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Nittismo

di Paolo Varvaro

La definizione di nittismo rimanda all’influenza esercitata sulla politica italiana da Francesco Saverio Nitti (1868-1953) oltre che, ma in misura secondaria e talora equivoca, alla presenza organizzata di un gruppo di suoi seguaci e sodali. A differenza dei principali esponenti del liberalismo otto-novecentesco, Nitti non basò le proprie fortune politiche sull’organizzazione di un apparato politico-elettorale (a causa tra l’altro di un sicuro radicamento nel collegio lucano d’origine), ma soprattutto non rinunciò mai a considerare l’attività politica come una sfera correlata alla sua attività di ricerca. Egli contribuiva perciò alla vita pubblica nella condizione di studioso prestato ai più alti incarichi pubblici, il che gli impediva di cristallizzare il suo pensiero su poche idee classificabili ideologicamente, consentendogli di modificare le proprie prospettive al continuo mutare delle circostanze storiche. Cosicché, se nel linguaggio corrente risulta persino scontato il riferimento a una categoria “nittiana”, in un’accezione più propriamente storico-politica l’uso di una simile categoria è da considerarsi il più delle volte improprio.

In termini più precisi il nittismo viene identificato con una politica di sviluppo industriale sostenuta dall’apporto di capitali pubblici che ha tra i suoi capisaldi la proposta di nazionalizzazione dell’energia elettrica del 1903; la legge speciale per l’incremento industriale di Napoli dell’anno successivo; una serie di interventi predisposti da Nitti come ministro dell’Agricoltura a sostegno del mondo del lavoro, tra cui soprattutto la creazione dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni; il rafforzamento del ruolo di gestione economica dei capitali pubblici negli anni cruciali tra la prima guerra mondiale e il dopoguerra, nei quali Nitti assunse il dicastero del Tesoro nel gabinetto Orlando e quindi, tra il ’19 e il ’20 la guida stessa del governo. Alcuni elementi di fondo conferiscono un senso unitario a una molteplicità di iniziative indubbiamente scollegate dalla specifica contingenza storica e da congiunture economiche internazionali assai poco comparabili. Ma il legame è rafforzato dalla presenza dei medesimi collaboratori per ciascuna di queste iniziative, al punto da legittimare l’individuazione di un personale amministrativo nittiano che da inizio Novecento e sino al secondo dopoguerra condizionerà senza soluzioni di continuità la gestione dell’economia pubblica italiana.

Tra i diversi nomi che ritornano con una certa insistenza, i più significativi sono quelli di Vincenzo Giuffrida e di Alberto Beneduce. Il primo è stato capo-gabinetto di Nitti all’Agricoltura nel 1911 e suo stretto collaboratore nelle successive stagioni di governo, mentre il secondo, originariamente funzionario del ministero dell’Agricoltura, veniva designato dal ministro in carica alla presidenza dell’Ina, prima tappa di una inarrestabile ascesa ai posti di controllo dell’economia nazionale. Non si tratta solamente di due stretti collaboratori, ma degli esponenti più autorevoli di una giovane leva di grands commis d’Etat che incarna la quintessenza del nittismo. Una caratteristica è costituita dall’osmosi tra l’amministrazione e la politica, che in momenti diversi accomuna anche altri personaggi iscrivibili a inizio secolo all’orbita nittiana (Roberto De Vito, Meuccio Ruini, Arrigo Serpieri). Sia Beneduce che Giuffrida ricoprirono incarichi di governo nel ’21 con Bonomi, in un dicastero polemicamente avversato da Nitti: Giuffrida come ministro delle Poste, Beneduce al Lavoro e alla Previdenza sociale. Ma la successiva evoluzione di quasi tutte le carriere politico-amministrative dei nittiani è così significativa da suggerire una riflessione sulle scansioni temporali della politica di Nitti.

Egli entra alla Camera nel 1904 e diventa ministro solamente nell’11, quando è già da tempo un personaggio di primo piano del dibattito politico per il risalto della sua produzione scientifica (Nord e Sud era stato pubblicato nel 1900) e il vigore delle polemiche che riesce a suscitare. Questa circostanza contribuisce a rafforzare un approccio alla politica intesa come laboratorio per elaborazioni teoriche non confinate in orizzonti ristretti. All’alba del XX secolo il tema delle risorse energetiche diventa centrale nella determinazione di nuove opportunità di sviluppo industriale, incoraggiate dalla più favorevole congiuntura internazionale:

Ora se lo Stato producesse la forza al massimo buon mercato possibile e la vendesse al prezzo di costo, agirebbe come ha agito costruendo strade; non solo non socializzerebbe l’industria, ma le permetterebbe di seguire un processo inverso. È infatti notevole la trasformazione che si va compiendo.

Lo spunto contenuto in un discorso ai giovani costituisce il filo conduttore di una campagna che finirà con trovare approdo nel riformismo industrialista di Giolitti, senza mai raccordarsi completamente con quella visione governativa, ma verificando senz’altro con essa più di un punto di intesa e di proficua collaborazione. Tra il liberalismo empirico di Giolitti e il radicalismo meridionalista di Nitti l’elemento di tensione sembra consistere, piuttosto che in una più elastica spinta del secondo a favore dell’azione pubblica rispetto all’iniziativa privata, proprio nel costante zelo riposto dallo studioso lucano nel delimitare gli ambiti di esercizio dell’attività pubblica rispetto alla sfera privata, in uno sforzo di salvaguardia dei punti cardinali della teoria liberale destinato a porlo in costante attrito non soltanto con possibili oscillazioni di ambito governativo, ma anche con la successiva filosofia d’azione dei diversi e più o meno accreditati epigoni del nittismo.

Nella sua elaborazione iniziale il nittismo è così un riadattamento delle teorie liberali ai ritmi del moderno sviluppo industriale, con evidenti influenze del pensiero di Giustino Fortunato nell’inflessione antistatalista nei riguardi di protezionismo e parassitismo dei ceti dominanti e una autentica fobia per la burocrazia di Stato, che lo porterà nel tempo a concepire un nuovo modello di ente pubblico. Già nella legge speciale per Napoli del 1904, impostata da Nitti per conto del governo Giolitti, la pubblicizzazione delle fonti idriche veniva data in affidamento a un ente speciale, al fine di sottrarla alle voraci influenze della macchina comunale. Da un orizzonte meridionalista si cominciava così a concepire l’esigenza di dotare l’economia nazionale di una propria capacità propulsiva, in grado di favorire una diffusione capillare della ricchezza e di liberare lo Stato dai vincoli derivanti dagli interessi dei monopoli privati e dalle inefficienze degli apparati pubblici.

La realizzazione delle idee nittiane discendeva da un’assimilazione non scolastica di alcuni stimoli provenienti dal socialismo di cattedra, rimodellati ora sul terreno fertile dell’Italia di inizio secolo, attraversata da una crescente fiducia riposta nelle sorti del progresso industriale. Pur rifiutando la negazione del diritto di proprietà, Nitti prospettava l’adozione di una giustizia distributiva mediante un intervento dello Stato mirato su questioni di utilità sociale. Derivava da qui, per esempio, la sua idea dei monopoli fiscali, al fine di assicurare un equilibrio sul mercato dei prezzi e un supporto all’intero comparto produttivo, come nel caso della proposta di un monopolio statale del petrolio: «la finanza dell’avvenire dichiarava alla Camera il 16 marzo del 1907 si baserà appunto su grandi monopoli di Stato e sopra alcune grandi imposte generali sul reddito».

Alla luce di queste premesse appaiono poco centrate le polemiche sollevate in occasione della sua nomina nel quarto governo Giolitti con il compito di realizzare il monopolio per le assicurazioni sulla vita, motivate da sue precedenti polemiche nei confronti della diffusione degli esercizi statali. Per Nitti l’intervento pubblico era una opportunità circoscritta da precisi limiti. Allo stesso modo gli apparati pubblici rappresentavano ai suoi occhi un valore inespresso: un condensato di inefficienze e costi parassitari dietro cui si celava una preziosa risorsa amministrativa per lo sviluppo della nazione. Il nuovo ente pubblico avrebbe dovuto adeguarsi a una visione produttivistica in grado di reggere il confronto con il settore privato, con dipendenti che non venivano equiparati a impiegati dello Stato, ma assunti con contratti a tempo determinato, rescindibili e rinnovabili.

La realizzazione dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni forniva un profilo già ampiamente definito di questo progetto, che vedeva inoltre la composizione di un gruppo di lavoro affiatato ruotante intorno a Giuffrida e Beneduce (entrambi poco più che trentenni) nei ruoli di supporto tecnico-giuridico all’azione del ministro. Nel presentare alla Camera la sua creazione Nitti sentiva nuovamente il bisogno di delimitare il campo di intervento del capitale pubblico, insistendo sul tema dello Stato regolatore e delle esigenze imposte dall’incalzare dei tempi nuovi, a discapito di un ampliamento incontrollato della sfera pubblica:

Io sono il meno disposto alle teorie comuniste, pure constatando che la proprietà pubblica si accresce ogni giorno, pur ritenendo che lo Stato debba agire il più che possibile nel senso di attenuare le differenze sociali, pur ritenendo che tutta la nostra azione deve tendere a limitare le cause di conflitti e all’elevazione delle classi popolari in un paese in cui ormai il Delfino da educare può dirsi che sia il popolo; pur ritenendo tutte queste cose, io non sono comunista, non credo all’abolizione della proprietà individuale.

In aggiunta a esigenze di equità sociale nei confronti della classe lavoratrice, la nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita si giustificava per un intento finanziario di più lunga prospettiva. La gestione del ramo assicurativo consentiva infatti di mettere in piedi un grande istituto di risparmio sottratto all’invadenza dei capitali esteri e alla servitù delle grandi banche private; una struttura operativa in grado di allargare le potenzialità della crescita economica, di indirizzarne il flusso verso i settori strategici oppure in funzione della riduzione degli squilibri territoriali. L’interesse nazionale si combinava quindi con una scelta politica che elevava la credibilità dello Stato a garanzia sia del risparmio privato che dell’iniziativa produttiva. Come ha scritto Franco Bonelli, nel progetto nittiano si avvertiva la portata innovativa dell’idea «di uno Stato che opera in grande, dotandosi all’occorrenza di mezzi alternativi a quelli fiscali e sfruttando in proprio le possibilità del mercato; di uno Stato che non va “a rimorchio” dello sviluppo, ma che ne costituisce invece una forza trainante, attivando tutte le potenzialità del capitale umano e del progresso tecnico (istruzione, opere pubbliche, elettricità, eccetera) e che, infine, è capace di scegliere i settori e le aree geografiche del suo intervento in un’ottica di lungo periodo».

Il ramo delle assicurazioni costituiva anche il modello di riferimento per un insieme di successivi interventi che in campo finanziario portavano nel 1913 alla creazione dell’Istituto nazionale di credito per la cooperazione, sulla traccia di un primitivo disegno di Luigi Luzzatti, e dopo la guerra del Consorzio di credito per le opere pubbliche. Il primo, destinato a trasformarsi nella Banca nazionale del lavoro, era preposto al credito speciale per l’agricoltura, con l’attenzione rivolta alle organizzazioni cooperative, nel tentativo di incoraggiare il processo di trasformazione produttivistica della società rurale. Il secondo, operativo soltanto negli anni del regime fascista con la gestione di Beneduce, si doveva dedicare ai settori stradali, portuali, ferroviari, della bonifica agraria e delle opere pubbliche di comuni e province. Entrambi erano funzionali alla raccolta e all’uso di mezzi economici da destinare al finanziamento di interi comparti dell’industria italiana.

Su una prospettiva analoga veniva poi istituita all’indomani di Caporetto l’Opera nazionale combattenti. L’idea di Nitti e di Beneduce (al quale fu affidata la realizzazione) era quella di dotare le truppe combattenti di un sostegno immediato, che affrontasse però il problema del loro futuro reinserimento nella vita civile e nel sistema produttivo. All’Onc venivano devoluti i profitti delle assicurazioni contro i rischi da eventi bellici (otto decimi del capitale di fondazione proveniva dall’INA) e si demandava l’assistenza finanziaria dei reduci. Ma era prevista anche una strategia di investimento sul settore agrario, con la costituzione di un patrimonio terriero da mettere in valore eseguendo tutte le necessarie opere tecniche e di bonifica per avviarne la colonizzazione. Vi erano contenuti nei suoi termini essenziali i principi esecutivi di un riformismo produttivista che attraverso una mediazione diretta tra masse rurali e Stato si proponeva di contrastare i limiti produttivi del latifondo e della piccola proprietà contadina, sulla spinta di un processo di sviluppo tecnologico che avrebbe dovuto favorire una trasformazione sociale dell’Italia rurale. Nella difficile congiuntura economica del dopoguerra l’irruzione dello squadrismo fascista nella questione terriera era destinata a disarticolare in breve tempo questo progetto, senza tuttavia distruggerne l’impianto organizzativo. L’Onc rimase infatti una delle strutture operative del regime, modificando i suoi obiettivi, ma fornendo comunque un supporto al piano di bonifica integrale affidato, non a caso, ad Arrigo Serpieri.

L’impegno bellico aveva impresso scadenze nuove a un problema antico, che riguardava il ruolo dello Stato nello sviluppo economico. Forse non è un caso che tanto Nitti quanto gli uomini del suo più stretto entourage abbiano rifiutato di attestarsi su una posizione di neutralismo giolittiano, partecipando invece in prima persona alla mobilitazione bellica e Nitti, dal dicastero del Tesoro, guidandone l’ultima parte. Non si trattava, come pure è stato ipotizzato, di sfruttare la guerra per completare il disegno strategico di una modernizzazione autoritaria. La convinzione era invece che la crisi del rapporto liberale tra Stato e società, dopo l’uragano della guerra, avrebbe consentito di lavorare con ancora più vigore a un disegno modernizzatore dell’apparato statale. Dall’avamposto del Tesoro la transizione all’economia di pace era perciò affrontata utilizzando alcuni strumenti dell’economia di guerra e mettendo in pratica quel modello di capitalismo organizzato già prefigurato prima del conflitto.

Si poneva adesso il problema di una continuità d’azione per la ripresa della produzione civile. Uno stretto collaboratore del ministro del Tesoro compilava nel 1918 un progetto di organizzazione industriale per il dopoguerra, che attribuiva allo Stato una serie di funzioni che andavano dalla distribuzione dell’energia e delle materie prime, alla collocazione dei prodotti sulla base dei prezzi concordati, alla risoluzione di controversie relative ai rapporti economici tra le aziende. In aperta polemica con Luigi Einaudi, dalle colonne di «Critica sociale» il neo-eletto deputato Giuffrida (nella stessa tornata del ’19 che vedeva entrare alla Camera con i social-riformisti anche Beneduce) suggeriva di prorogare ulteriormente la gestione statale degli approvvigionamenti, per reagire contro l’individualismo economico e indirizzare l’economia verso forme associative. La percezione di una crisi epocale del liberalismo europeo, che la trattativa di pace aveva messo a nudo e che sembrava difficile poter risolvere senza una riforma dei modelli economici, induceva sia Nitti che Giuffrida a guardare con interesse al dibattito negli altri paesi. Ne fornisce una traccia l’edizione italiana del volume di Keynes su Le conseguenze economiche della pace, con una prefazione di Giuffrida che sottolineava come le trasformazioni radicali prodotte dal conflitto impedivano un ritorno alle condizioni precedenti.

La convinzione di poter trovare una risposta alla crisi nel rafforzamento del ruolo di intervento dello Stato (come sembrava indicare anche l’esempio tedesco di Rathenau) non sfociava in un ripudio della prospettiva liberale, che rimaneva anzi la bussola di riferimento delle politiche riformatrici auspicate da Nitti: «Non è giunta l’opera di nazionalizzare. Bisogna solo fare vasta e avveduta opera di coordinazione, fare agire le iniziative individuali e preparare più vasta opera per la costituzione del grande demanio, che sarà il nostro orgoglio e la nostra maggiore risorsa» (così alla Camera il 29 novembre 1918). La sua preoccupazione, semmai, riguardava la scarsa determinazione dimostrata dalla classe di governo giolittiana nella salvaguardia dell’autorità statale, come dimostravano la vicenda dell’occupazione delle fabbriche e il dilagante squadrismo fascista. Nel successivo tracollo dello Stato liberale Nitti rimaneva uno dei pochi a rifiutare compromessi con il nuovo regime, preferendo percorrere già dal giugno del ’24 la via dell’esilio.

Questa intransigente difesa dei principi liberali, che si alimentava nell’esilio con nuove riflessioni sulla crisi italiana ed europea, non interrompeva definitivamente la parabola del nittismo. Essa tuttavia determinava una rottura insanabile tra una categoria politica e il suo eponimo. A guardare con una certa approssimazione gli istituti economici del fascismo, potrebbe sembrare che il nittismo conosca la fase più fulgida proprio in pieno regime, come risposta alla grande crisi degli anni Trenta. La sensazione è naturalmente avvalorata dalla presenza ai posti di comando di diversi protagonisti di quel progetto, a cominciare da Beneduce (benché Giuffrida sia destinato a rimanere in una posizione più defilata), e dalla creazione di nuovi enti di gestione della medesima derivazione, primo su tutti l’Istituto per la ricostruzione industriale.

Negli scritti di quegli anni, non privi di riferimenti impliciti alla vicenda italiana, Nitti individuava la linea di demarcazione tra la democrazia ed il totalitarismo proprio nel dirigismo economico e nella mancanza di libertà politiche ed economiche («Piani economici, Stati totalitari, autarchia, sono altrettanti anelli di una stessa catena»). Non mancavano le stilettate nei confronti di Beneduce e della sua ambizione personale, per quanto il rancore non gli impedisse di riconoscerne l’assoluta competenza. Ma ciò che appariva evidente era la sconfessione di ogni apparentamento con la linea economica del governo fascista, per altro condizionata da una congiuntura sostanzialmente diversa rispetto agli anni del dopoguerra. Una sconfessione che maturava dalla rivendicazione di un rifiuto integrale del modello dittatoriale, in funzione del quale si era prodotta la formazione di centri di decisione economica extra-istituzionale, una concentrazione di poteri finanziari a danno dell’economia di mercato e persino una competizione fittizia tra pubblico e privato gestita secondo modalità autocratiche da Beneduce per conto di Mussolini.

La vicenda italiana dimostrava così il pericolo di una miscela tra tecnocrazia e gestione economica non mediata dal confronto con il mercato, bensì impiantata nell’armatura gerarchica di un regime autoritario. Una preoccupazione non dissimile era avvertita da Nitti anche nel secondo dopoguerra, allorché si impegnava con ostinazione in assemblea costituente a difendere il ristretto ambito delle tematiche liberiste. Si riproponeva una seconda volta il timore, anche in quel caso non del tutto infondato, che una impropria attribuzione di mansioni di programmazione economica al potere politico magari sotto le mentite spoglie del nittismo avrebbe reso più faticoso il cammino dell’Italia sulla direzione di marcia delle grandi democrazie occidentali.

Bibliografia

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