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Nazione

di Luigi Compagna

La nazione – come oggi la intendiamo – ha origini abbastanza recenti e si è affermata rapidamente. È stata decisiva per lo sviluppo della libertà e la nascita della democrazia politica e ha costituito il fondamento ideologico della prima guerra mondiale, ma anche dei regimi nazi-fascisti e della Seconda guerra mondiale. Caduta in disgrazia in Europa alla metà del Novecento è stata al tempo stesso l’idea che ha ispirato – su scala planetaria – il processo di decolonizzazione. La si può ritenere ispiratrice dei movimenti liberali e al tempo stesso delle “pulizie etniche”, delle grandi guerre di annientamento e del sogno irenico della Società delle Nazioni, delle rivendicazioni delle «piccole patrie» e della costruzione europea. Come è possibile che una stessa idea abbia giustificato il perseguimento di finalità così contraddittorie?

L’idea di nazione nel XIX secolo

Uno degli effetti della Rivoluzione francese fu quello di strappare al re la sovranità e di attribuirla al popolo, costituitosi in Nazione. «Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione»: così proclama l’articolo 3 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, ribadito nella costituzione del 3 settembre 1791.

In poche parole i costituenti francesi hanno assegnato al concetto di nazione quella centralità politica che sarà compiutamente teorizzata nell’Ottocento e posta a fondamento delle guerre di indipendenza e di unità nazionale. Il popolo che riconosce la propria individualità rispetto a quella degli altri popoli, si proclama nazione e – in quanto nazione – pretende di essere governato in modo conforme alla sua specificità, nell’ambito dei confini territoriali che gli appartengono. La nazione nasce per un atto di coscienza e di volontà: la coscienza di una individualità geografica, linguistica e culturale e la volontà di tradurre questa individualità in un soggetto politico autonomo e indipendente.

Questo principio di nazionalità – che trasforma la nazione «culturale» in nazione «territoriale» e «politica» – incontrò particolare successo presso i popoli non ancora politicamente uniti (italiani, tedeschi, ungheresi, polacchi) che in esso videro il solo modo per sperare di «comporre in unità le sparse membra della patria comune»[Chabod]. Altri Paesi erano approdati molto prima a una qualche forma di unità nazionale: la Francia nel 1477 con la sconfitta di Carlo il Temerario e l’annessione del Ducato di Borgogna, la Spagna nel 1492 con la conquista di Granada e la Gran Bretagna nel 1603 con l’unificazione delle tre corone.

In Italia, l’idea di nazione ispirò l’azione sia di Cavour e dei moderati, sia di Mazzini e dei radicali, per dare vita all’età del Risorgimento. La rivendicazione per l’Italia – che Metternich considerava negli anni Venti nient’altro che una entità naturalistica (una «espressione geografica») – di una dignità nazionale portò alle guerre per l’indipendenza dal dominio straniero del lombardo-veneto e – attraverso la dissoluzione degli antichi stati – alla unificazione del popolo italiano sotto un unico governo costituzionale.

Per gli uomini del Risorgimento l’idea di nazione è legata in modo indissolubile a quella di libertà. È il desiderio di adeguare le istituzioni del Piemonte sabaudo ai modelli liberali degli Stati più progrediti (Francia e Inghilterra) a spingere Cavour all’impegno anti-austriaco e, infine, alla consapevolezza che libertà ed indipendenza non potevano essere stabilmente conseguite altrimenti che con la realizzazione dell’unità nazionale. Per Mazzini l’unità nazionale è semplicemente inconcepibile senza l’affermazione della libertà politica: l’indipendenza è l’emancipazione dalla tirannide straniera e la libertà è l’emancipazione dalla tirannide domestica, «finché, domestica o straniera, voi avete tirannide, come potete avere Patria? La Patria è la casa dell’Uomo non dello schiavo». E, quando indipendenza e unità saranno finalmente raggiunte, Mazzini non cessò la sua lotta, bandito dalla patria che aveva contribuito a creare, perché riteneva che non vi potesse essere libertà senza forma repubblicana.

Ancora a Mazzini si deve la più perentoria proclamazione dell’intimo legame esistente tra la nazione e l’umanità, che – in termini politici concreti – si identifica con l’Europa. Il più ardente esaltatore della patria non la considerava un fine ma un mezzo per realizzare una più ampia unione: «le nazioni sono gli individui dell’umanità, come i cittadini sono gli individui delle nazioni». La nascita delle nazioni avrebbe consentito quella della Giovane Europa dei popoli, destinata a sostituire la vecchia Europa dinastica. A Mazzini faceva eco Pasquale Stanislao Mancini, per il quale il principio di nazionalità è quello della libertà politica applicato alle circoscrizioni territoriali, il trasferimento dei principi della Rivoluzione francese alle relazioni tra popolo e popolo. Riconoscere il principio di nazionalità significa riconoscere inviolabilità e protezione a tutte le nazioni, «coesistenza ed accordo delle nazionalità libere di tutti i popoli». Oltralpe la medesima concezione era stata scolpita nell’articolo V del Preambolo alla Costituzione del 4 novembre 1848.

Anche per Cavour la nascita della nazione italiana era strettamente connessa con le relazioni internazionali e con la pace universale, anche se in termini assai diversi. Il sistema di relazioni tra gli Stati europei – uscito dalla pace di Westfalia (1648) e confermato nel suo impianto generale dal Congresso di Vienna (1815) – si mostrava inadeguato a mantenere il difficile equilibrio su cui si fondava l’ordine europeo. L’impresa napoleonica aveva mostrato che esso non era in grado di impedire le aspirazioni egemoniche delle «potenze», né di garantire la stabilità all’interno degli stati, attraversati da movimenti di rivolta politica e sociale (moti del 1820-1821) che potevano espandersi e «infettare» l’Europa intera. La formazione degli stati nazionali avrebbe indebolito le spinte radicali e sarebbe stato capace di reprimerle con maggiore efficienza, così come avrebbe indebolito le grandi potenze, frustrandone le mire espansionistiche. Nulla a che vedere con la Giovane Europa di Mazzini, ma pur sempre un pensiero che collegava intimamente la nazione alla pacifica coesistenza degli Stati. L’interpretazione moderata del principio di nazionalità si relazionava all’Europa per garantire la continuità di quella politica del «concerto» degli Stati che si riteneva la sola capace di assicurare pace e stabilità.

Se il modello ottocentesco di nazione – pur nelle sue varie declinazioni – si affermò in Italia e in Francia come autocoscienza di un popolo della sua individualità, desideroso di vivere governato da libere istituzioni in relazioni pacifiche con le altre nazioni, non così avvenne in Germania. Il pensiero tedesco – nel solco tracciato da Schiller e da Herder – individuò nel sangue, nel suolo e nella lingua la ragione della sua identità nazionale. Quegli elementi naturalistici – che Mazzini considerava solo la «forma visibile» della nazione, destinati a restare simili «a cadavere senza moto ed alito di creazione»se privi dell’autocoscienza della nazione e del suo intimo legame con l’umanità – furono riguardati come elementi costitutivi della nazione e si teorizzò la piena legittimità della «nazione incosciente». A questa concezione diede voce in Italia Francesco Crispi per il quale «l’esistenza e l’indipendenza delle nazioni non possono essere soggette all’arbitrio dei plebisciti. Le nazioni vivono di diritto naturale, eterno, immutabile, né per forza di armi né per volontà di plebi cotesto diritto può ricevere alcuna mutazione».

Questa diversa concezione del principio di nazionalità si manifestò ben presto in azione politica nel 1870, con l’annessione prussiana dell’Alsazia-Lorena. Terra tedesca per lingua, razza e tradizioni storiche sostenevano gli invasori e a nulla rilevava la volontà di quel popolo (altro che nazione come «plebiscito di ogni giorno»di cui avrebbe parlato Renan!). E portò alla dissociazione dai principi di libertà e di integrazione europea. Già nel 1876 il cancelliere Bismarck riferì all’Europa quella locuzione – «espressione geografica» – che poco più di cinquant’anni prima Metternich aveva dedicato all’Italia. Metternich negava la nazionalità italiana perché la considerava una minaccia per la conservazione dell’ordine europeo, che costituiva la sua principale preoccupazione. Il cancelliere prussiano negava la rilevanza politica del «concerto» europeo, perché esso rappresentava un ostacolo alla realizzazione dei disegni dello stato nazionale. In questo momento la nazione diventa un’entità che non riconosce alcun limite al suo diritto di perseguire i propri interessi.

L’idea di nazione nel xx secolo

La concezione germanica della nazione – intesa come la massima espressione del particolarismo egoistico – prevalse in tutta l’Europa per oltre mezzo secolo, dall’ultimo ventennio dell’Ottocento alla fine della seconda guerra mondiale. Prevalse, a dispetto delle sue radici universalistiche e dell’evoluzione degli Stati assoluti in senso liberale e democratico, e benché le ideologie dominanti (cristianesimo, liberalismo e socialismo), fossero esse pure caratterizzate da una forte ispirazione universale. Essa si affermò perché meglio di ogni altra si prestava alla costruzione di un’ideologia in grado di assecondare le nuove esigenze che la rivoluzione industriale andava creando.

La nascita delle industrie nazionali aveva bisogno, per crescere e svilupparsi, di protezione dalla concorrenza dei prodotti stranieri e di espansione verso mercati sempre più vasti. Protezione ed espansione potevano essere assicurate da uno Stato fortemente coeso e ben armato, in grado di permettere lo sviluppo indisturbato della produzione interna e di aprirle uno sbocco, con la forza delle armi, verso mercati che bisognava contendere ad altri Stati, essi pure armati e ugualmente risoluti ad assumerne il controllo.

Schiller aveva osservato – a proposito della Guerra dei Trent’anni – che le motivazioni religiose avevano persuaso i popoli a sopportare sacrifici che non sarebbero stati disposti ad affrontare per i loro príncipi. Qualcosa di simile fece il nazionalismo: la sollecitazione dell’orgoglio di assegnare alla propria nazione il «primato» sulle altre – quel «Primato» che da morale e civile, come lo aveva pensato il Gioberti, era ora inteso come economico e militare – fu la leva poderosa di cui si servirono i governi per ottenere il consenso a una politica di potenza che portò alle imprese coloniali, alla grande guerra, all’affermazione di regimi totalitari e alla definitiva catastrofe della Seconda guerra mondiale.

L’ideologia nazionalista tutto travolse e (quasi) tutti convinse. Il socialista Giovanni Pascoli salutò la guerra di Libia («La grande proletaria s’è mossa») con gli stessi argomenti del nazionalista Enrico Corradini (La patria lontana) e Giovanni Bovio, mazziniano e repubblicano, esaltò – in un’aspra polemica con Arcangelo Ghisleri, conterraneo e anch’egli repubblicano – il valore liberale, civile e progressista del colonialismo. Lo scoppio della grande guerra provocò lo scioglimento della Seconda Internazionale e i Partiti socialisti andarono in soccorso della patria proprio come i preti benedivano le bandiere dei reggimenti, mettendo da parte l’universalismo cristiano. Naturalmente non si trattò solo di menzogne e di ben orchestrata propaganda strumentale. La considerazione del destino delle terre irredente (Trento e Trieste) e i vincoli di solidarietà con la Francia (la «sorella latina») prevalsero sugli interessi economici, che avrebbero voluto l’Italia schierata con la Triplice Alleanza: la Germania era, infatti, nel 1914 il paese con il quale l’Italia aveva il più ricco interscambio commerciale.

La Grande guerra si concluse con la dissoluzione dell’Austria-Ungheria e con la fine dell’impero ottomano, quest’ultimo ridotto alla sola Turchia, pure esposta a invasioni straniere. La dottrina propugnata dal presidente americano Wilson, mentre incoraggiava la formazione di stati nazionali nei territori appartenuti ai grandi imperi multi-etnici, proclamando il principio del diritto alla autodeterminazionedei popoli (nuovo nome per indicare il principio di nazionalità di mazziniana memoria) mirava a minare le fondamenta dei grandi imperi coloniali di Francia e Gran Bretagna. Per altro, l’egoismo nazionale e il desiderio di vendetta dei vincitori imposero alla Germania (Trattato di Versailles, 1919) condizioni di pace rovinose e umilianti: la perdita di tutte le colonie, un risarcimento enorme (6,6 miliardi di sterline), l’inibizione delle difesa militare (una marina ridotta a 6 navi e senza aviazione), la mutilazione del territorio nazionale (oltre all’Alsazia-Lorena, parte della Prussia, della Pomerania, della Slesia e dello Schleswig-Holstein) e la messa in stato d’accusa del Kaiser, Guglielmo II, di fronte a un erigendo Tribunale internazionale «per offesa suprema alla morale internazionale».

Nonostante le sanzioni la Germania tornò, in breve tempo, a essere la nazione più ricca e potente d’Europa. Il ricordo dell’umiliazione subita – che la aveva sprofondata dal rango di potenza egemone a essere il solo stato europeo a non aver raggiunto l’unità nazionale – portò all’affermazione di un regime illiberale nel quale la componente nazionalistica fu spinta alle sue conseguenze estreme. Sugli antichi elementi costitutivi del sangue e del suolo si costruì una teoria nella quale assumeva un ruolo centrale il concetto di «razza». La postulata superiorità della sua razza conferiva al popolo tedesco il diritto di proteggerla da ogni contaminazione esterna o estranea e gli assegnava la missione – quella «missione» che nella concezione mazziniana dell’idea di nazione era concepita come educatrice – di salvare, con la forza delle armi, l’identità della civiltà europea, già minata all’interno dall’internazionalismo ebraico, dalla minaccia costituita dalla potenza demografica asiatica. Questa dottrina spinse la Germania a cercare il suo «spazio vitale» (Lebensraum) oltre i confini orientali, liquidando in modo definitivo il secolare conflitto che opponeva il mondo tedesco a quello slavo. A oriente la Russia zarista era scomparsa ed era nata l’Unione Sovietica. In Turchia, una rivoluzione aveva dato vita a un regime nazionalista. In Italia si era affermato il regime fascista che – per un Paese sovrappopolato e ancora industrialmente arretrato – immaginava un destino di grande potenza e di egemonia sul Mediterraneo.

L’esito della guerra infranse definitivamente le ambizioni italiane e fece letteralmente a pezzi la Germania – che fu divisa in quattro zone poste sotto il controllo dei vincitori – mutilandone il territorio, con l’annessione della Prussia orientale all’Unione Sovietica, della Prussia occidentale e della Pomerania orientale alla Polonia e unendo la Pomerania occidentale e parte del Brandeburgo in una nuova Repubblica Democratica, stato satellite sovietico. In definitiva, la Germania perse un quarto del suo territorio prebellico, equivalente all’intero est tedesco e «città che avevano avuto una parte importante nella vita e nella cultura europea – da Königsberg a Danzica, Stettino, Breslau – venivano cancellate dalla carta d’Europa e sostituite da comunità polacche di tutt’altra tradizione e civiltà» [Romeo].

Nella guerra l’umanità mostrò il peggio di sé: al praticato sterminio del popolo ebraico e alle atrocità compiute dai tedeschi sul fronte orientale si rispose, da parte alleata, con i bombardamenti in Germania e in Giappone e, da parte sovietica, con le efferatezze compiute nei territori conquistati. L’idea di nazione – nata per assicurare ai popoli libertà e convivenza pacifica – si era trasformata in mano tedesca nell’ideologia che considerava l’avversario un nemico geneticamente inferiore, che si aveva il dovere di distruggere, e in mano calvinista nel convincimento che le guerre tra le nazioni fossero lotte tra reprobi ed eletti, nelle quali il nemico era l’incarnazione del Male.

La sintesi più limpida e convincente della situazione politica e culturale determinatasi tra il 1945 e la fine degli anni Settanta per effetto del predominio delle superpotenze americana e sovietica è quella tracciata nella voce Nazione, curata da Rosario Romeo per l’Enciclopedia del Novecento, a questo periodo interamente dedicata. Secondo il grande storico siciliano i vincitori decretarono una condanna senza appello non solo verso il Terzo Reich, che era stato propriamente il loro nemico, ma nei confronti dell’intero popolo tedesco e della sua secolare cultura, giudicata responsabile di tutte le azioni del regime hitleriano. Essi non si limitarono a creare le condizioni politiche perché una nazione tedesca non si potesse più ricostituire ma misero in atto un’offensiva ideologica diretta alla «rieducazione» dei tedeschi e alla cancellazione della memoria storica della loro identità culturale. L’operazione ebbe successo: i circoli intellettuali tedeschi si fecero presto persuasi che nulla di valido vi era da rintracciare nella storia dello Stato unitario e che il fondamento della nuova vita politica andava riposto nell’impegno per la costruzione di una collettività democratica, aderente al modello offerto dai vincitori, senza alcuna connessione con l’identità nazionale.

Qualcosa di simile accadde anche in Italia, dove i partiti antifascisti pensarono bene di liquidare i conti con il passato regime sostenendone la continuità con lo Stato unitario, del quale si disse che non fu una democrazia: nella polemica tra Ferruccio Parri e Benedetto Croce all’Assemblea costituente è riassunto il definitivo distacco dell’Italia repubblicana dalle sue radici risorgimentali.

Anche il sistema delle relazioni internazionali uscì sconvolto dalla guerra. L’assoluta superiorità economica e militare di Usa e Urss privò di qualsiasi potere politico tutti piccoli Stati – nel novero dei quali erano ormai ricomprese le nazioni europee – e quando le superpotenze vennero in conflitto tra loro, con la «guerra fredda», essi si ritrovarono privati di ogni margine di manovra autonomo.

Un tentativo di reagire a questa situazione fu la rinascita del movimento federalista che – pur tra incertezze, ostacoli e ripensamenti – trovò condizioni favorevoli per progredire. La Gran Bretagna aveva perduto il suo impero coloniale e lo stesso sarebbe accaduto alla Francia, con la sconfitta nella guerra d’Algeria: ciò che fece venire meno i principali motivi di opposizione ai progetti europeisti. La Germania – che ai tempi di Bismarck considerava l’Europa un’inaccettabile ostacolo alla sua espansione – divenne, con il cancelliere Adenauer, europeista convinta, ritenendo che solo partecipando attivamente all’integrazione europea avrebbe potuto sperare di riacquistare, almeno in parte, la dignità politica perduta.

A questo disegno la Germania sembrò sacrificare, in modo che parve definitivo, ogni sua speranza di riunificazione nazionale quando il cancelliere Brandt riconobbe la frontiera dell’Oder-Neisse e la Ddr e accettò il mantenimento del muro di Berlino. E così sarebbe probabilmente stato se nel 1989 la dissoluzione dell’Unione Sovietica non avesse rimesso in moto la dinamica delle nazionalità. La questione del muro di Berlino, che aveva affannato le cancellerie per quasi trent’anni, si risolse in una notte e la Germania occidentale si accollò senza esitazioni gli enormi costi della riunificazione: segno evidente che quello dei «rieducatori» e degli intellettuali che si misero al loro servizio fu un successo solo apparente. L’unità nazionale non smise mai di essere per i tedeschi l’idea alla quale sempre si pensava, anche se conveniva non parlarne.

Al di là di quella che fu la «cortina di ferro» sono sorti una miriadi di piccoli stati nazionali che, spesso, non hanno esitato a proteggere la loro ritrovata indipendenza con operazioni di «pulizia etnica», mostrando la perversa vitalità dell’estremismo nazionalista. Nell’ambito della Comunità Europea – che pure ha ricevuto un forte impulso dalla necessità di «difendersi» dalla ormai incontrastata egemonia americana – gli interessi nazionali riescono validamente a contrastare ogni tentativo di fare dell’Europa qualcosa di più e di diverso da un grande mercato comune. La rivendicazione delle «piccole patrie» spesso si riduce al tentativo di conferire dignità nazionale (e, quindi, rilevanza politica) a un regionalismo senza altro fondamento che la tradizione dialettale. Ma la vera sfida che attende l’idea di nazione nel XXI secolo è quella sferrata dal nuovo sistema di relazioni economiche. Lo Stato-nazione per oltre cento anni si è rivelato uno strumento politico idoneo a governare le diverse fasi della rivoluzione industriale. Quello stesso strumento potrebbe risultare inadeguato a gestire la globalizzazione. O potrebbe addirittura rivelarsi un ostacolo.

Brano tratto dal "Dizionario del liberalismo italiano", edito da Rubbettino Editore. Clicca qui per acquistarlo con il 15% di sconto