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Autorità

di Giorgio Fedel 

Un appunto etimologico (e storico-semantico)

«Autorità» deriva da auctoritas,che è l’astratto di auctor. Sono termini della lingua latina che rinviano al verbo augeo, il quale nel latino classico significa accrescere. Emile Benveniste mostra però come augeo in origine non significasse l’aumentare, l’ingrandire quello che già c’è, ma l’atto di porre in essere ciò che prima non c’era. Questo è congruo con il contenuto politico della religione romana, che mira alla tutela della fondazione dell’Urbe e al culto degli antenati. I Romani avvertono dunque l’esistenza di qualcosa di importante che merita una denominazione speciale come fatto e come tradizione. Per tutta la storia di Roma auctoritas denota uno status di superiorità, connesso con una certa posizione sociale, con qualità personali e con la capacità di dare validità alle decisioni. Un individuo ha auctoritas se è tenuto in considerazione dagli altri, che gli conferiscono così «prestigio», implicando sentimenti di deferenza, ammirazione. Ciò è la base per candidarsi alle cariche pubbliche. I giureconsulti hanno un’auctoritas tale per cui le loro affermazioni − quasi prive di motivazioni argomentate − sono reputate degne del valore di verità, indipendentemente da ogni dimostrazione (stat pro ratione auctoritas). L’auctoritas patrum è il parere del senato circa le proposte delle assemblee popolari, come l’auctoritas populi è l’approvazione del popolo riunito nei comitia. Cicerone assegna il valore dell’auctoritas al senato, quello della libertas al popolo, anche se «a quei tempi il senato governò la cosa pubblica» (tenuit igitur hoc in statu senatus rem publicam temporibus illis). Con l’avvento del principato entra in gioco la supremazia del princeps che diventa il portatore primo dell’auctoritas:nelle Res gestae di Augusto: post id tempus auctoritate omnibus praestiti («dopo d’allora io superai tutti per autorità»). Questi cenni servono solo a fermare un punto (ovvio). Auctoritas è un vocabolo elastico, ma che ruota intorno a un nucleo centrale sussumibile sotto la categoria del «potere» (il far fare, il far credere). Cosa sono il prestigio come base di reclutamento, l’indurre l’accettazione di pareri, la convalida di decisioni, il ruolo del senato, il capo supremo in quanto persona incarnante l’auctoritas, se non aspetti appunto «potestativi»? Gli stessi Romani contrappongono auctoritas e potestas (potere),ma a volte li confondono, sottintendendo la consapevolezza che appartengono entrambi a un identico campo semantico [Schulz 1968; Lanza 1966]. Con questo sottofondo, il termine «autorità» entra, e in un ruolo irrinunciabile, nella tradizione del pensiero (e del lessico) politico e sociale della civiltà occidentale [cfr. Eschenburg 1970; Krieger 1968].

Dilucidazioni preliminari

«Autorità» è parola ricorrente nel linguaggio ordinario («è un’autorità», «ha autorità», «l’autorità di un’idea», «l’autorità di un padre»); ed è un termine tecnico impiegato in varie discipline intellettuali (scienze sociali, giuridiche e filosofiche), sopra il quale gli studiosi non sono riusciti – come spesso accade per i concetti di un certo peso – a mettersi d’accordo. Non solo vi sono controversie sulle definizioni, ma anche molteplicità di fenomeni cui il termine è riferito. Vi è un inanellarsi di locuzioni. Si parla di autorità de jure contrapposta ad autorità de facto, di «autorità legittima» e di «autorità coercitiva», di autorità «epistemica» (o «teoretica») e di «autorità pratica». Essere «in authority» è cosa diversa dall’essere «an authority». «Principio di autorità» in Adam Smith è una disposizione psichica a riconoscere la superiorità; in Vilfredo Pareto è una forma linguistica che ha funzioni dimostrative o persuasive.

Ma che cosa significa esattamente «autorità»? Conviene illustrare subito gli usi cui il termine è soggetto. Mi paiono, semplificando, raggruppabili in tre accezioni. La prima è «notazionale»e riguarda locuzioni in cui il termine rinvia ad altri significati. Ad esempio, quanto alla sfera politica − la sola che qui interessa (trascuro dunque sia l’autorità come generale pratica sociale nella famiglia, nella scuola, ecc.; sia, in connessione, il tema del declino di queste autorità tradizionali nella società caratteristico del pensiero conservatore; e trascuro pure il concetto di autorità inteso nel senso di «argomento di autorità», ossia il servirsi del giudizio di una persona per provare una determinata tesi) −, «autorità» può esprimere la stessa cosa di «Stato», «governo», «governo in carica»; e questi medesimi significati si hanno quando alla parola «autorità» si fa seguire ora l’aggettivo «pubblica», ora l’aggettivo «costituita»; e con altri aggettivi (ad esempio, «legislativa») «autorità» indica «parlamento». Nel lessico giuridico moderno è difficile trovare la parola «autorità» da sola, perché è quasi sempre aggettivata onde specificarne gli oggetti di riferimento. Al plurale poi «autorità» può designare «governanti», «funzionari dello stato», «organi statuali» o anche organismi amministrativi di garanzia, vigilanza, detti anche «autorità indipendenti», e via elencando. In questi usi notazionali, (che pur hanno qualche significato evocativo) la parola «autorità» non è veicolo di un proprio senso compiuto. È per questa ragione che diviene possibile sostituirla con altre parole, senza che, a parte le sfumature, il senso concettuale venga meno.

La seconda accezione è «generica»; e qui troviamo l’impronta dell’uso dei Romani, nel senso che «autorità» significa semplicemente potere in generale (influenza sul pensiero o l’azione altrui). Autorità/potere diventano così una coppia in cui i due termini, strettamente congiunti, sono intercambiabili, avendo lo stesso significato. Quest’uso è presente nei classici (ad esempio nel saggio di John Stuart Mill, On Liberty), e in importanti pensatori del Novecento (ad esempio in Roberto Michels, Charles E. Merriam, Edward Adamson Hoebel). Chaïm Perelman osserva, riportando un pensiero di Littré, che − si noti l’implicazione dell’uso che abbiamo chiamato notazionale − «quando parlando dei detentori del potere si dice “le Autorità” […] a furia di procedere in tale senso i due termini finiscono per essere considerati sinonimi».

La terza accezione è «concettuale». Stando a questa, «autorità» diviene la parola che veicola un significato peculiare, isola cioè un concetto, ritagliando in qualche modo dal campo generale del potere uno scomparto limitato e circoscritto. Da questo punto di vista, l’autorità non è più un sinonimo, ma un fenomeno associato sì al potere, ma che se ne distingue grazie a determinate caratteristiche (da precisare), che il potere, in quanto tale, non possiede. Nella cultura anglosassone vi è una tradizione di studio attenta alla chiarificazione dei termini del lessico politico che sono ballerini [segnalo di epoche diverse Remarks on the Use and Abuse of some political Terms (1832), diGeorge Cornewall Lewis; e The Vocabulary of Politics (1953), di T.D. Weldon], dove è ben presente la distinzione tra autorità e potere, nonché la messa in guardia dal farne un uso sinonimico.

La letteratura sull’autorità politica è molto vasta. E presenta una certa confusione, poiché il concetto di autorità appare sia nel discorso della scienza politica sia in quello della filosofia politica (e della filosofia del diritto), con la conseguenza che esso viene ad avere ora una funzione descrittiva (l’autorità quale è o si reputa che sia: giudizio di fatto), ora prescrittiva (l’autorità come dovrebbe essere: giudizio di valore). Nel giro di poche pagine è solo possibile esporre sintesi schematiche degli approcci essenziali presenti in ambedue le tradizioni; e, stante la natura del dizionario, limitandomi esclusivamente alla cultura italiana e tentando, quando è il caso, di evidenziare dei nessi tra liberalismo e autorità politica. Fa perno la mia esposizione – ordinata grossolanamente (senza cioè alcun rigore di contabilità cronologica) per scansioni temporali – sul tentativo di mettere un po’ in forma un materiale frammentato e, nell’insieme, farraginoso. Per le trattazioni internazionali (e convenzionali) rinvio il lettore ai due volumi della prestigiosa serie Nomos, al volume curato da Joseph Raz, e alle omologhe voci nei dizionari di lingua inglese, tutti indicati in bibliografia.

Autorità politica e cultura politica: il caso italiano Risorgimento e prefascismo

Il problema dell’autorità ha scarsa profondità nella cultura politica in Italia; e ciò in connessione con la tardiva formazione del nostro Stato nazionale (e con altro che dirò più avanti). Nel Risorgimento l’autorità, in senso politico, può essere concepita come un mezzo in vista del fine, vale a dire come l’incanalamento (disciplina) dell’energia politica idonea ad abbattere gli Stati regionali e fondare lo Stato nuovo (detto tra parentesi: vi è poca o nulla differenza di sostanza tra questa idea di autorità e quella engelsiana circa la«necessità di un’autorità, anzi di un’autorità imperiosa» per «dar vita ad un altro ordine sociale»). Giuseppe Mazzini, predicando l’avvento di una nuova era, attribuisce un tratto maligno al potere dello Stato dinastico (non-nazionale e non-democratico); e all’impeto rivoluzionario associa l’invocazione dell’autorità come guida necessitata dall’insurrezione: «il mondo oggi ha sete, nonostante ciò che alcuni dicano, di autorità. Tutte le insurrezioni sono dirette, non contro l’idea del potere, ma contro la parodia di questa idea, contro un fantasma di autorità, una forma senza vita che non può più fecondare le nostre vite».

Dopo l’Unità d’Italia, resta viva la tradizione patriottica risorgimentale e acuta si presenta l’istanza di «fare gli italiani»; di modo che le idealità delle speranze e dei propositi elaborate dalla cultura vengono attirate non tanto dal problema dell’autorità, che è un problema parziale riguardando solo il governo, bensì da quello, globale, della comunità politica, del «noi» collettivo. Di qui il primato di categorie come l’hegeliano «Stato etico» presente nella Destra storica (Silvio Spaventa che si autodefinisce «adoratore dello Stato») e soprattutto in Giovanni Gentile, e lo «Stato-patria» intriso di potenza (Benedetto Croce). Tali accenti sono peculiari della nostra evoluzione storica; e caricano lo Stato, ossia l’entità massimamente inclusiva dei governanti e governati, di un connotato religioso; il quale, se oppugna l’idea liberale dello Stato europeo − si ricordi la concezione crociana della libertà politica che è «amore dello Stato», «collaborazione con lo Stato», l’«inserire nello Stato e versare nella vita politica il meglio di noi stessi, i nostri sentimenti, le verità che pensiamo» (con l’implicazione che se equipariamo Stato e governo, in Croce la correlazione autorità-libertà è indivisibile) −, risponde alla specifica esigenza di elevare lo Stato unitario a dignità simbolica, tale da sottrarlo dalla zona d’ombra incombente in un Paese dove la Chiesa ha la supremazia nel controllo della fede e dei significati ultimi; ed è una potenza spirituale storicamente avversa allo Stato nazionale.

Se questo è il clima culturale diffuso in Italia, non è pertanto un caso che le opere, nel tumultuoso periodo dopo la Grande guerra e di poco antecedente al fascismo, dedicate in via specifica all’autorità siano rimaste eccezionali; e comunque legate a concezioni dello Stato o non liberali (la competizione per il potere decisa dalla forza, non dal consenso liberamente espresso in forma legale dai cittadini); o non pienamente laiche (lo Stato moderno, avulso dalla religione, che gestisce semplicemente gli affari pubblici dei cittadini). Troviamo queste due visioni nelle opere rispettive (e antitetiche) del filosofo Giuseppe Rensi e del filosofo del diritto Giuseppe Capograssi. Nella prima, La filosofia dell’autorità (1920), Rensi propone una visione improntata a uno scetticismo integrale in urto con l’idealismo di Croce e Gentile e con ogni sistema di filosofia razionalistica. Per Rensi la tesi − che la vita degli uomini possa essere catturata dalle categorie della ragione, le quali danno omogeneità al mondo – è un castello di carta che crolla perché non regge la prova della realtà. Questa include non la Ragione, ma tante ragioni in opposizione e inconciliabili. Di conseguenza, il corso della vita umana, nello Stato, nella legge, nella società, nei rapporti tra gli Stati, non ha alcun fondamento razionale, bensì è plasmato da una forza impositoria, non meglio definita «essenza del mero imperio e dell’irrazionalità» «fatto di mera potenza», che Rensi chiama «autorità». Illustra bene questa visione lo svuotamento che Rensi fa della dottrina classica della democrazia e del parlamentarismo liberale, giudicati «falsa apparenza». Fittizia la «volontà generale» che pone una unanimità inesistente, fittizio il «bene comune» che è l’oggetto naturale della volontà generale, un «accordo razionalmente consentito» che non esiste. La stessa discussione in Parlamento è inutile, giacché è impossibile la persuadibilità tra le parti in contrasto, anzi la discussione intensifica il conflitto. Di conseguenza, permanendo il disaccordo, di necessità una maggioranza, tramite il voto (successivo alla discussione), impone a tutti la propria decisione, originando un fenomeno di autorità che allude alla sopraffazione fisica, pur non essendolo («forza, presunzione di forza, simbolo di forza»).

In netta antitesi, si pone l’opera di Capograssi, Riflessioni sull’autorità e la sua crisi del 1921. Opera ispirata alla filosofia cattolica, da un lato ha un carattere metafisico ed etico-religioso, dove l’accento di valore – di ciò che restaura la trascendenza e l’ordinamento gerarchico dei valori – rimane tale indipendentemente dalla sua realizzazione; dall’altro, racchiude una visione della vita sociale e degli individui colti nella loro concretezza storica e nella pratica e travaglio umano; il quale consiste della tensione tra l’anelito a una società avente a fondamento la «carità» nel senso cristiano («l’amore, razionale cosciente e riflesso, della verità; amore di Dio, verità assoluta, e amore degli uomini per la verità che è in essi») e le passioni dell’egoismo che sono il male del mondo, «quell’io particolare che vuole attrarre tutto a sé stesso». Su tale sfondo, Capograssi mette a punto il rapporto tra autorità e Stato con lunghe premesse speculative.

L’autorità ha genesi nell’assistere la «volontà umana», a pervenire alla «verità» (il Dio assoluto, ragione di tutte le cose), talché l’autorità è la «mediazione» tra la verità e il finito dell’uomo. L’autorità è così «forza instancabile» che si manifesta in una molteplicità di forme: dall’autorità dell’individuo che diviene in tal modo personalità (entità di libertà e creatività); a quella della famiglia (comunità spirituale generatrice). L’intera struttura della società esibisce articolazioni di autorità; ed esiste infine «un’autorità sociale per eccellenza» (detta «centrale»), che è la sintesi sovraordinata di tutte le autorità. Capograssi separa nettamente l’autorità centrale dalla statualità – e critica la filosofia politica che fa coincidere le due – adducendo a ragione sia l’atemporalità (il carattere eterno) dell’autorità, che, derivando dal «Primo Assoluto», non può risolversi nell’empiricità storica dello Stato; sia la natura dell’autorità che involge un vincolo morale e razionale, non direttamente proiettabile sugli scopi perseguiti da uno Stato, il quale è attore terreno e mero gestore di affari pubblici, operante nell’immediatezza particolaristica della sfera utilitaria. Semmai, lo Stato può essere concepito come l’apparato strumentale e organizzativo che permette di realizzare i fini che l’autorità, in se stessa, pone (il bene comune).

Fascismo

Con l’avvento e il consolidamento del regime fascista in certo senso si vivacizza l’interesse per l’autorità, si de-cristianizza, e viene pragmaticamente piegato in direzione della nuova struttura di potere; che, dal punto di vista della tipologia dei regimi politici, è ascrivibile al campo dell’autoritarismo piuttosto che a quello del totalitarismo (interpretazione ormai assodata dai grandi storici del fascismo come Renzo De Felice; alla quale – va detto – non ha giovato il liberalismo che enfatizzando il disvalore dei regimi negatori della libertà, li pensa come se appartenessero a un’unica categoria, e dunque non distingue le forme autoritarie di governo da quelle totalitarie). In punto di fatto, il regime fascista non è un regime totalitario, se confrontato con i regimi di Hitler e Stalin, per la semplice ragione che in esso è presente un problema che non sussiste negli altri due: la coesistenza del dittatore con altri centri potestativi controbilancianti (la monarchia, il papato). Ma sul piano della simbolizzazione, il fascismo è e si proclama totalitario. Nella prima sezione della voce Fascismo dell’Enciclopedia italiana (1932) (a firma di Mussolini ma attribuita in parte a Gentile), si sottolinea nel monopartitismo la novità storica di una forza politica «che governa totalitariamente una nazione». Nella visione fascista il significato totalitario consiste nel rapporto tra lo Stato, cui si assegna un valore assoluto (statolatria) e la nazione (la collettività umana concreta organicamente contenuta nello Stato), che il Duce incarna e nel cui nome egli agisce e trae legittimità. Da questo punto di vista, l’autorità va in sovratono: «è l’elemento fondamentale dello Stato fascista» (Antonino Pagliaro), è l’essenza della «potestà d’imperio» (Carlo Esposito). L’autorità da un lato «governa e dà forma di legge e valore di vita spirituale» (Mussolini); dall’altro «non può essere limitata se non da se stessa» (Giuseppe Maggiore). Il termine «autorità» ha un uso eulogico nel giuridicismo fascista (Carlo Costamagna), nella dottrina corporativa e soprattutto nell’apologetica mussoliniana. La glorificazione investe la figura di Mussolini e, in connessione, stante il legame Duce/Nazione, la soggezione completa interiore ed esteriore dell’uomo fascista alla volontà dell’autorità suprema. La stessa oratoria pubblica del Duce viene denominata «discorso autoritario» (Hermann Ellwanger), con un connotato di esaltazione della perentorietà e indiscutibilità della parola del Capo (si noti come tutto questo simbolismo di dominio totalitario distrugga proprio alla radice i principi liberali: la limitazione del potere politico, la valorizzazione della discussione e del libero scambio di idee).

Regime repubblicano

Nel regime repubblicano e pluripartitico successivo alla caduta del fascismo la cultura politica italiana lascia pressoché vuota la casella dell’autorità; e ciò in ragione sia della pregiudiziale antifascista, ché il ventennio di quel termine aveva abusato, sia dell’egemonia della cultura marxista, che beneficia in modo crescente della potente struttura organizzativa del Pci. Questo, nonostante il famoso saggio engelsiano, non dà rilievo alla tematica, dislocando su altri oggetti la propria semantica politica (partito, lotta di classe, rapporti tra capitalismo e istituzioni). Il concetto di autorità però – a parte la sua presenza nel tradizionalismo neofascista invocante l’aeterna auctoritas di un ordine di potere che si appropria di una tensione mistica («estrema istanza») (Julius Evola) − riaffiora nell’altro filone di pensiero che segna la storia italiana, il cattolicesimo più o meno connesso con la Dc. Qui incontriamo accostamenti assai diversi che parimenti portano alla luce certe intuizioni circa il rapporto tra l’autorità e il riconoscimento culturale del cattolicesimo politicamente rilevante: la sociologia cristiana di Luigi Sturzo, di ispirazione gelasiana (Chiesa e sfera secolare separate, ma la prima spiritualmente influente sulla seconda); la ricostruzione di storia filosofica di Augusto Del Noce, la quale elabora una critica radicale del marxismo quale dottrina imperante che converte la funzione conoscitiva della filosofia nella funzione della Rivoluzione, che è prassi e condizione dell’ateismo, quale esito della modernità figlia dell’illuminismo. Per Sturzo, l’autorità politica, distinta dalle autorità sociali (la paterna, la sacerdotale), «non è un ordine primordiale affettivo o etico», bensì la premessa che l’ordine sociale sia tale, quali che siano i suoi aspetti relazionali, etici o affettivi, economici e culturali; e «il cristianesimo cerca di informarli del suo spirito, ch’è verità e amore resi soprannaturali». Per Del Noce, che ha in mente l’autorità in genere e apprezza grandemente la visione di Capograssi, connette l’autorità con la tradizione e la verità religiosa che è metastorica. Il marxismo, sullo sfondo della secolarizzazione, è «ateismo rivoluzionario» che indica l’essere umano (il mito prometeico) e deforma l’idea di autorità, che ha «fondamento sovra-umano» riducendola all’idea secolare (e trasformatrice) di potere, negando l’eternità dell’autorità, ossia la «metafisica del primato dell’essere sul divenire». Questa negazione racchiude tutta la falsità della contrapposizione, caratteristica della filosofia della storia dell’Ottocento, tra primato della libertà (progresso, dinamica di innovazione, modernità) e primato dell’autorità (passato, Medioevo, dispotismo, immobilità); che associa l’autorità all’«immagine di una forza esteriore capace di coercizione», e la libertà come grande conquista dell’emancipazione umana. Ma al di là dello spiritualismo cattolico, una riflessione sull’autorità proviene in modo indiretto dalla cultura liberale, il cui asse portante è l’attenzione critica verso lo Stato. Con il 2 giugno (sconfitta della monarchia) sono le forze anti o extra-risorgimentali, che diventano salienti nella lotta per il potere, occupando posizioni di governo e di opposizione. Così: la cultura liberale, priva di un ruolo istituzionale e politico, va a finire nell’angolo del ripiegamento («la cultura della resa»). Si apre una fase, osserva Rosario Romeo, «non dominata dallo Stato nazionale, ma dalle forze popolari che si erano maturate in contrapposizione allo Stato cui la cultura liberaldemocratica apparteneva». Sul piano del pensiero, ciò non è privo però di ripercussioni. Da un lato, abbiamo un rinnovato interesse per la genesi del nostro Stato nazionale: continua cioè – come sottolinea Dino Cofrancesco – la grande tradizione storiografica italiana di impronta liberale (che ha il precedente illustre in Croce), i cui protagonisti di eccellenza sono ora, tra gli altri, Romeo stesso, Arturo Carlo Jemolo, Luigi Salvatorelli, i quali danno ampio spazio alla scala dei valori che sta loro a cuore. Dall’altro – ed è questo l’argomento qui pertinente −, si profila un impegno a sviscerare i nessi che congiungono il problema dell’autorità politica con quello dello Stato, anche a fronte del complicarsi delle relazioni tra Stato e cittadini.

Affronta questo impegno un primo autore proveniente dalla scuola di Torino di Gioele Solari, Alessandro Passerin d’Entrèves. Questi è un filosofo politico che rivisita la tradizione della filosofia politica (antica, medievale e moderna) al fine di mettere in luce i modi in cui si è esplicata la comprensione del concetto di Stato [La Dottrina dello Stato 1962]. D’Entrèves tuttavia non adotta a criterio della sua trattazione il criterio temporale, «la cronologia non è rispettata», bensì un criterio per problemi; e i problemi sono dati dalle prospettive lungo le quali il pensiero politico ha condotto la «figurazione» dello Stato: lo Stato ha il monopolio della «forza», e dunque può essere visto come «una forza che esiste di fatto»; ma è anche un potere associato a un ordine giuridico, e pertanto «un potere che si esplica secondo certe regole»; e infine – è il nostro punto – lo Stato può essere visto come «un’autorità che si riconosce fondata e giustificata nel suo esercizio». L’autorità è dunque, il potere politico avente il connotato di legittimità. D’Entrèves così isola «lo sforzo della speculazione filosofica»: è l’escogitare i principi di tale legittimazione; sicché l’autorità diviene il valore fondante lo Stato; e respingendo con nettezza l’identificazione tra legalità e legittimità, osserva che la legalizzazione «non può costituire l’ultima parola circa la giustificazione della forza». Nella raffinata disamina dei principi di legittimazione politica – che per d’Entrèves è l’altra faccia del problema del dare ragioni di valore per assolvere all’obbligo politico, inteso a sua volta come la domanda fondamentale della filosofia politica: «perché l’uomo deve ubbidire ad un altro uomo?» − l’autore mette in rilievo la capacità inventiva che impegna i filosofi a concepire argomenti in funzione legittimante sia in un senso procedurale sia in un senso sostantivo, sia sul piano di una divinità trascendente sia su quello esclusivamente terreno: dal valore dell’ordine, come base di convivenza pacifica e armoniosa tra gli uomini ovvero come attuatore di giustizia, anche in connessione con la «dottrina della convenzionalità», che fa dello Stato non un fine in sé, ma un mezzo per raggiungere determinati fini; al valore dell’agglomerato umano che compone la comunità politica dello Stato nazionale (nazione, patria); alle dottrine del diritto divino, scomposte in quelle che ammantano di sacralità l’autorità politica e in quelle della legittimità dinastica, come codice di trasmissione del potere del re nell’Assolutismo monarchico, ecc. Termina la disamina una riflessione che, accettando l’assunto del cognitivismo valutativo (i valori possono essere dimostrabilmente veri o falsi), propugna un principio composito di legittimazione politica che include l’etica della partecipazione, il modello civico dell’«ottimo Stato» («fondato sulla democrazia e sulla libertà») perseguente il bene comune: la «Città periclea» posta quale «realtà vera».

Ma l’autore cui dobbiamo l’analisi più approfondita e sofisticata di cui oggi disponiamo (anche a livello internazionale) è Mario Stoppino, scienziato politico, allievo diretto del liberale Bruno Leoni, fondatore della scuola di Pavia. Val la pena di dedicare un po’ più di spazio a questo autore, per capirne la ricchezza. Stoppino non solo fa i conti con i concetti di autorità che sono stati alla ribalta nel periodo vitale della politologia americana (ometto per economia di richiamare tali svolgimenti); ma anche, in tappe successive della sua ideazione teorica (qui non ricostruibile), perviene a una concettualizzazione dell’autorità politica che ha base empirica. Dal piano dei valori (e delle dottrine) della filosofia politica di d’Entrèves passiamo al piano della fattualità descritta dalla teoria di Stoppino; non più dunque una giustificazione di un ideale nell’universo dell’assiologia; ma un’offerta di conoscenza controllata, che ci può rendere consapevoli del modo specifico in cui opera l’autorità politica nel mondo della realtà.

Stoppino, prendendo anche spunto da autori amati (Max Weber, gli elitisti italiani, Bertrand de Jouvenel, Harold D. Lasswell), elabora due nozioni connesse di autorità, una larga e una stretta. La prima identifica l’autorità come potere «stabilizzato», un potere che è durevole nel tempo (sovente istituzionalizzato in ruoli coordinati). L’altra definisce autorità non tutto il potere stabilizzato, ma solo quello fondato sulla credenza nella legittimità, per cui il potere è «ritenuto» legittimo (si badi di non dimenticare il piano del discorso: la legittimità nel senso politologico non è valoriale, non implica cioè il giudizio di valore dello studioso, come è il caso in sede di filosofia politica; ma va intesa come un giudizio di fatto: la constatazione che gli attori osservati hanno certi stati della mente, che qualificano di positività il potere, il quale diventa giusto, valido, buono, approvabile). Per inciso, questa seconda nozione di autorità recepisce oltre alla lezione weberiana, anche, sempre per stare nella cultura italiana liberale, quella di Guglielmo Ferrero che, pur in modo un po’ romanzesco, riferisce comunque i principi di legittimità (chiamati i «geni della città») a una visione empirica del potere, che è fatta oggetto di narrazione storica. Ciò rilevato, va subito detto che la trattazione di Stoppino ha come snodo cruciale la collocazione dei due concetti di autorità in una teoria dello Stato (che è parte di una teoria generale della politica). Per Stoppino pensare lo Stato significa pensare a una situazione in cui opera un potere politico (potere di governo). Il problema è allora capire la politicità di questo potere. Stoppino è critico della tradizione politologica che da Weber in poi identifica il potere politico nel potere associato al monopolio della violenza (il monopolio della violenza è assente nei governi dei sistemi politici premoderni e compare solo negli Stati moderni e contemporanei di matrice europea). Di conseguenza, propone una definizione alternativa (e più generale) di potere politico, il cui criterio non è più il mezzo specifico (la violenza) che il governo impiega in modo monopolistico, ma la «funzione», quello che questo potere produce, «mette fuori». E qui troviamo il primo concetto di autorità. Il potere «politico» è tale perché «è potere garantito, sotto forma di “autorità politica”, che produce (e distribuisce) poteri, anzi poteri garantiti, sotto forma di “diritti”». Il potere (e la conformità che è correlativa al potere) assume il tratto di «garantito», se è stabilizzato nel tempo e generalizzato per un determinato campo sociale. È potere garantito l’autorità politica, rispetto alla quale la stragrande maggioranza dei membri della società è disposta in modo stabile alla conformità; e sono poteri garantiti i diritti (libertà, facoltà, potestà, spettanze) che involgono poteri e conformità durevoli e generalizzati. Il secondo concetto di autorità consente a Stoppino di fermare un ulteriore fattore di stabilità nel processo di potere. Grazie alla presenza di credenze di legittimità, i giudizi di valutazione positiva incrementano la vitalità e l’efficacia della produzione politica («il potere che produce il potere»). Queste credenze agiscono tanto dal lato dei governanti quanto da quello dei governati. Per i primi la credenza nella legittimità del proprio potere determina fede, determinazione, energia nell’esercitare il ruolo potestativo, nonché coesione e contenimento preventivo del conflitto. Per i secondi, la credenza nella legittimità ammanta di doverosità l’obbedienza e la pronta esecuzione dei comandi, generando una disposizione alla conformità, che stabilizza il potere perché diviene incondizionata.

Bibliografia

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