Aventino

di Elio d’Auria

Nel rispondere nel febbraio del 1925 alle tesi polemiche avviate nei confronti dell’Aventino da «Rinascita Liberale», che addebitava ai «secessionisti» di aver esaurita la loro forza propulsiva per non aver instaurato tutti quei contatti che erano possibili con l’«opposizione dell’aula» – cioè con i liberali di Salandra, Giolitti e Orlando, in pratica con quelle che venivano chiamate le «forze medie» che stavano alla base del maldestro tentativo del «governo dei tre presidenti» – e di accettare, al contrario, la convivenza con i massimalisti e i repubblicani contrari a quelle stesse «forze medie», Giovanni Amendola aveva con fierezza rivendicato le ragioni più profonde dell’Aventino, che erano «ragioni morali» e che non coincidevano assolutamente, come egli chiarì con forza, con la «questione morale», «perché esse hanno una comprensione assai più larga ed un valore assai più profondo, e possono riassumersi nella protesta, radicale e intransigente, che le Opposizioni del 6 aprile hanno sollevato contro un regime fondato sulla illegalità, sulla violenza, e sull’offesa sistematica alle norme essenziali della moralità sociale, dopo aver sopportato per venti mesi l’esperimento fascista. La protesta – continuava Amendola – scoppiò dalle profondità dell’istinto al cospetto delle estreme ed innegabili conseguenze di un sistema che rendeva impossibile ed incompatibile la normalità civile e la funzione dell’Opposizione: ed essa è stata gettata su di un piatto di quella bilancia che portava, sull’altro piatto, tutto il peso della passiva acquiescenza, dell’opportunismo codardo e del trasformismo interessato che umiliarono il costume politico del nostro paese, allorché il carro del trionfo fascista apparve per la prima volta oltre il miserabile crepuscolo dell’ottobre ’22».

Il primo banco di prova fu la discussione per l’introduzione di una nuova legge elettorale, che accentuò il contrasto fra maggioranza e opposizione, sia a causa del merito della legge, sia soprattutto per le pressioni e le vere e proprie intimidazioni esercitate dal governo sulla Camera con la minaccia di nuove reiterate violenze. L’approvazione del disegno di legge, inoltre, metteva alla prova i sostenitori non fascisti del governo, soprattutto la destra liberale, che, votando in suo favore, sebbene con la riserva di favorire la legalizzazione del fascismo, aveva gettato lo scompiglio nelle file dei costituzionali, in quanto appariva oramai evidente come il governo avesse escogitato, con il collegio unico nazionale legato al suffragio universale, una forma più o meno plebiscitaria di elezione che, avocando praticamente a sé la scelta dei deputati, legava di fatto la maggioranza in così larga misura all’attività politica del governo e all’inframmettenza del potere esecutivo nel legislativo, tale comunque da vanificare la funzione della minoranza e relegarla a esercitare un mero diritto di tribuna con il solo scopo di assistere ai dibattiti e alle deliberazioni della maggioranza dell’assemblea. Questo era un aspetto centrale della convergenza su un medesimo punto delle varie opposizioni liberali e democratiche, di fatto compattandole verso lo stesso obiettivo. Restava il problema dei comunisti che, con il loro rigido schematismo ideologico, seppure all’opposizione, alimentavano il mito dell’Antinazione, che era il mezzo attraverso il quale il fascismo combatteva la sua lotta strumentale contro le opposizioni, soprattutto quelle democratiche, svalutandone l’azione per poi eliminarle con il consenso tacito delle masse. Da qui la necessità di differenziarsi dai comunisti perché portatori di una ideologia ugualmente totalitaria che rafforzava il mito dell’Antinazione coinvolgendo anche i democratici e di rintuzzare le accuse «partigiane avvelenate di nazionalfascismo» con le armi legalitarie della difesa dello Stato e della Costituzione e che spiega l’apertura dei costituzionali nei confronti dei socialisti unitari con l’impostare il dibattito sul laburismo, così come era stato fatto nella difesa dei cattolici travagliati al loro interno tra le posizioni laiche del partito e quelle dell’inframmettenza del Vaticano nelle questioni politiche e che avevano portato alle dimissioni di don Sturzo. Il che era di notevole rilevanza politica in quanto era un tentativo che si lasciava alle spalle posizioni tattiche tra schieramenti per proiettarsi in una dimensione di alleanze più vaste, tali da attirare una parte consistente delle masse, e non solo di quelle operaie, nella lotta contro il fascismo. Più concretamente, il dibattito apertosi sul problema del laburismo e dei sindacati era l’occasione per affrontare la questione del ruolo che avrebbe dovuto svolgere il socialismo nella società italiana, assumendo quelle caratteristiche di laburismo all’inglese capace di far dimenticare alla borghesia il cattivo ricordo del terribile «biennio rosso» e di conseguenza capace di catturare il consenso dei ceti medi produttivi e intellettuali. Ma l’azione di compattamento degli oppositori compiuta da Amendola non si rivolgeva soltanto agli oppositori dichiarati com’erano i socialisti, ma anche a quelli potenziali. Così come la sua attenzione si era rivolta ai mutamenti interni del Partito popolare che avevano portato nell’aprile del 1923 all’uscita dei ministri popolari dal ministero e al travaglio di un possibile ingresso dei confederali nel governo, ora si rivolgeva ai demosociali, al fine di indurli ad abbandonare calcoli elettorali e interessi parlamentari e ritornare a valorizzare le tradizioni democratiche e radicali della democrazia italiana in difesa di quel «patrimonio ideale» di cui era portatrice che la rendeva incompatibile con il fascismo, come poi avvenne con l’uscita dei suoi ministri dal gabinetto Mussolini nel febbraio del 1924. Insomma, tra i primi mesi del 1923 e i primi mesi del 1924 già si profilava una concentrazione democratica di forze antifasciste con il prefigurare un Aventino ante litteram che maturerà di lì a poco con le elezioni generali, che costituiranno l’occasione della secessione parlamentare.

Il partito di Amendola, l’Opposizione costituzionale, era – come diceva Turati – «il tessuto connettivo» dell’opposizione aventiniana e di conseguenza era il più idoneo a svolgere il compito di tenere insieme le forze liberali non collaborazioniste e cattoliche, da un lato, e socialiste e repubblicane, dall’altro. Il giudizio che Amendola e gli aventiniani davano della situazione politica si basava sulla considerazione che nel Paese si era innescato un meccanismo sfavorevole al fascismo e che pertanto era consigliabile, ora che il delitto Matteotti l’aveva fatto emergere in modo palese, forzare la mano per far rilevare l’illegittimità del Parlamento per il modo in cui le elezioni erano state fatte e che toglieva ogni valore morale e giuridico al responso elettorale. Di conseguenza la partecipazione delle opposizioni ai lavori della Camera, anche esprimendo un voto contrario al governo, avrebbe sanzionato di fatto la illegittimità originaria e avrebbe dato valore legale al volere espresso dalla pubblica opinione, benché estorto con la violenza. Le pressioni sul re avevano dunque lo scopo di indurre Vittorio Emanuele a dimettere Mussolini. Ovviamente l’ultima risorsa restava la consultazione del corpo elettorale, che era però già avvenuta e di cui il governo fascista si era avvantaggiato con i metodi ben noti. Il Capo dello stato non poteva, senza violare la sostanza della Costituzione, concedere un nuovo appello del corpo elettorale, essendo in carica lo stesso governo, a pochi mesi dal precedente. Tuttavia le opposizioni – e qui scattava la clausola del potere d’indirizzo del re attraverso la convocazione del Consiglio della corona – ritenevano che la situazione sarebbe potuta sfociare in una nuova consultazione del corpo elettorale purché questa si fosse tenuta sotto la guida di un governo di transizione che non fosse il governo Mussolini. Questa era la sostanza e la strategia dell’Aventino e non sembra che altre forme di opposizione potessero avere una qualche possibilità di successo.

Verso una politica di centro («Il Mondo», 8 ottobre 1924). Tutto ciò aveva lo scopo ultimo, in mancanza di altre possibilità, di creare un forte consenso nell’opinione pubblica in modo da fornire la sponda necessaria al re, lo strumento costituzionale per dimettere Mussolini e il governo.

leadership di Amendola come capo indiscusso dell’Aventino. Infatti il successo del congresso dell’Unione, dovuto al fatto che per la prima volta in Italia si proponeva al Paese un grande partito liberale a base nazionale organizzato in sezioni tipiche di un partito di massa, congiuntamente alle risultanze dell’istruttoria del Senato per il processo De Bono che pur assolvendolo lasciava un’ombra sull’operato del fascismo e il netto passaggio all’opposizione dei liberali ufficiali di Giolitti, Salandra e Orlando diedero nuovo slancio all’Aventino all’interno del quale le forze costituzionali diedero vita a un «Blocco costituzionale per la libertà» che si presentò alla prova del fuoco nelle elezioni amministrative di Palermo del 2 agosto e che era una sorta di preparazione alle elezioni politiche che si riteneva dovessero essere tenute a breve.

La scelta partecipazionista delle opposizioni, sebbene avesse conquistato alcuni comuni del nord della Lombardia e del Piemonte, fu subito stroncata dalla violenza delle squadre fasciste tanto che nella maggior parte dei casi si optò per astenersi dalla lotta. Intanto, il 20 luglio a Montecatini Amendola fu violentemente aggredito da fascisti pistoiesi con la connivenza passiva dei carabinieri tanto da procurarne la morte di lì a pochi mesi a Cannes in Francia dove si era recato dopo l’aggressione. L’Aventino non aveva più un capo e ciò, nella polemica tra «discesisti» e «secessionisti» che continuò a coinvolgere tutti i gruppi senza che si giungesse a una posizione unitaria, accelerò la sua fine.

Bibliografia

Carteggio, Il delitto Matteotti e l’Aventino (1923-1925), vol. VI, Einaudi, Torino 1959.