in cui le opposizioni vedevano un pretesto per limitare la loro azione. Quando il giorno seguente, il 29 maggio, iniziò la procedura per la convalida degli eletti, il clima si arroventò ancora di più per l’opposizione alla richiesta di convalida dei deputati della maggioranza avanzata dalla giunta delle elezioni dal liberaldemocratico amendoliano Presutti, seguito dal socialista unitario Modigliani e dalla conseguente proposta di sospensiva. Ma il clima divenne incandescente il giorno 30 maggio allorché prese la parola Giacomo Matteotti, che con grande coraggio, in un clima ostile, pronunciò una implacabile requisitoria contro le illegalità e le violenze commesse dai fascisti durante le elezioni. Nei giorni successivi il dibattito si infittì di molti interventi di opposizione, come quelli dei socialisti unitari Casalini e Gonzales, del popolare Gronchi, del socialista Lucci, del repubblicano Facchinetti, del demosociale Colonna di Cesarò. Il 6 giugno prese la parola Giovanni Amendola quale capo dell’opposizione costituzionale per illustrare l’ordine del giorno contrario all’indirizzo di risposta del discorso della Corona. Fu un discorso poderoso, durissimo contro il fascismo, di alto valore politico, tanto che fu ripetutamente interrotto dallo stesso Mussolini, in cui il leader costituzionale poneva il problema del riconoscimento della legittimità delle elezioni del 6 aprile e accusava il fascismo di aver abusato della legge per assicurarsi il controllo dello Stato. Pertanto il fascismo si configurava non solo come una forza illegale, ma soprattutto come forza illegittima, in quanto la violazione dei diritti costituzionali delle libertà civili e politiche a vantaggio di una parte contro tutte le altre contenute nella lettera e nello spirito dello Statuto faceva venir meno il principio di autorità che si basava sul consenso liberamente espresso e che costituiva la vita stessa dello Stato unitario. In altre parole, per mezzo dell’uso della violenza, l’autorità finiva con il coincidere con la forza del partito di governo, cioè con la negazione totale di libertà; e ad ogni passo successivo, per confermare la presunta autorità dello Stato, s’imponeva come necessaria una sempre maggiore violazione di libertà, fino al giorno in cui «sarà per tutti verità inconfutabile che più non c’è in Italia autorità dello stato», ma soltanto «terrore del governo»; perché «l’autorità dello stato non è nell’annullamento dei partiti, ma nel loro sviluppo; non risulta dalla loro abdicazione, ma dai loro contrasti; e se i partiti rappresentano le classi, o – accanto a loro – cresce e si sviluppa l’organizzazione di classe, l’autorità dello stato tanto più si sviluppa e si rafforza quanto più esso è capace di libertà; cioè quanto più esso è adatto e capace di avere partiti al governo senza dover mai sopportare un governo di partito». L’immediata conseguenza di questo ragionamento era che le opposizioni ritenevano qualsiasi dialogo con il fascismo impossibile.

Non si erano ancora spenti gli echi del dibattito sull’indirizzo di risposta del discorso della Corona, che il 10 giugno incominciarono a circolare voci circa l’assenza dai lavori parlamentari di Giacomo Matteotti, in un momento peraltro delicato in cui si stava discutendo l’esercizio provvisorio. Nei giorni successivi si ebbe la certezza che uno dei capi più autorevoli dell’opposizione era stato rapito confermando il clima di persistente illegalismo incoraggiato da una propaganda d’odio in cui «l’arbitrio si sovrappone alla legge». Nelle convulse giornate di quei giorni Mussolini, nel tentativo di uscire dall’empasse in cui veniva a trovarsi il governo, oltre ai rimpasti governativi (dimissioni di Aldo Finzi da sottosegretario alla presidenza del Consiglio, nomina di Federzoni a ministro dell’Interno, destituzione di De Bono da capo della polizia, licenziamento di Cesare Rossi da capo ufficio addetto stampa del presidente del Consiglio), cercò di accreditare la tesi della «speculazione politica» da parte delle opposizioni e per bocca di alcuni ras influenti come Grandi e Farinacci rilanciò una campagna di gravi intimidazioni, fornendo l’occasione ad Amendola, oltre che di puntualizzare le responsabilità del fascismo, di fare, ancora una volta, un aperto appello al re il quale, come capo dello Stato, non poteva essere indifferente al perdurante stato di minaccia in cui viveva il Paese e alle opposizioni di maturare, il già più volte discusso, abbandono della Camera. In queste condizioni, avendo il delitto Matteotti un movente politico, la secessione parlamentare, già annunciata in una riunione spontanea dalle opposizioni il 13 giugno come astensione dai lavori parlamentari in attesa dei chiarimenti del governo, diveniva inevitabile come risposta alla concezione totalitaria dello Stato-partito che, nel caso specifico, con la «identificazione tra delitto e regime», giustificava la tesi delle opposizioni del delitto di Stato. Ma il pomeriggio del 13 giugno, appena conclusa la votazione sull’esercizio provvisorio, Mussolini colse tutti di sorpresa chiedendo l’aggiornamento dei lavori della Camera a tempo indeterminato. La sera stessa i rappresentanti dei gruppi di opposizione si organizzarono in comitato ed emanarono un comunicato sulla gravità della situazione. Ma non tutti fra gli oppositori avevano le stesse idee su come opporsi al fascismo. I comunisti, ad esempio, si erano dichiarati per lo sciopero generale, tesi non accolta dagli altri partiti: da qui l’accusa dei limiti di un’opposizione borghese, che scontava il fatto di una non comprensione dei veri termini della lotta al fascismo, che per avere successo doveva assumere le vesti di una lotta rivoluzionaria. Non è il caso di insistere sull’esistenza o meno di un blocco sociale pronto a una rivoluzione contro il fascismo, almeno per il fatto che il movimento operaio così come lo intendevano i comunisti non esisteva più, era per la sua maggior parte stato inglobato nel fascismo o, se si vuole, strumentalizzato dal fascismo. A non voler poi considerare che una simile linea di lotta, qualora fosse stata praticabile, avrebbe alimentato ancora di più il mito dell’antinazione, essendo ancora vivo il ricordo delle violenze commesse durante il «biennio rosso» dai partiti di sinistra, e sospinto l’opposizione verso una sicura sconfitta. La polemica divamperà all’interno degli oppositori, dove la linea di Amendola, seguito in ciò da tutti gli altri gruppi, non solo stigmatizzava come la posizione dei comunisti doveva «essere interpretata come una manovra contro le opposizioni» («Il Mondo», 24 giugno 1924), sembrava non solo la più coerente, ma anche la più realistica, sebbene la più difficile da attuare, perché si collocava al confine fra un’opposizione durissima, ma legalitaria, e un’opposizione di tipo rivoluzionario; in altre parole una vera opposizione di tipo democratico. In conseguenza di ciò, il 19 giugno i comunisti abbandonarono il comitato delle opposizioni.

Nonostante Mussolini, il 25 giugno, in un discorso tenuto alla sua maggioranza riunita a palazzo Venezia, tentasse di aggirare il problema politico e uscire così dalla crisi offrendo agli oppositori, se fossero rientrati alla Camera, lo spazio parlamentare di ogni possibilità di controllo e di critica «anche astiosa, anche settaria, anche pregiudiziale», il 27 giugno 1924, nell’aula B di Montecitorio, al termine della commemorazione della figura di Giacomo Matteotti tenuta da Filippo Turati, le opposizioni parlamentari, forti di 135 deputati, e formate dai gruppi liberali-costituzionali, popolari, socialisti unitari, socialisti massimalisti, democratici sociali e repubblicani, tranne i comunisti che non parteciparono alla riunione delle opposizioni e che si apprestavano a rientrare in Parlamento, per bocca dell’on. Tupini si rivolsero direttamente al Paese con una dichiarazione in cui, non riconoscendo la legittimità di un Parlamento eletto con l’inganno di una legge elettorale che era essa stessa una violazione della costituzione e sotto il ricatto dell’azione violenta e sopraffattrice del governo per mezzo di un partito armato, proclamavano l’astensione dai lavori della Camera, sanzionando così ufficialmente la secessione parlamentare. Questo era il senso dell’Aventino, una protesta solenne delle opposizioni parlamentari e il messaggio al Paese che il Parlamento, «sintesi e fastigio delle libertà statutarie», era stato esautorato nelle sue funzioni perché non «può chiamarsi parlamento, quello che non ha il diritto di decidere intorno alla situazione politica; che è eletto dal governo, ma non elegge il governo, che è ombra del potere esecutivo», scriveva Amendola sul «Mondo» il 29 giugno 1924. Nonostante i comunisti, le opposizioni avevano ritrovato una loro unità d’azione. Questo è un punto centrale che spesso è stato sottovalutato e che in una certa misura andrà riconsiderato come uno dei pilastri della strategia aventiniana. Nel momento stesso in cui condannavano il fascismo per comportamenti illegali e quindi illegittimi, le opposizioni non potevano se non insistere nel sostenere il ritorno alla legalità in difesa delle libertà costituzionali calpestate dal fascismo e il cui ultimo atto era la scomparsa di uno dei capi dell’opposizione. Altre soluzioni erano impraticabili. «Noi siamo sull’Aventino – scrisse Amendola –, anche perché la nostra azione potrebbe oggi accrescere l’asprezza del conflitto civile» e giustificare altre violenze da parte del fascismo sfruttando oltre ogni misura il mito dell’«antinazione». In pratica, una volta esclusa qualsiasi azione rivoluzionaria, non attuale, in primo luogo, per mancanza di forze e, in secondo luogo, per non offrire il fianco al fascismo con l’accusa alle opposizioni di essere esse stesse eversive dello Stato, non restavano che due alternative: continuare a improntare la propria azione politica al richiamo della legalità e quindi svolgere un’azione di pressione nel Paese attraverso la stampa e i partiti e nello stesso tempo indurre la monarchia a prendere coscienza che la vera forza eversiva della società e dello Stato era il fascismo e di conseguenza fare pressione sul re a intervenire per dimettere Mussolini. Insomma, contrariamente a quanto si è sostenuto con la tesi dell’opposizione morale, in quell’estate del 1924 Amendola, quale leader indiscusso dell’Aventino, tentò in tutti i modi di raccogliere le fila sparse dell’opposizione per dare una spallata al governo e far cadere Mussolini agendo in tre direzioni: la protesta parlamentare che, attraverso il compattamento delle forze liberali e democratiche antifasciste, aveva costituito il punto di forza della secessione aventiniana e che trasferiva la lotta dal Parlamento nel Paese dando la possibilità concreta e formale al re, a cui «la costituzione affida il compito di dare soddisfazione alla pubblica opinione quando erri la Camera», di intervenire, seppure sotto la forma dell’indirizzo del re, previa consultazione degli uomini più influenti del regno; l’azione sensibilizzatrice e orientatrice della stampa per la formazione di un’opinione pubblica autonoma dall’azione di governo; la fondazione di un «partito aperto» che raccogliesse gli sparsi monconi dei liberali e dei democratici presenti sulla scena politica e di catturare alla causa democratica quanti più scontenti e dissidenti possibili, in primo luogo i combattenti, e i liberali collaborazionisti.

Il partito di Amendola, l’Opposizione costituzionale, era – come diceva Turati – «il tessuto connettivo» dell’opposizione aventiniana e di conseguenza era il più idoneo a svolgere il compito di tenere insieme le forze liberali non collaborazioniste e cattoliche, da un lato, e socialiste e repubblicane, dall’altro. Il giudizio che Amendola e gli aventiniani davano della situazione politica si basava sulla considerazione che nel Paese si era innescato un meccanismo sfavorevole al fascismo e che pertanto era consigliabile, ora che il delitto Matteotti l’aveva fatto emergere in modo palese, forzare la mano per far rilevare l’illegittimità del Parlamento per il modo in cui le elezioni erano state fatte e che toglieva ogni valore morale e giuridico al responso elettorale. Di conseguenza la partecipazione delle opposizioni ai lavori della Camera, anche esprimendo un voto contrario al governo, avrebbe sanzionato di fatto la illegittimità originaria e avrebbe dato valore legale al volere espresso dalla pubblica opinione, benché estorto con la violenza. Le pressioni sul re avevano dunque lo scopo di indurre Vittorio Emanuele a dimettere Mussolini. Ovviamente l’ultima risorsa restava la consultazione del corpo elettorale, che era però già avvenuta e di cui il governo fascista si era avvantaggiato con i metodi ben noti. Il Capo dello stato non poteva, senza violare la sostanza della Costituzione, concedere un nuovo appello del corpo elettorale, essendo in carica lo stesso governo, a pochi mesi dal precedente. Tuttavia le opposizioni – e qui scattava la clausola del potere d’indirizzo del re attraverso la convocazione del Consiglio della corona – ritenevano che la situazione sarebbe potuta sfociare in una nuova consultazione del corpo elettorale purché questa si fosse tenuta sotto la guida di un governo di transizione che non fosse il governo Mussolini. Questa era la sostanza e la strategia dell’Aventino e non sembra che altre forme di opposizione potessero avere una qualche possibilità di successo.

L’altro pilastro su cui si reggeva l’opposizione aventiniana era, dunque, l’azione della stampa come volano di diffusione delle proprie tesi e di sensibilizzazione della pubblica opinione. Su questo punto si giocò la partita più aspra e forse proprio questo aspetto fu il più sensibile di tutta la strategia dell’opposizione. Tant’è che di fronte alle difficoltà di controllare la situazione Mussolini operò un durissimo giro di vite facendo approvare i due decreti contro la stampa. Infatti, nel tentativo di mettere le opinioni in condizione di non nuocere al governo, l’8 luglio prima fece approvare dal consiglio dei Ministri il regolamento sulla stampa previsto da un vecchio decreto-legge del 15 luglio del 1923 mai presentato in Parlamento per la conversione e dopo pochi giorni il 10 luglio, fece approvare un nuovo decreto-legge in cui veniva introdotto il principio del sequestro preventivo da parte del prefetto e il trasferimento alla magistratura ordinaria delle controversie sulla stampa prima di competenza di un giurì. Ancora una volta si operava un’aperta violazione dello spirito e della lettera della Costituzione, oltre che di correttezza e di opportunità politica anche nei rapporti fra i poteri dello Stato e che d’un sol colpo annullava un secolo di conquiste civili quali le libertà fondamentali che costituivano il più geloso patrimonio dello Stato nazionale. Era un atto anticostituzionale perché, violando in fatto e in diritto ogni consuetudine costituzionale, nonostante fosse sufficiente una semplice legge ordinaria per modificare una Costituzione ottriata com’era lo Statuto, con un decreto legge di dubbia confezione giuridica, si annullavano d’un sol colpo «una delle più gelose fra le pubbliche libertà» – scriveva Amendola sul «Mondo» l’11 luglio 1924 – previste dalla Costituzione come fondamenta base della monarchia costituzionale. La reazione delle opposizioni fu durissima e Amendola e il suo giornale si caricarono del peso di coordinare tutti i giornali liberi che si ricollegavano in un certo qual modo al comitato parlamentare delle opposizioni, sia sul piano nazionale che sul piano locale. Ne nacque il Comitato per la difesa della libertà di stampa che non riuscì a svolgere alcuna azione incisiva per l’intervento della polizia e dei prefetti che vietarono ogni manifestazione pubblica e soprattutto per la non unitarietà della risposta data dal mondo dei giornali. In realtà, come oramai era noto agli oppositori democratici, il fascismo era un vero partito di massa il quale nella sua azione quotidiana doveva conciliare le necessità obiettive della politica con le concessioni agli umori e alle interpellanze della massa e di conseguenza era nota la politica di Mussolini il quale parlava in un modo alla Camera e per il Paese e in un altro per le masse, in pratica applicando l’«immortale dottrina del cerchio e della botte», cioè proclamare soluzioni moderate a parole e fare scelte liberticide nei fatti. A questa tattica rispondevano, in sostanza, anche gli appelli alla normalizzazione fatti da Mussolini consentendogli di assicurare, da un lato, il Paese bisognoso di sicurezza e di ordine e, dall’altro, di scatenare la stampa fascista contro gli oppositori accusandoli di essere la causa dei disordini; confondendo ancor una volta le acque con il ridurre tutto il problema della politica italiana tra i due poli estremi del bolscevismo e del fascismo, mentre «tutti gl’intermedi fra i due estremi sembrano non esistere». Chiarire preventivamente quest’inganno mussoliniano e riaffermare l’estraneità dei raggruppamenti democratici dai due estremi, non era secondario nella strategia aventiniana onde evitare la repressione con l’accusa di essere degli irriducibili rivoluzionari e tentare di riportare la polemica politica entro i limiti di un dibattito anche durissimo, mentre la soluzione doveva trovarsi con le armi della democrazia; anche perché l’azione che stavano svolgendo i comunisti da un lato contro il fascismo e dall’altro contro le opposizioni tendeva a spingere all’estremo il conflitto onde affermare, da un collasso delle istituzioni e quindi dello Stato, una soluzione rivoluzionaria di tipo bolscevico. Con il consenso delle altre forze politiche dell’Aventino Amendola, quale voce unitaria delle opposizioni, poté affermare in un articolo su «Il Mondo» del 20 luglio 1924, Tra i due estremi, che «dittatura fascista e dittatura comunista sono entrambe oppressione della maggioranza; sono negazione della sovranità popolare; nei nostri confronti, quindi, sono allo stesso piano. Contro ogni dittatura noi riaffermiamo le finalità ed il metodo del consenso, della democrazia». Ma l’aspetto più importante di quei giorni di metà luglio 1924 fu che l’opposizione aventiniana fece un ulteriore passo in avanti qualificandosi come una vera opposizione di governo – il che finisce con mettere definitivamente in soffitta la tesi dell’opposizione morale – a seguito di una dichiarazione dei popolari di aderire a un gabinetto democratico in cui fossero presenti anche i socialisti. Infatti il 16 luglio, Alcide De Gasperi, nella sua qualità di segretario del Partito popolare, tenne un importante discorso ai segretari provinciali convenuti a Roma nel quale, rispondendo a una proposta di Turati contenuta in un’intervista concessa al direttore de «Il Popolo» Giuseppe Donati, aveva testualmente dichiarato una possibile «cooperazione popolare in un governo in cui fossero rappresentati anche i socialisti» («La Giustizia», 17 luglio 1924).

Infine, il terzo pilastro su cui si fondava la strategia dell’opposizione fu quello di catturare il consenso dei combattenti e dei liberali collaborazionisti. Su questo terreno la battaglia fu sostenuta in prima persona da Amendola, il quale avanzò la tesi dell’apoliticità dei combattenti al fine di favorire quei settori sostanzialmente democratici dell’associazione, mentre il fascismo condusse un gioco molto pesante per assoggettare l’associazione al partito dominante. La questione era importante per i costituzionali e i democratici perché tenere fuori dalla portata del fascismo l’associazione dei combattenti significava la conquista di un altro punto a favore del cerchio da stringere intorno al governo. Tant’è che Mussolini mandò ad Assisi Dino Grandi con l’intendimento di rompere il cerchio e volgere a favore del fascismo un orientamento palesemente ostile dell’associazione, sebbene l’ordine del giorno del consiglio nazionale, approvato a grande maggioranza e proposto dall’ex legionario fiumano medaglia d’oro e ora deputato fascista Ettore Viola condizionava l’appoggio dell’associazione al governo nazionale al ristabilimento della legalità e della concordia civile. Il che aprì la strada all’espulsione dal partito del Viola e del deputato fascista Ponzio di S. Sebastiano che erano stati i maggiori sostenitori delle tesi legalistiche allorquando il 4 novembre si erano dimessi dal comitato nazionale in seguito all’aggressione a colpi di rivoltella e di manganello consumata da fascisti al soldo del governo contro un corteo patriottico composto da combattenti, mutilati e invalidi di guerra. Per quanto riguarda i liberali collaborazionisti, come il gruppo che faceva capo a Salandra, o i liberali attendisti che ancora si illudevano di poter riportare Mussolini e il fascismo nell’alveo costituzionale, come i seguaci di Giolitti e per altri versi di Orlando, il discorso è più complesso perché era allo stesso tempo parte del piano dell’azione a tenaglia delle opposizioni contro il fascismo, ma era anche un discorso interno alle forze liberali e democratiche che facevano capo ad Amendola e che erano proiettate alla costruzione di un nuovo partito che raccogliesse le forze sparse dei democratici e dei liberali antifascisti al di là delle organizzazioni ufficiali in cui militavano e che s’imponeva come una necessità della politica di rinnovare se stessa dando una struttura permanente alla nuova classe dirigente democratica uscita dalla guerra, ma anche come difesa dalla tradizione liberale e come foro permanente di elaborazione di idee e proposte capaci di catturare il consenso di gran parte del paese e all’occorrenza mobilitare quei ceti e quelle classi che in esso si riconoscevano [cfr. d’Auria 1978, pp. 131-192]. In altre parole, «un partito che non si decidesse a promettere riforme alla vigilia delle guerre (salvo poi a tradire le promesse) e che fosse capace di fare del regime liberale e delle garanzie democratiche la essenza del proprio programma, la ragione prima della sua esistenza» [Rizzo 1956, p. 145]. Ciò avvenne l’8 novembre 1924, dopo che un’attività preparatoria aveva dato luogo alla costituzione di varie unioni regionali, con la fondazione del partito che prese il nome di Unione nazionale delle forze liberali e democratiche che si proponeva di raccogliere intorno a se quelle classi colte e medie che aspiravano al ritorno «alla costituzione, alla legalità e alla libertà», come al loro congresso avevano dichiarato i liberali ufficiali, prendendo in una certa misura le distanze dal fascismo, anche se con questa presa di posizione i liberali ufficiali non passavano tout court all’opposizione né tanto meno salivano sull’Aventino. Tuttavia, il fatto che i liberali avevano introdotto dei distinguo nel dibattito della maggioranza apriva la strada a una situazione nuova con il configurare una «politica di centro» che, come ben coglieva Amendola, poteva far evolvere inaspettatamente la situazione verso una messa in discussione del governo e quindi del fascismo. Soprattutto perché questa sorta di cuneo fra il fascismo e le opposizioni che i liberali avevano inserito nella dialettica politica si saldava con quello parallelo dei combattenti e dei mutilati i quali stavano seguendo lo stesso percorso, anche se partiti da posizioni diverse da quelle dei liberali. In altre parole, il tentativo di Amendola era quello di ribaltare la situazione proclamata a gran voce dal fascismo di far passare le opposizioni costituzionali come alleate dei comunisti e di presentare il fascismo come il garante della legalità e dell’ordine; al contrario, svincolandosi dai comunisti, Amendola si sforzò di far valere nell’opinione pubblica quella che era la realtà, e cioè che le opposizioni aventiniane stavano combattendo una battaglia in difesa delle libertà pubbliche e private e che «il sorgere di un centro tra il fascismo e le opposizioni» avrebbe dato luogo a uno spazio politico laico «di restaurazione costituzionale, di rigida legalità, di rispetto delle libertà statutarie, di ordine e di conciliazione interna che finiva con il coincidere con le posizioni degli aventiniani» come scrisse Amendola nell’articolo Verso una politica di centro («Il Mondo», 8 ottobre 1924). Tutto ciò aveva lo scopo ultimo, in mancanza di altre possibilità, di creare un forte consenso nell’opinione pubblica in modo da fornire la sponda necessaria al re, lo strumento costituzionale per dimettere Mussolini e il governo.

A questo punto le opzioni di cui disponeva l’opposizione aventiniana si precisavano e risultavano muoversi lungo tre direttrici fondamentali: appoggiare, in primo luogo, l’atteggiamento dei fiancheggiatori in modo da farli uscire dalla maggioranza, accentuare nel Parlamento la situazione di incertezza che cominciava a manifestarsi anche in alcuni settori del fascismo e, in ultimo, continuare a fare pressioni sulla monarchia. Le tre azioni concentriche dovevano correlarsi a una intensa campagna per sensibilizzare l’opinione pubblica. A seguito di ciò l’11 novembre, il giorno prima della riapertura dei lavori parlamentari, l’assemblea plenaria delle opposizioni si riunì nella sala A di Montecitorio per dare pubblicità a un documento redatto da Amendola, Gronchi e De Gasperi che ribadiva i motivi e le ragioni della secessione parlamentare e che fu letto dallo stesso Amendola quale capo riconosciuto del movimento antifascista. La mossa tattica, dunque, era quella di rompere il gioco agevolando la presa di distanza dei fiancheggiatori dal fascismo con la formazione di un «centro» che si frapponesse fra quest’ultimo e le opposizioni fuori dall’aula. L’occasione si presentò pochi giorni dopo la riapertura della sessione parlamentare con la venuta in discussione del bilancio del Ministero degli Esteri. Il giorno 15, in sede di votazione, il bilancio fu approvato con 315 voti favorevoli, 6 contrari e 26 astenuti. Giolitti, a nome dei liberali del suo gruppo, aveva votato contro il governo, a cui si erano aggiunti alcuni fascisti dissidenti. Ma l’aspetto più interessante era stato che il gruppo dei liberali di sinistra che faceva capo a Vittorio Emanuele Orlando, si era astenuto, così come si era astenuto un piccolo gruppo dei combattenti. Benché il governo non dovesse temere per la sua tenuta, tuttavia era evidente che il voto contrario dei liberali giolittiani e l’astensione dei liberali orlandiani, dei combattenti e dei fascisti dissidenti Rocca e Forni aveva determinato una frattura nella maggioranza nel senso sperato dalle opposizioni aventiniane. Era un fatto politico di notevole importanza perché per la prima volta l’Aventino vedeva aprirsi davanti a sé una concreta possibilità di mettere in crisi il governo. La situazione diventò ancora più difficile per Mussolini pochi giorni dopo allorquando venne in discussione il bilancio del Ministero dell’Interno. La discussione fu aspra e riservò notevoli sorprese al capo del fascismo perché in alcuni settori del fiancheggiamento l’irrigidimento manifestatosi durante la votazione del bilancio degli Esteri si trasformò in opposizione aperta. Il giorno 19 l’on. Soleri, a nome del gruppo di Giolitti, presentò un ordine del giorno contrario al governo. E in sede di votazione alcune astensioni si trasformarono in voto contrario, il più autorevole dei quali fu quello di Orlando e del suo gruppo. Era uno scacco per il governo che vedeva la sua maggioranza sfilacciarsi per l’allontanamento dei fiancheggiatori. Ma la circostanza più importante – e che aveva fatto molta impressione perché poneva una seria ipoteca sul governo – era un’altra e cioè la presentazione da parte di Salandra e del suo gruppo forte di 35 deputati di un ordine del giorno in cui si reclamava il ritorno alla legalità. Se non era una vera e propria sorta di sfiducia nei confronti del governo ci si era molto vicini. In realtà, la situazione che si era venuta e determinare poggiava sulla possibilità che il governo si trovasse sul punto di non avere più una maggioranza alla Camera. Il che apriva la strada a una crisi ministeriale che avrebbe indotto il re a far dimettere Mussolini e a puntare su un gabinetto costituzionale sotto la presidenza di Salandra: il cosiddetto governo dei «tre presidenti» per l’appoggio che a questa soluzione erano virtualmente disposti a dare Giolitti e Orlando. A rafforzare questa possibilità si aggiungevano le indicazioni che venivano dal Senato dove il 5 dicembre alla votazione del bilancio del Ministero dell’Interno, fatta per appello nominale, i contrari furono 54 e gli astenuti 35. La falla nella maggioranza si era aperta a causa della disponibilità di 44 deputati fascisti contrari alle violenze e favorevoli a una politica di conciliazione; e di conseguenza pronti a votare per la formazione di un gabinetto costituzionale guidato da Salandra. Se si tiene presente che il governo non aveva alla Camera più di una settantina di voti di maggioranza, dato per scontato il voto contrario dei liberali di Giolitti, dei liberali di sinistra di Orlando, dei combattenti e dei fascisti dissidenti di Massimo Rocca e sommando a questi i voti degli aventiniani che eventualmente sarebbero rientrati in aula, effettivamente la tenuta del governo dipendeva da 79 voti composti dai 35 voti dei liberali di destra di Salandra e dai 44 voti di deputati fascisti stanchi delle violenze. Se questi voti si fossero sommati a quelli dell’opposizione rientrata in aula il governo si sarebbe trovato in minoranza per 9 voti. Ciò sarebbe bastato al re per costringere Mussolini alle dimissioni.

Tutto ciò non doveva essere ignoto a Mussolini il quale si accinse a una serie di contromosse tese a contrastare l’azione delle opposizioni, sicuro anche del fatto che tra Salandra e il re non vi era stato alcun contatto. In primo luogo, si preoccupò di far diffondere la notizia di una probabile concessione di un’amnistia nel caso della costituzione di un gabinetto Salandra, il che gettò un qualche scompiglio fra gli aventiniani e, in secondo luogo, ormai certo che il re non avrebbe accolto alcuna proposta da parte delle opposizioni, riprese in mano la situazione e cercò di «sparigliare le carte» presentando un progetto di riforma elettorale che prevedeva il ritorno al sistema uninominale con l’evidente scopo di far rientrare i dissidenti, ricompattare alla maggiorana i liberali fiancheggiatori e creare disorientamento nell’Aventino. Visto l’immobilismo del re, Amendola venne nella determinazione di fare una mossa che poteva risultare decisiva e indurre finalmente il re a prendere posizione riguardo al fascismo: il 27 dicembre pubblicò su «Il Mondo» il memoriale Rossi, di cui era in possesso già da tempo, in cui le responsabilità di Mussolini circa il delitto Matteotti risultavano evidenti e che doveva provocare una sorta di sollevazione morale del Paese contro il fascismo. I giorni successivi furono frenetici e soprattutto decisivi per la sopravvivenza del governo. Un nuovo giro di vite contro la stampa non allineata portò al sequestro di tutti i giornali di opposizione, alla polizia furono ordinate perquisizioni nei domicili privati, concentramenti di camice nere furono attuati nelle principali città del Paese con connesse violenze e sopraffazioni. In questo clima maturò il famigerato discorso del 3 gennaio 1925, violento e pieno di minacce, che apriva anche ufficialmente le porte alla dittatura. Giolitti fece sapere al re che i ministri liberali ancora nel governo si sarebbero dimessi e che, cambiata la compagine del governo, anche da un punto di vista della correttezza costituzionale, ciò poteva aprire la strada a nuove consultazioni per la formazione di un nuovo gabinetto. Effettivamente il 5 gennaio 1925 i ministri liberali Casati, Oviglio e Sarrocchi si dimisero e lo stesso Salandra, dopo qualche settimana, passò all’opposizione. Ma ancora una volta il re non ritenne che un simile gesto fosse di fatto un atto di sfiducia sostanziale nei confronti del governo, tale, come aveva suggerito Giolitti, di aprire le consultazioni per la formazione di un nuovo governo. L’8 gennaio gli aventiniani, di fronte al reiterarsi delle violenze da parte delle squadre, decisero di rivolgersi ancora una volta al Paese ribadendo che l’Aventino non era un gruppo di sediziosi e di congiurati, ma soltanto una «risoluta e insopprimibile» protesta di rappresentanti del popolo dopo «il più atroce delitto del regime». Nei giorni e nelle settimane successive continuarono i contatti con la monarchia come unico interlocutore, ormai, per risolvere la crisi, ma si trattava di un terreno minato dovuto alla profonda indecisione del sovrano. Ogni giorno che passava senza che il re prendesse una posizione chiara era un punto di forza in più per Mussolini e per il fascismo. Tuttavia, nonostante molte voci critiche, le componenti maggioritarie dell’Aventino decisero di continuare la battaglia contro il rientro in aula e nei mesi di gennaio-febbraio 1925 si concentrarono sulla questione elettorale optando per una tattica astensionista. Ma la polemica all’interno della concentrazione secessionista fra «discesisti» e «aventinisti» riprese vigore nell’illusione che una battaglia parlamentare potesse ancora risolvere la situazione, nonostante il fascismo intransigente, con la segreteria di Farinacci, avesse rioccupato la scena e intensificato le violenze. Contemporaneamente anche all’interno dell’Aventino, e segnatamente fra gli unionisti, cominciò a farsi strada l’idea di organizzare una rete clandestina di difesa con intenti cospirativi, composta da un comitato centrale facente capo a tutta una serie di comitati esecutivi provinciali, con lo scopo di coalizzare – come disse Amendola – «attorno agli attuali aventiniani tutti i giovani disposti ad agire e capaci di agire». Ma le continue perquisizioni di polizia e il nuovo giro di vite impresso dal regime con tutta una serie di leggi speciali contro le associazioni sfaldarono regolarmente ogni tentativo di organizzazione. Inoltre i disegni di legge Rocco sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche in materia di ordine pubblico e di difesa dello Stato e sulla dispensa dal servizio dei funzionari statali non fedeli al fascismo strinsero un cerchio ancora più stretto intorno all’Aventino. Messo nell’impossibilità di svolgere una qualunque azione nel paese, ripresero quota fra gli aventiniani le tesi di coloro che a vario titolo sostenevano il rientro in aula. Ancora per il momento però, l’asse Amendola-De Gasperi ricompattò la maggioranza riaffermando la tesi secessionista; anzi i costituzionali dell’Aventino, i liberali unionisti, i demosociali e i popolari, approfittando del giubileo reale, il 7 giugno, decisero di fare un ultimo appello al re sottoscritto da 59 deputati. Due giorni dopo gli onorevoli Amendola, De Gasperi e Di Cesarò furono ricevuti da Vittorio Emanuele senza ottenere alcuna risposta. Di fronte al silenzio del re, all’interno dell’Aventino si riaprì con maggiore forza il dibattito sulle decisioni da prendere circa il rientro in Parlamento e creò divergenze che si ripercossero all’interno di tutti i gruppi. Ma ogni decisione fu rinviata in attesa del congresso dell’Unione nazionale delle forze liberali e democratiche che si aprì a Roma il 15 giugno e che riaffermò la leadership di Amendola come capo indiscusso dell’Aventino. Infatti il successo del congresso dell’Unione, dovuto al fatto che per la prima volta in Italia si proponeva al Paese un grande partito liberale a base nazionale organizzato in sezioni tipiche di un partito di massa, congiuntamente alle risultanze dell’istruttoria del Senato per il processo De Bono che pur assolvendolo lasciava un’ombra sull’operato del fascismo e il netto passaggio all’opposizione dei liberali ufficiali di Giolitti, Salandra e Orlando diedero nuovo slancio all’Aventino all’interno del quale le forze costituzionali diedero vita a un «Blocco costituzionale per la libertà» che si presentò alla prova del fuoco nelle elezioni amministrative di Palermo del 2 agosto e che era una sorta di preparazione alle elezioni politiche che si riteneva dovessero essere tenute a breve.

La scelta partecipazionista delle opposizioni, sebbene avesse conquistato alcuni comuni del nord della Lombardia e del Piemonte, fu subito stroncata dalla violenza delle squadre fasciste tanto che nella maggior parte dei casi si optò per astenersi dalla lotta. Intanto, il 20 luglio a Montecatini Amendola fu violentemente aggredito da fascisti pistoiesi con la connivenza passiva dei carabinieri tanto da procurarne la morte di lì a pochi mesi a Cannes in Francia dove si era recato dopo l’aggressione. L’Aventino non aveva più un capo e ciò, nella polemica tra «discesisti» e «secessionisti» che continuò a coinvolgere tutti i gruppi senza che si giungesse a una posizione unitaria, accelerò la sua fine.

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Brano tratto dal "Dizionario del liberalismo italiano", edito da Rubbettino Editore. Clicca qui per acquistarlo con il 15% di sconto