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Partito radicale (età giolittiana)

di Michele Donno

Le correnti radicali, che con diversi e illustri esponenti (Agostino Bertani, Felice Cavallotti, Matteo Renato Imbriani) erano state presenti nella politica italiana postunitaria, videro diffusione e affermazione con l’avvio dell’età giolittiana. Ciò fu favorito da diverse ragioni, prima fra le quali la politica riformistica di Giovanni Giolitti, che sembrò venire incontro ad alcune delle tradizionali richieste del movimento radicale, come l’istruzione gratuita e obbligatoria (legge Orlando del 1904, poi Daneo-Credaro del 1911), la tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli (1902), lavori pubblici per ridurre la disoccupazione, soprattutto nel Mezzogiorno, pensioni e garanzie sociali per i lavoratori. Ma assieme a ciò, spinta non secondaria alla trasformazione del movimento radicale in partito politico, organizzato anche territorialmente, sarebbe giunta dalle fondazioni del Partito socialista italiano e del Partito repubblicano italiano. Le tre componenti dell’Estrema avrebbero segnato l’età giolittiana della loro presenza, anche a livello locale, con la formula politica dei «Blocchi popolari», il cui miglior esito si sarebbe avuto con l’elezione a sindaco di Roma di Ernesto Nathan (1845-1921).

«L’esito della crisi di fine secolo […] rapidamente accettato dall’intera classe dirigente, aveva eliminato un importante elemento di discordia fra il Partito radicale e la sinistra liberale […] Le robuste e profonde radici che il radicalismo di inizio Novecento affondava nel tardo positivismo e il contemporaneo dissolversi delle memorie risorgimentali, lo spingevano alla moderazione e al pragmatismo, dissuadendolo dal tentare balzi riformistici troppo ambiziosi – e quanto ai balzi rivoluzionari, meglio non pensarci nemmeno […] Per aver abbandonato la tradizione ottocentesca e aver accettato di integrarsi considerevolmente – o quasi – nelle istituzioni liberali, il radicalismo di inizio Novecento è stato giudicato piuttosto negativamente da una parte della storiografia» [Orsina 1998, pp. 237-238].

Ma il quindicennio giolittiano fa registrare una significativa attività dei radicali, a partire dalla successione di ben sei congressi nazionali e dal sostegno e partecipazione a vari ministeri succedutisi. E questo avveniva nonostante nel partito convivessero – ed alcune volte confliggessero – posizioni diverse, progressiste e moderate, che trovavano rappresentazione non solo nei diversi parlamentari, ma anche in organi di stampa, associazioni, iscritti.

Con il congresso nazionale del maggio 1904, si affermò la personalità di Ettore Sacchi (1851-1924) in dialettica divisione con Giuseppe Marcora (1841-1927) sul tema del ruolo dell’istituto monarchico; nella fase precedente al congresso, intorno ai due esponenti radicali si erano di fatto costituiti due distinti gruppi parlamentari. Sacchi, che in gioventù aveva conosciuto il socialista Leonida Bissolati, riteneva che bisognasse mantenere un forte legame con il Partito socialista, soprattutto in tema di riforme sociali. Il congresso proclamò la costituzione del Partito radicale italiano, con la contestuale riunificazione dei parlamentari radicali in un unico gruppo. Marcora veniva eletto nello stesso anno Presidente della Camera dei Deputati, avviandosi in tal modo il disegno di Giolitti di collaborazione governativa da parte della deputazione radicale. Cosa che avvenne ufficialmente nel 1906 nel primo governo Sonnino (febbraio 1906-maggio 1906) e che sarebbe continuata con il terzo governo Giolitti (maggio 1906-dicembre 1909), con il governo Luzzatti (marzo 1910-marzo 1911), con il quarto governo Giolitti (marzo 1911-marzo 1914), nei quali Sacchi fu ministro di Grazia, Giustizia e Culti (Sonnino), poi ministro dei Lavori Pubblici (Luzzatti, Giolitti IV); mentre Luigi Credaro (1860-1939) fu ministro della Pubblica Istruzione (Luzzatti, Giolitti IV); Francesco Saverio Nitti (1868-1953), ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio (Giolitti IV).

Da non dimenticare poi che l’attività politica e culturale di Antonio De Viti De Marco (1858-1943), deputato radicale nel 1901, fu di grande rilievo in questo periodo, traducendosi fra l’altro nella fondazione della Lega antiprotezionista.

I radicali diedero vita a un partito con una struttura centrale cui faceva riscontro un’organizzazione periferica piuttosto estesa formata da associazioni comunali, associazioni provinciali e successivamente dalle federazioni regionali dotate di larga autonomia rispetto al centro. In altre parole, dall’esame dei dibattiti teorici e della prassi politica dei radicali emerge chiaramente come essi diedero vita a un partito relativamente povero al centro ma ricco di risorse in periferia, grazie anche al sostegno della Massoneria, e fiancheggiato da una stampa molto attiva e diffusa.

Nell’applicazione delle linee politiche e programmatiche decise nei congressi (secondo congresso a Roma, giugno 1905; terzo a Bologna, maggio-giugno 1907; quarto a Roma, novembre-dicembre 1909; quinto a Roma, novembre 1912; sesto a Roma, gennaio-febbraio 1914) i parlamentari radicali garantivano, comunque, un’azione sempre più efficace rispetto a quella svolta dagli organismi periferici. Lo statuto del 1904 non prevedeva né procedure né sanzioni a tutela della disciplina di partito: il Partito radicale non era forte abbastanza per esercitare un ruolo determinante nell’elezione dei propri deputati, ai quali, per questa ragione, riusciva soltanto entro evidenti limiti di imporre una certa disciplina. Disciplina di partito che non poteva essere imposta sia perché la legge elettorale con sistema uninominale a doppio turno rendeva necessarie alleanze locali spesso in contrasto con le strategie nazionali sia perché la forza d’attrazione del governo era spesso tale da non consentire ai singoli parlamentari di sottrarsi al suo richiamo. Nelle scelte fondamentali, tuttavia, in particolare quando si trattava di decidere se schierarsi all’opposizione o al governo, la deputazione radicale, nella sua maggioranza, rispettò quasi sempre gli orientamenti assunti dagli organi dirigenti del partito.

Durante la XXII legislatura (novembre 1904-febbraio 1909; nelle elezioni del 1904 i radicali ottennero nel Regno il 9,58 per cento dei voti con 44 eletti) le votazioni parlamentari che generarono maggiori controversie in seno al gruppo radicale furono quelle sulle spese militari, fino a quando, nel 1908, i radicali non ne approvarono l’incremento. All’inizio del 1905 i deputati radicali votarono abbastanza compatti contro il governo Tittoni e, nel febbraio 1906, contro il governo Fortis, del quale alcuni di loro erano comunque entrati a far parte. Nel 1906 il gruppo si divise in occasione del voto che portò il governo Sonnino alle dimissioni e del successivo voto di fiducia al terzo gabinetto Giolitti. Dopo le elezioni che aprirono la XXIII legislatura (marzo 1909-settembre 1913; nelle elezioni del 1909 i radicali ottennero nel Regno il 11,19 per cento dei voti con 52 eletti), quasi tutti i radicali votarono contro i governi Giolitti nel 1909 e Sonnino nel 1911. All’inizio della XXIV legislatura (novembre 1913-settembre 1919; nelle elezioni del 1913 i radicali ottennero nel Regno il 12,71 per cento dei voti con 75 eletti), con l’inasprirsi del dibattito sulla permanenza al governo, i radicali si divisero in occasione del voto di fiducia al governo Giolitti del 1913, mentre furono più uniti nel respingere la fiducia al gabinetto Salandra nel 1914.

Dal raffronto dei dati sul reclutamento degli iscritti, sul numero delle sezioni e sui voti riportati nelle elezioni del 1904, 1909 e 1913 si ricava la conclusione che l’efficienza del partito a livello elettorale risultava potenziata quando i candidati si presentavano nell’ambito di «alleanze popolari», come avvenne nel 1909. Molto interessante, ancora, risulta l’analisi della geografia del radicalismo italiano, dalla quale si comprende che il Partito radicale agli inizi del Novecento era meglio organizzato al Nord e nel Centro della penisola. Verso la fine dell’età giolittiana questa situazione si venne però modificando e si verificò un aumento delle sezioni e degli iscritti nel Mezzogiorno; più in generale, nel 1912, le sezioni del Partito radicale nel Regno risultavano essere 129 mentre il numero degli iscritti sarebbe tendenzialmente cresciuto fino a raggiungere, nel 1914, 5885 adesioni. Cifre queste ultime che spiegano l’ottimo risultato riportato nelle elezioni del 1913 in termini sia di voti che di eletti: la rappresentanza nazionale, infatti, risultò quadruplicata, superando i settanta parlamentari.

Analizzando a campione le caratteristiche sociologiche e socio-professionali degli iscritti, dei delegati ai congressi e dei parlamentari radicali si può giungere alla conclusione che l’aspirazione del Partito radicale fosse quella di rappresentare il «partito dei ceti medi». È possibile, inoltre, riscontrare una coerenza complessiva nella maggioranza dei dirigenti radicali tra comportamento politico, cultura e ideologia di riferimento: vi era la generale convinzione che lo Stato dovesse essere democratico, mirare all’interesse nazionale e mantenersi imparziale nella dialettica fra le classi; che la politica avesse il compito di non sconvolgere ma di trasformare con moderazione la realtà sociale; che l’istruzione e l’educazione avrebbero «naturalmente» favorito un serio processo riformistico.

Sul fronte delle questioni internazionali, la maggioranza dei radicali era sostenitrice di politiche di collaborazione internazionale e di sostegno della pace, anche se riteneva che l’Italia avesse il dovere di tutelare i propri interessi legittimi e le proprie aspirazioni. La guerra di Libia, quindi, non rappresentò per il Partito radicale, a differenza dei socialisti, motivo di contrasto con Giolitti.

Le difficoltà nel rapporto con l’«uomo di Dronero» furono dovute principalmente alla varia eterogeneità del movimento e nel Partito radicale, in cui vivevano posizioni e strategie politiche spesso molto differenti fra loro, che si riproducevano anche negli organismi territoriali (i più importanti fra i quali: l’Associazione democratica cremonese, l’Unione radicale fiorentina, l’Unione popolare napoletana, il Circolo radicale di Palermo, la Società democratica lombarda di Milano, l’Unione democratica romana, l’Associazione radicale subalpina di Torino), così come fra gli iscritti e i periodici (fra i quali: «Il Radicale» a Napoli, «La Democrazia» a Cremona, la «Firenze Nuova», «La Nuova Età» a Marsala, «L’Appennino» ad Arezzo, «Il Foglietto» a Lucera, «Il Rinnovamento» a Caltanissetta), spesso in dissonanza con l’azione dei parlamentari radicali. Cosicché, più in generale, la cultura politica di Giolitti – nonostante l’intervento del governo nelle tornate elettorali, la formazione delle maggioranze parlamentari su base personale, la concezione della politica quale mera mediazione fra interessi consolidati – non fu affatto distante da quella della maggior parte degli esponenti radicali. Su alcuni temi, infatti, «le posizioni dei radicali coincisero in maniera piena e perfetta con quelle dello statista piemontese sul terreno che forse più di ogni altro ha qualificato la politica giolittiana: la condanna delle repressioni di fine secolo e l’apertura delle istituzioni liberali ai ceti e alle forze politiche che fino a quel momento ne erano stati esclusi» [Orsina 1998, p. 244].

Sulla riforma elettorale del 1912 si realizzò, infatti, una convergenza fra i radicali e Giolitti. Il timore che l’estensione del suffragio elettorale anche a masse non acculturate potesse consegnarle alla Chiesa, era superato con la strategia politica rivolta all’istruzione di base e popolare. Da ciò il forte impegno nel settore, tradottosi nell’importante legge Daneo-Credaro sull’istruzione obbligatoria e l’avocazione della scuola allo Stato.

E tuttavia il patto Gentiloni, l’alleanza di Giolitti con i cattolici alle elezioni generali del 1913, finì per approfondire le divisioni interne nel Partito radicale, fra la componente «governativa», accusata di subalternità a Giolitti, e quella radicosociale, che in Massimo Fovel (1880-1939) aveva il più impegnato esponente. La crisi del giolittismo, quindi, si accompagnò a una crisi altrettanto profonda nel Partito radicale, che, di fronte al primo conflitto mondiale, portò a conclusione la sua interna dicotomia fra posizioni politiche e culturali, con una dura polemica sull’intervento in guerra.

Bibliografia

Colapietra R., Felice Cavallotti e la democrazia radicale in Italia, Morcelliana, Brescia 1966; Galante Garrone A., I radicali in Italia (1849-1925), Garzanti, Milano 1973; Carpanetto D., Radicalismo, in F. Levi, U. Levra, N. Tranfaglia, (a cura di), Storia d’Italia, La Nuova Italia, Firenze 1978; Cardelli C., Radicali ieri. Dall’unità al fascismo, Istituto propaganda libraria, Milano 1992; Mana E., La democrazia radicale italiana tra politica e società civile, in “Studi Storici”, 1994; Orsina G., Senza Chiesa né classe. Il partito radicale nell’età giolittiana, Carocci, Roma 1998.

Brano tratto dal "Dizionario del liberalismo italiano", edito da Rubbettino Editore. Clicca qui per acquistarlo con il 15% di sconto