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Salotti

di Maria Luisa Betri

Forma particolare di socialità, modo consuetudinario di incontrarsi in un ritrovo privato nel quale la conversazione era generalmente animata e diretta da una figura femminile, la padrona di casa, il salotto rivestì un ruolo di rilievo nelle vicende del processo della «civilizzazione» tra XVIII e XX secolo: come luogo di intersezione tra «privato» e «pubblico», nella transizione dai rigidi modelli dell’antico regime a quelli più aperti del secolo borghese, esso favorì infatti il maturare di un’opinione pubblica moderna, sebbene ancora distinta dalla vera e propria sfera politica, e l’instaurarsi di nuovi e più equilibrati rapporti di genere, aprendo talora alle donne inusitati spazi di autonomia.

Per influsso dei costumi francesi, tra fine Seicento e primo Settecento,andarono diffondendosi in Italia nei ceti aristocratici luoghi di riunione modellati sui salons d’Oltralpe, alle cui «conversazioni» prendevano parte entrambi i sessi. Finita dunque la fase della «grande reclusione» domestica e conventuale che aveva caratterizzato la condizione femminile durante l’età spagnola, riacquistarono un ruolo significativo in tali contesti figure di donne colte e letterate, in grado di animare ritrovi in cui si coltivava una raffinata cultura letteraria e ove circolavano spesso nuove correnti di opinione filosofica e politica. In quei salotti letterari ispirati al modello francese e che ebbero la loro più intensa fioritura tra fine Settecento ed età napoleonica, un’élite intellettuale dall’impronta aristocratica soleva riunirsi per leggere e commentare opere di recente pubblicazione, verseggiare o ascoltare testi teatrali: così accadeva, ad esempio, a Firenze nella casa sul Lungarno di Luisa Stolberg contessa d’Albany, e a Venezia nelle sale di Isabella Teotochi Albrizzi, di Giustina Renier Michiel, di Teresa Marcello, luoghi di ritrovo, questi ultimi, nei quali allo schiudersi del XIX secolo l’aristocrazia della Serenissima sembrava quasi volersi arroccare per sottrarsi a un declino ormai inarrestabile.

Se la vicenda dei salotti settecenteschi sembra prevalentemente segnata dall’interna dialettica tra rapporti di genere e produzione letteraria, la cifra più evidente della loro parabola ottocentesca, sia pure nella diversità degli aspetti da città a città, pare invece consistere in una tendenziale contaminazione borghese di forme di socializzazione praticate quasi esclusivamente da una ristretta cerchia aristocratica e nel progressivo emergere di un linguaggio politico, declinato nelle forme del discorso nazional-patriottico e nei temi della «civile conversazione» durante l’età risorgimentale, o nei termini di una autoriflessione da parte di alcuni dei maggiori esponenti della classe dirigente nei primi decenni postunitari. Poiché la soglia d’arrivo dei salotti ottocenteschi si colloca tra la fine del secolo e i primi decenni del Novecento, con il venir meno della loro funzione mentre si andavano affermando altre forme e occasioni di socialità e si schiudevano alle donne nuovi ambiti di impegno, spesso all’insegna del filantropismo e dell’esordiente emancipazionismo.

Una frequentazione composita, di appartenenti all’aristocrazia, alla borghesia medio-alta e al mondo della cultura fu il tratto distintivo di uno dei più celebri salotti del Risorgimento, quello milanese della contessa Clara Maffei, nel quale, per oltre mezzo secolo, si diedero convegno «patrioti, letterati, artisti, stranieri illustri che, visitando la penisola, passavano per la metropoli lombarda». Apertosi alla metà degli anni Trenta in pieno clima romantico, il salotto mutò in seguito le sue iniziali propensioni mazziniane in una convinta adesione al moderatismo filo piemontese, configurandosi nel decennio di preparazione come una vera e propria «società politica e battagliera» che aveva la sua più autorevole figura di riferimento in Carlo Tenca, legato sentimentalmente alla salonnière,organizzatore culturale e animatore de «Il Crepuscolo», il periodico più importante dell’epoca.

Mentre nella fisionomia di numerosi salotti milanesi si faceva più evidente, all’indomani del 1848, la commistione tra componenti aristocratiche e borghesi, parallelamente al consolidarsi dei loro orientamenti liberali, nella variegata geografia della mondanità della Penisola permanevano isole di tenace resistenza cetuale, assai poco disposte a contaminazioni, neppure con gli esponenti più in vista del mondo della cultura. Così le ritualità degli incontri nei salotti torinesi – tra i più autorevoli quelli degli Sclopis, degli Alfieri e di Giulia di Barolo – erano strettamente riservate a una aristocrazia rigidamente tradizionalista, e soltanto negli anni Cinquanta alcune poche dimore ammisero alle loro conversazioni personalità dell’emigrazione politica e intellettuale approdate nella capitale sabauda, ove le libertà politiche e di stampa concesse dallo Statuto favorivano circolazione delle idee e dibattiti. Tra i ritrovi più frequentati quello della colta baronessa Olimpia Rossi Savio e di Laura Oliva Mancini, emigrata da Napoli con il marito Pasquale Stanislao, che fece del suo salotto un luogo di convegno dei più illustri esuli meridionali, da Francesco De Sanctis ad Antonio Scialoja.

L’eclettismo di alcune realtà non smentisce tuttavia la prevalente matrice nobiliare dei salotti di conversazione dell’età preunitaria, che generalmente traevano la loro denominazione dalla loro padrona di casa, non di rado figura di rilievo nelle vicende risorgimentali, – basti ricordare quello di Cristina di Belgioioso –, nei quali tuttavia la presenza femminile risultava rarefatta in un ambiente dalla spiccata mascolinità. Per altro verso, questi luoghi di socialità informale, sorta di «microcosmi in grado di selezionare, filtrare e diffondere tendenze e convinzioni, di creare opinione» non furono sempre aperti a istanze progressive, bensì parvero spesso conservare retaggi d’antico regime, presentando inoltre qualche significativa eccezione anche sotto il profilo della «conduzione», come nel caso di Napoli. L’impronta dei salotti che animarono la vita culturale della città partenopea, soprattutto fra i decenni Trenta e Quaranta, fu infatti marcatamente borghese e maschile: a creare una rete di luoghi d’incontro usualmente frequentati dall’intellettualità, assumendone in prima persona il ruolo di animatore, in una dimensione più all’insegna della consuetudine amichevole che della conversazione politica, fu in primo luogo il ceto delle professioni umanistiche e forensi, come accadde, fra l’altro, nelle residenze di Giuseppe de Cesare, di Carlo Troya, di Giuseppe Poerio.

All’indomani dell’Unità, nella «civiltà del salotto» sembrò accentuarsi il versante dello scambio culturale, mentre l’ampliarsi della sua «femminilizzazione» testimoniava una crescente migrazione maschile verso luoghi di incontro in cui la circolazione delle idee e i linguaggi della politica, nell’ambito del difficile processo di nation building, si articolavano in modi più liberi e informali.

Nella Milano postunitaria, tanto economicamente dinamica, quanto culturalmente vivace, nella quale il liberalismo risorgimentale aveva tessuto in alcuni palazzi nobiliari le sue trame più fitte, raccolse in un certo senso l’eredità di Clara Maffei la contessa Vittoria Cima della Scala, dama di raffinata cultura e valente pianista, nonché donna dalle moderne concezioni del ruolo femminile nel rivendicare la sua scelta del nubilato. Le stanze del suo salotto si aprirono a musicisti e letterati – tra i frequentatori, molti gli «scapigliati», e poi Verga, durante i suoi soggiorni nella capitale lombarda, Giuseppe Giacosa, Federico De Roberto –, nonché agli esponenti più in vista della nascente industria e della cultura tecnico-scientifica, quali Giovanni Battista Pirelli, Ernesto De Angeli, Giuseppe Colombo. Mentre nella Roma umbertina primeggiò il salotto di Ersilia Caetani Lovatelli, appassionata studiosa di storia antica e di archeologia, nel quale la cooptazione, strettamente subordinata all’appartenenza al mondo della cultura e sotto l’insegna del cosmopolitismo, soleva affiancare politici e diplomatici a Carducci e Fogazzaro, a D’Annunzio e Ruggero Bonghi, a Mommsen e Gregorovius, ad Anatole France e Zola. Forse uno degli ultimi salotti ottocenteschi dalle sembianze di luogo d’incontro di uomini di cultura, ma anche di convegno di molte personalità della politica, in gran parte schierate nella Destra storica, e della classe dirigente, ove quindi si discutevano ed elaboravano progetti e questioni di governo, fu quello di casa Peruzzi, in borgo dei Greci, nella Firenze degli anni in cui la città fu capitale del Regno e in quelli immediatamente successivi. Sotto l’ala protettrice di Emilia, la padrona di casa, e del patronage dell’intero circolo, il giovane Edmondo De Amicis, agli esordi dell’attività di scrittore, avrebbe completato il suo apprendistato letterario e maturato le sue scelte politiche.

Ma al cadere del secolo, nell’Italia liberale un’ampia rete di circoli, club, associazioni offriva ormai occasioni di socialità differenti da quelle pur sempre ristrette dei salotti aristocratico-borghesi; e anche l’identità di quelli che nell’età giolittiana si chiamarono salotti – si pensi, ad esempio, a quello milanese di Margherita Sarfatti – riflettevano costumi e un clima politico-culturale assai diversi da quelli del processo di civilizzazione in cui quei ritrovi, destinati ad «accogliere per stare insieme» nello svago e nel discorrere di cultura e politica, avevano svolto un ruolo di primo piano.

Bibliografia

Agulhon M., Il salotto, il circolo e il caffè. I luoghi della sociabilità nella Francia borghese (1810-1848), Donzelli,Roma 1993; Betri M.L., Brambilla E., (a cura di), Salotti e ruolo femminile in Italia tra fine Seicento e primo Novecento, Marsilio, Venezia 2004; Craveri B., La civiltà della conversazione,Adelphi, Milano 2006; Habermas J., Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Roma-Bari 1984; Malatesta M., (a cura di), Sociabilità nobiliare, sociabilità borghese, in «Cheiron», nn. 9-10, 1989; Mori M.T., Salotti. La sociabilità delle élites nell’Italia dell’Ottocento,Roma, Carocci, 2000; Palazzolo M.I., I salotti di cultura nell’Italia dell’Ottocento. Scene e modelli, Milano, FrancoAngeli, 1985; Salvati M., Il salotto,in I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita,a cura di M. Isnenghi, Laterza, Roma-Bari 1996.

Brano tratto dal "Dizionario del liberalismo italiano", edito da Rubbettino Editore. Clicca qui per acquistarlo con il 15% di sconto