Ordine politico liberale
di Angelo Panebianco
Mettere in relazione il tema della libertà e quello dell’ordine politico richiede una preliminare definizione di quest’ultimo e di concetti affini, come sistema politico, regime politico, stato. Per ordine politico si può intendere un particolare modo di coordinamento fra attori sociali, coercitivamente garantito, che permette interazioni stabili e ripetute fra quegli stessi attori. Esso conferisce prevedibilità ai rapporti fra gli attori sociali.
Seguendo David Hume (1739), è possibile identificare nella protezione dalla violenza, nella stabilità dei possessi e nel mantenimento delle promesse (pacta sunt servanda), le fondamentali condizioni in assenza delle quali nessun ordine societario è possibile. Ciò che qualifica come politico tale ordine è la presenza di meccanismi coercitivi: le fondamentali condizioni dell’ordine sono garantite in ultima istanza dalla possibilità del ricorso alla coercizione fisica contro coloro che le minacciano.
Nell’ordine politico è possibile identificare una dimensione istituzionale e una morale, o di principio [Matteucci 1984]. Le modalità di coordinamento fra gli attori sociali sono assicurate da un insieme di istituzioni che definiscono le regole a cui gli attori devono attenersi nei rapporti reciproci e con le pubbliche autorità. Al tempo stesso, deve esistere un principio ispiratore, un valore, o un insieme di valori, che giustifica l’esercizio dell’autorità, la particolare forma assunta dalle istituzioni, le particolari regole che presiedono al coordinamento fra gli attori sociali. Seguendo Gaetano Mosca (1922) possiamo definire «formula politica» tale principio ispiratore. Definiamo «regime politico» la particolare combinazione di istituzioni politiche e formula politica [Lasswell, Kaplan 1950].
L’ordine politico non è mai autosufficiente. Nel senso che non è possibile identificarne le caratteristiche senza indagare le sue relazioni con l’economia e con le prevalenti tradizioni culturali.
Pertanto, esso ha un significato più ampio di quello che di solito viene riservato al termine «stato» Quest’ultimo indica un’organizzazione, distinta da famiglie e gruppi parentali, che esercita il potere coattivo all’interno di un territorio delimitato [Tilly 1991; Poggi 1992].
Per «sistema politico» si intende abitualmente un insieme di ruoli politici caratterizzato da elevata interdipendenza fra le parti che lo compongono e da confini che lo separano dall’ambiente esterno, e specializzato, secondo la celebre definizione di David Easton (1965) nella «distribuzione imperativa» di valori (ossia, di risorse scarse). A differenza dei concetti di ordine politico, regime politico e stato, quello di «sistema politico», ancorché molto utilizzato nella letteratura politologica contemporanea, appare poco fecondo. Nemmeno le formulazioni più raffinate e rigorose [Easton 1953; 1965; Almond e Powell 1966] lo hanno liberato dall’ambiguità: nella versione «forte» (propria della Teoria Generale dei Sistemi o del funzionalismo sociologico) mantiene una assai poco plausibile connotazione olistica; nella versione «debole» rischia di essere solo un sinonimo di Stato.
Che cosa è un ordine politico liberale? È un particolare tipo di ordine politico nel quale l’esigenza di prevedibilità dei rapporti sociali e la garanzia ultima della coercizione si conciliano con la presenza di condizioni favorevoli alla libertà individuale. Un ordine politico liberale è un ordine fondato su un compromesso: la libertà individuale è garantita ma incontra due limiti. Non può essere spinta al punto di mettere a rischio la libertà degli altri e, soprattutto, le sue manifestazioni non possono minacciare la sopravvivenza dell’ordine politico. In un ordine politico liberale, la libertà è una libertà «regolata» (disciplinata dalle leggi). Ma poiché la regolazione della libertà rischia continuamente di soffocarla, ne deriva una permanente tensione che è propria dell’ordine politico liberale e che lo differenzia da altri tipi di ordine politico.
Perché si dia un ordine politico liberale non basta che il regime politico abbia caratteristiche liberali. Occorre anche che siano presenti certe condizioni economiche e culturali.
Non c’è ordine politico liberale, in primo luogo, senza economia di mercato. Il mercato è una necessaria, ancorché non sufficiente, condizione di sussistenza dell’ordine politico liberale.
A sua volta fondato sul riconoscimento legale della proprietà privata, il mercato è una istituzione generatrice di risorse che intacca e, almeno in linea di principio, limita il potere coattivo dei detentori dell’autorità statale [Hayek 1960]. Grazie al mercato entra nella disponibilità privata di una pluralità di attori sociali un insieme di risorse che li rendono non dipendenti dallo stato. Il mercato, se lasciato libero di funzionare, favorisce la formazione di gruppi sociali (imprenditori, mercanti, lavoratori autonomi) che hanno interesse a limitare il potere intrusivo dello stato e cercano di esercitare una influenza tesa a limitarlo. Se non c’è un libero mercato, se le risorse economiche sono controllate dallo stato, l’ordine politico liberale è impossibile. Una classe media indipendente (il cui reddito non dipende dallo stato) è, sociologicamente, il frutto principale dello sviluppo dell’economia di mercato e, politicamente, una barriera difensiva della libertà a fronte delle ricorrenti tentazioni tiranniche dei detentori dell’autorità statale.
Ordini politici liberali si affermarono in Europa prima che altrove. Una delle ragioni ha probabilmente a che fare con la circostanza che in Europa, a differenza di altre zone del mondo, lo sviluppo delle città mercantili (grazie alla rinascita economica dell’XI secolo) precedette la formazione degli stati. In Europa, i sovrani impegnati nella costruzione degli stati, dovettero venire a patti con i mercanti urbani e fare concessioni (in termini fiscali, di protezione dei commerci, di garanzie per la proprietà privata) che favorirono l’ulteriore sviluppo dei mercati.
L’ordine politico liberale è sempre a rischio quando lo stato (per esempio, a causa di lunghe e costose guerre) espande il proprio controllo sull’economia. In questi casi possono formarsi aree più o meno ampie di «capitalismo politico» [Weber 1922], di capitalismo in simbiosi con lo stato, che finisce per minacciare le libertà individuali.
Anche in un ordine politico liberale lo stato è tenuto a svolgere funzioni (regolative e di controllo) che servono a garantire il corretto svolgimento delle attività di mercato: occorrono tribunali funzionanti per sanzionare gli abusi contro la proprietà privata; occorrono controlli statali che assicurino il trasparente funzionamento delle Borse e di altre istituzioni economiche, occorre, soprattutto, che lo stato esplichi la sua azione di protezione per garantire la sicurezza degli scambi.
Ma il confine che separa i necessari interventi dello stato a favore del mercato dalla patologica espansione statale ai danni del mercato è un confine sottile e tante volte attraversato. Come mostrano, in Occidente, sia la storia della fiscalità che quella dei debiti pubblici [Ferguson 2001], ossia dei due più importanti punti di intersezione fra stato e mercato. Soprattutto per questo gli ordini politici liberali sono, nella storia, rari e, per lo più, precari.
Oltre che sull’economia di mercato un ordine politico liberale si fonda su, e trae nutrimento da, certe condizioni culturali. La fondamentale condizione è data da una tradizione culturale che incoraggi, o quanto meno non scoraggi, l’affermazione di un processo di «individualizzazione» [Panebianco 2007].
La libertà individuale poggia su una concezione antropologica che afferma la centralità culturale, sociale e politica, dell’individuo. È l’individuo singolo (e non la stirpe o il clan) il soggetto morale fondamentale, titolare di responsabilità e, quindi, potenzialmente, di diritti. Senza individualizzazione un ordine politico liberale può difficilmente affermarsi. Sono le tradizioni religiose a facilitare o ad ostacolare il processo di individualizzazione. Condizione necessaria, ma non sufficiente, è che la tradizione religiosa sia tale da lasciare spazio alla separazione (il che apre la strada a possibili conflitti) fra potere religioso e potere secolare. In Occidente, per le sue caratteristiche, il cristianesimo, sia pure attraverso processi lunghi e tortuosi, ha favorito l’individualizzazione. Altre tradizioni religiose sembrano più resistenti. La possibilità di affermazione di ordini politici liberali fuori dal mondo occidentale può dipendere in larga misura dalla forza di attrazione che le società occidentali esercitano e dal successo di processi imitativi e di adattamento delle locali tradizioni culturali (religiose, in primo luogo) alle esigenze della società libera.
Per la stabilità dell’ordine politico liberale, tuttavia, (come intuì Alexis de Tocqueville) i processi di individualizzazione sono armi a doppio taglio. Lo favoriscono quando danno vita a una intensa e libera vita associativa. Ne mettono a repentaglio la sopravvivenza quando si associano a forme di radicale atomizzazione sociale sfruttabili da potenziali costruttori di ordini illiberali.
Il regime politico liberale sta all’ordine politico liberale come la parte sta al tutto. Si compone della formula politica e delle istituzioni politiche volte a garantire, nella pratica quotidiana, il compromesso fra le esigenze della libertà individuale e quelle dell’ordine.
La formula politica liberale è un insieme di principi di libertà che affonda le radici nella storia del liberalismo classico (da John Locke in poi) e delle rivoluzioni costituzionali sette-ottocentesche. Si compone di un grappolo di diritti di libertà non negoziabili (l’impronta del giusnaturalismo della prima età moderna è tuttora riconoscibile nelle elencazioni di quei diritti) e dell’indicazione del principale mezzo utile per garantirli: il governo limitato. Si può dire che la formula politica propria dei regimi liberali è contenuta nel costituzionalismo classico sette-ottocentesco (mentre gli sviluppi costituzionali del XX secolo se ne sono talora allontanati).
Le istituzioni liberali sono volte a conciliare (in genere, in un difficile e precario compromesso) le esigenze di governabilità e le esigenze di libertà, l’efficacia dell’azione di governo e la protezione dei diritti di libertà. Le istituzioni liberali vanno tenute distinte dalla «democrazia». In linea di principio, possono darsi regimi liberali non democratici e regimi democratici illiberali. La formula «liberaldemocrazia», frequentemente usata per indicare i regimi politici occidentali post Seconda guerra mondiale, oscura i termini del problema anziché chiarirli. Lascia intendere che istituzioni democratiche e istituzioni liberali abbiano trovato modo di fondersi armonicamente. Ma ciò non è vero. La cosiddetta liberaldemocrazia è in realtà un campo di tensioni ove esigenze liberali e esigenze democratiche entrano continuamente in conflitto. La democrazia, sub specie volontà delle maggioranze, spesso arriva a calpestare i diritti individuali di libertà. È vero il fatto, d’altra parte, che, storicamente, la democrazia si è rivelata un habitat politico molto più favorevole al mantenimento delle istituzioni di libertà rispetto alle autocrazie. Quello fra istituzioni liberali e democrazia va quindi considerato un matrimonio di convenienza, segnato da tensioni e conflitti permanenti.
In un ordine politico liberale i poteri del governo sono limitati. In assenza di vincoli e limiti, i governi possono fare uso delle risorse coercitive di cui dispongono per soffocare le libertà degli individui. La natura dei vincoli e dei limiti dipende dalle particolari caratteristiche di ciascun regime politico liberale. Storicamente, si sono date molte variazioni. I limiti al potere del governo possono dipendere da due fondamentali istituzioni: la rule of law (nella variante europeo-continentale: lo stato di diritto) e la divisione del potere. Corrispondono ai due fondamentali tipi di sviluppi costituzionali conosciuti dall’Occidente moderno: il costituzionalismo della legge e il costituzionalismo della bilancia [Manin 1989; Panebianco 2004].
Secondo il costituzionalismo della legge, il potere del governo può essere limitato solo da norme giuridiche (costituzionali). Secondo il costituzionalismo della bilancia, esso può essere limitato solo da una sua suddivisione in centri di poteri concorrenziali. Nella tradizione europeo-continentale ha prevalso il costituzionalismo della legge. Si è assunto che legge costituzionale e stato di diritto fossero sufficienti per vincolare il governo, per impedirne le degenerazioni tiranniche. Tipica della tradizione anglosassone è invece una combinazione di costituzionalismo della bilancia e di costituzionalismo della legge.
Nell’Europa continentale, influenzata, dall’Ottocento in poi, dal positivismo giuridico, è lo «stato di diritto» il baluardo, il garante in ultima istanza, contro le potenziali azioni illiberali del governo. Lo stato di diritto, però, non nasce come istituzione liberale. Esso è un tardo prodotto dell’assolutismo. A seguito delle rivoluzioni liberali deve piegarsi alle esigenze dello stato liberal- costituzionale. Ma la limitazione del potere del governo esercitata dallo stato di diritto sarà debole e imperfetta. La democratizzazione delle società europee nel corso dell’Ottocento e del Novecento, molto spesso, indebolirà la capacità delle norme giuridiche di vincolare e limitare i poteri dei governi.
Il costituzionalismo della bilancia, tipico della tradizione anglosassone (ma con due principali varianti: britannica e statunitense) si ispira a una differente filosofia. Assume che solo dividendo il potere del governo ci si possa garantire contro i suoi potenziali abusi. La divisione del potere va tenuta distinta dalla tradizionale separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) con cui sovente la si confonde. Consiste nella costruzione di meccanismi di «pesi e contrappesi» che rendano concorrenziali i diversi centri del potere politico. Nella costituzione britannica (dell’età pre-democratica), la divisione del potere metteva in concorrenza le prerogative del sovrano, della Camera dei Lord e della Camera dei Comuni. Nella tradizione statunitense, alla divisione del potere «orizzontale» (presidente, congresso, corte suprema) si somma la divisione del potere «verticale» (il federalismo).
Ma il regime politico liberale non limita il potere del governo solo per via costituzionale. È tipica di tale regime anche la presenza di una pluralità di organizzazioni indipendenti sia di natura politica (i partiti politici che competono per il potere di governo, i gruppi di interesse che cercano di influenzare le scelte dei governi e gli atteggiamenti delle opposizioni parlamentari) sia di natura extrapolitica (Chiese, imprese, libere associazioni) che fanno dell’arena politica un luogo di permanente contrattazione e di continui compromessi e che, con la loro attività, vincolano e limitano la discrezionalità e i margini di manovra dei governi.
I regimi politici liberali possono essere diversi fra loro: le istituzioni che li caratterizzano possono variare. Ma la limitazione del potere del governo (quale che siano i mezzi messi in campo per ottenerla) è la fondamentale, indispensabile, caratteristica di tali regimi.
Il grado di limitazione dei poteri del governo varia da regime liberale a regime liberale e, inoltre, varia in ragione delle particolari condizioni storiche vigenti. Nel XX secolo, ad esempio, la democratizzazione ha determinato l’ampliamento dei poteri dei governi: i sistemi di welfare state, l’espansione della spesa pubblica, hanno in molti casi allentato i vincoli che il costituzionalismo liberale classico imponeva ai governi. Inoltre, i limiti al potere del governo variano in funzione delle sfide e delle minacce all’ordine politico. Ad esempio, le guerre, o le minacce di sovversione interna, sono state tradizionalmente causa di ampliamenti del potere dei governi a scapito delle libertà. Non sempre la fine della minaccia ha poi favorito una contrazione dei poteri del governo tale da restaurare l’equilibrio originario.
Rientra il caso dell’Italia, per la sua storia e le sue istituzioni, nell’ambito delle società rette da un ordine politico liberale? Non si può dare una risposta netta. Per un verso, l’Italia rientra in quell’ambito per il fatto stesso della sua appartenenza al «club» delle società occidentali. Il suo regime democratico è temperato dalla presenza del governo limitato e, dal punto di vista strettamente formale, esso tutela le libertà individuali. Inoltre, l’Italia possiede una solida economia di mercato, benché oberata da molti vincoli politici e burocratici. Per un altro verso, però, la sua caratura liberale è dubbia o incerta. La costituzione repubblicana mescola tratti «liberali» e tratti «socialisti» ma con un dosaggio squilibrato a favore di questi ultimi. L’Italia è, secondo il primo articolo della costituzione, una repubblica «fondata sul lavoro». Questa formula, espressione delle culture politiche rappresentate nella Assemblea costituente, chiarisce che il valore della libertà non è il primo che la costituzione italiana intende affermare. Altrettanto indicativo è il fatto che la tutela della proprietà privata non rientri fra i diritti fondamentali di libertà che la costituzione tutela. La proprietà privata è invece collocata nella categoria, tutta italiana, dell’«interesse legittimo», in quanto tale sempre esposta agli interventi discrezionali dell’amministrazione statale.
Nata nella fase iniziale della guerra fredda, da un compromesso fra comunisti, socialisti e cattolici, la costituzione italiana porta le tracce di quella congiuntura storica. Si trattava, quando venne varata, di una costituzione «a doppia faccia». Poteva adattarsi, sia pure con difficoltà e con molte anomalie, a uno sviluppo politico dell’Italia di tipo «liberal-occidentale» (come in effetti avvenne, a seguito della sconfitta del Fronte popolare nelle elezioni politiche del 1948) che a uno sviluppo del tipo «democrazia popolare» (che ci sarebbe stato se il Fronte avesse vinto).
Molti altri aspetti testimoniano della debolezza dell’ordine politico liberale. Lo attesta il fatto che i rapporti fra cittadini e pubblica amministrazione siano tradizionalmente squilibrati a favore di quest’ultima, che il tasso di arbitrarietà nei comportamenti dell’amministrazione sia sempre elevato. Lo testimoniano il ruolo massiccio che lo stato ha sempre svolto nei processi economici con pesanti e continue distorsioni dei meccanismi di mercato, nonché le patologie, antiche e mai risolte, della cittadinanza fiscale. Lo attesta, ancora, il funzionamento della giustizia, sia civile che penale. Sul piano civile, la lunghezza dei procedimenti giudiziari crea incertezza e aleatorietà nell’esercizio dei diritti di proprietà e nelle transazioni economiche private. Sul piano penale, un sistema giudiziario caratterizzato dall’unità delle carriere (del giudice e del pubblico ministero) indebolisce il principio liberale della terzietà del giudice mentre i grandi poteri discrezionali, privi di solidi contrappesi interni all’ordinamento, dei pubblici ministeri [Guarnieri, Pederzoli 1997], e lo squilibrio che ne risulta nei rapporti fra accusa e difesa, indeboliscono le garanzie degli indagati e degli imputati e creano gravi lesioni in fondamentali istituti liberali come l’habeas corpus o il principio di non- colpevolezza fino a condanna definitiva. La scarsa presenza di anticorpi culturali, il fatto che nelle élites del Paese siano deboli e minoritari gli atteggiamenti garantisti, rafforza i tratti illiberali del nostro sistema di giustizia.
Nonostante più di mezzo secolo di vita repubblicana, inoltre, restano molto forti le corporazioni e centrali, nei processi decisionali, gli interessi corporativi. Ciò spiega la sopravvivenza di ampi mercati protetti, al riparo dalla concorrenza. Il mancato superamento del dualismo Nord/Sud ha, certamente, molte cause ma mercati protetti e uso massiccio della spesa pubblica nel Mezzogiorno per fini di consenso elettorale sono fra le più importanti. La società corporativa, per sua natura, si concilia poco e male con l’ordine politico liberale.
Bibliografia
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