A - B - C - D - E - F - G - H - I - J - K - L - M - N - O - P - Q - R - S - T - U - V - W - X - Y - Z -

image_pdfimage_print

Legge

di Pier Giuseppe Monateri

I vari e opposti significati del termine legge

Con il termine «legge» si possono intendere cose molto diverse, e financo opposte. Normalmente si definisce la legge come la dichiarazione che qualcosa valga come diritto, cioè che abbia un effetto vincolante. In senso formale la legge può, allora, venire ridotta all’atto tipico di un determinato organo, in base alla determinazione costituzionale delle sue competenze.

In una democrazia parlamentare sarà pertanto legge l’atto emanato dal parlamento, quale che sia il suo contenuto. Anche un mero atto di amministrazione dello Stato, se emanato in conformità con l’iter legislativo, sarà pertanto una legge in senso formale. Viceversa gli atti emanati dal governo potranno avere «forza di legge», ma non saranno leggi in senso formale, anche se contengono norme generali e astratte, perché comunque non sono atti del parlamento. Ciò dipende ovviamente dal diritto costituzionale positivo, perciò, ad esempio, nella costituzione francese del 1958 alcune competenze legislative sono sottratte al parlamento e affidate al governo, onde la legge in senso formale può ivi coincidere anche con atti di fonte governativa. Insomma secondo la determinazione formale del concetto di legge la sua individuazione procede in conformità con l’organo di provenienza e la procedura di adozione del provvedimento.

Contrariamente al senso formale della legge nella nostra tradizione giuridico-politica si affaccia continuamente il tentativo di definire la legge in senso sostanziale o contenutistico. Questi tentativi vanno sempre anch’essi però in direzioni opposte. Da un lato, infatti, la legge è identificata con la volontà e il comando sovrano (Hobbes), da un altro lato invece, varie tradizioni filosofiche, e la tradizione costituzionale europea contemporanea, individuano la legge come una norma connotata da esattezza, ragionevolezza e giustizia; quindi come l’esatto opposto della mera volontà e comando.

Di particolare rilevanza per il successivo pensiero politico anche liberale è, inoltre, la distinzione già tracciata nel progetto di costituzione dei Girondini del 1793 tra «legge» e «misure politiche», secondo cui queste ultime sono provvedimenti concreti volti a risolvere le necessità di una situazione specifica, e come tali transeunti, mentre le leggi sono norme dotate di generalità e durata indefinita, e in questo senso sono norme astratte, che cioè prescindono dalle situazioni concrete della loro applicazione. Una tale contrapposizione tra significato formale o contenutistico della legge diventa oggi di particolare rilevanza nel Diritto Europeo. Infatti mentre a livello statale prevale indubbiamente la definizione formale della legge, la Corte Europea di Giustizia ha deciso in Confederation Nationale des Producteurs de Fruits et Legumes v Council (1962) che la classificazione di un atto normativo deve dipendere dalla sua sostanza e non dalla sua forma, onde un Regolamento della Commissione (di portata ed effetto generale) può essere interpretato dalla Corte come se fosse una Decisione (di portata ed effetto solo particolari): il che significa in concreto che il Giudice ha il potere di qualificare gli atti normativi, e quindi di determinarne l’efficacia.

In definitiva la legge cessa di essere l’istanza decisiva (Bodin) e il suo status finisce per dipendere dall’interpretazione fattane dal giudice. Qui si ripropone una questione di massima rilevanza per il pensiero liberale: la contrapposizione tra un governo della legge e un governo dei giudici. Inoltre, la definizione di cosa è legge può o meno fare riferimento allo Stato. Il positivismo giuridico finì per identificare la Legge con la dichiarazione dello Stato. Il diritto di provenienza non statale sarebbe costituito da norme, ma non da leggi in senso tecnico.

Il concetto di provenienza della norma dallo Stato è, poi, a sua volta un concetto ambiguo.

Il diritto di natura giurisprudenziale, ad esempio il Common Law, non proviene né dal parlamento (statutory law), né dal governo, ma non è un mero diritto consuetudinario, provenendo da Giudici nominati per questo scopo dalla Regina o comunque dal potere politico (Presidente degli Stati Uniti, Governatore dello Stato).

In questo senso, infatti, per Kelsen il diritto di fonte giurisprudenziale è un diritto compiutamente statale in quanto emanato dall’organo a ciò deputato dallo Stato, pur non essendo appunto un diritto legislativo o governativo. Allo stesso modo, il diritto internazionale può venire ricostruito come di natura extrastatuale, in quanto non deliberato o deciso da alcuno Stato, o come in realtà di natura Statale in quanto comunque riposa su una accettazione o su un comportamento degli Stati.

Tipicamente ambigua da questo punto di vista è la designazione della Lex Mercatoria come Law Merchant, o diritto delle relazioni commerciali transnazionali, con il marcato riferimento a una legge che per definizione non è di origine statale, ma comunque riposa sulla accettazione, o non opposizione, che ne venga fatta da parte di organi statali.

Infine, prima di procedere, non si può dimenticare il significato di Legge «in senso concreto». Cioè il senso che il ricorso alla legge riceve all’interno di una costellazione politica determinata. In questo senso è stato detto che all’interno dello Stato liberale di diritto il senso della legge è quello di una interferenza con la libertà e la proprietà dei cittadini. Come tale la legge è tendenzialmente qualcosa di negativo che deve essere limitato e deve possedere le caratteristiche della chiarezza e della precisione proprio perché si pone come limite dei diritti privati.

Nello stesso senso in uno stato social-democratico avanzato la legge in senso concreto assume invece il ruolo di atto del potere politico per la trasformazione della società, finendo quindi per ricevere un ruolo, e una interpretazione, del tutto diversa da quella che riceverebbe in uno stato liberale. Un senso ben diverso è anche, ovviamente, quello della legge come protezione politica di un popolo nella sua autocoscienza nazionale, che tanta parte ha giocato anche nelle codificazioni europee del XIX secolo. Senso reso perfettamente esplicito dalla Corte Israeliana che decise di condannare Eichmann in nome della legge dello Stato di Israele come inimicus judaeorum e non in nome della legge internazionale come nemico dell’umanità, per significare come in quel tempo gli ebrei potessero finalmente godere della protezione di una «legge» loro propria.

Valore simbolico e valore concreto della legge

Dal punto di vista storico il termine «legge» ha sempre avuto un enorme valore simbolico. Infatti, anche se nella nostra tradizione è prevalsa l’idea di legge in senso formale, onde in linea di massima il suo contenuto è indifferente, da un altro punto di vista è evidente che il riferimento alla legge, a partire dalle rivoluzioni liberali, ha voluto significare proprio il simbolo dell’oggettività del diritto di fronte alla doppia soggettività del potere e della grazia. Il senso della legge nelle rivoluzioni liberali era quindi quello di sottoposizione della monarchia ad un corpo oggettivo di leggi di cui essa non potesse disporre.

La legge era effettivamente in questo senso non l’estrinsecazione ma la limitazione della sovranità. Ed era tutt’uno con la riconsiderazione del monarca da detentore concreto della potestà sovrana a mero organo dello stato sovrano. In questo senso il liberalismo riattiva un concetto greco di legge come nomos basileus, in un contesto in cui i riferimenti alla classicità del nascente liberalismo, sia francese che tedesco, debbono essere presi in dovuta considerazione.

In tale contesto classico il governo delle leggi era forse pensato proprio come il governare che promana dalla legge stessa in quanto «stele scritta» posta al centro della polis, come forma del governare diversa dal comando e dalla volontà di un uomo concreto, come poteva avvenire in caso di tirannia o dispotismo. In questo senso anzi l’idea classica di governo della legge si contrappone poi agli sviluppi ellenistici ed augustei che portarono all’idea contrapposta di un nomos empsuchos, cioè all’idea del monarca come incarnazione vivente, animata, della legge stessa.

Il punto è oggetto della stessa riflessione platonica svolta nel Politico, laddove si contrappone il governare per leggi generali rispetto al governare per misure concrete, ma laddove appunto la preferenza va poi alla misura concreta in quanto sia presa dal «vero politico» che sa discernere i bisogni dello Stato e che proprio per ciò deve poter governare anche al di là e oltre le leggi, sebbene queste siano «normalmente» adatte, ma cessino di esserlo rispetto a contingenze particolari della città. Una riflessione da cui promana in modo evidente la discussione moderna su legge e stato di eccezione.

In buona sostanza la critica di Carl Schmitt al liberalismo muove, infatti, dall’idea che non sia possibile determinare ex ante in modo oggettivo le varie contingenze in cui la legge si deve applicare, e in particolare non sia possibile predeterminare le situazioni di emergenza, in cui si rende necessario l’operare politico, onde è sovrano chi decide sullo stato di eccezione.

Il liberalismo, e il suo concetto di legge, risulterebbe così vuoto proprio sul punto centrale della sovranità e non disporrebbe, né potrebbe disporre, di una teoria dello stato di eccezione, cioè, in sostanza, della decisione politica ultima. Da questa serie di aporie discendono anche numerose difficoltà del liberalismo ad affrontare compiutamente la realtà della legge per come essa si è dischiusa dopo l’era delle codificazioni.

La codificazione rappresenta infatti il compiuto dominio della legge come costituzione materiale della società civile, che è però incapace di mantenere le proprie promesse di una determinazione oggettiva ex ante dei rapporti civili, e non riesce a operare senza un rinnovato governo dei giudici, che a mala pena si riesce a nascondere dietro le teorie oggettive dell’interpretazione giuridica.

Da ciò discende anche la difficoltà a inquadrare compiutamente i sistemi di common law in quanto sistemi formalmente di ancien regime che non sono passati attraverso la rivoluzione della legge, ma a contenuto liberale, cioè di forte salvaguardia dei diritti individuali.

Legge, Diritto e Interpretazione

La legge si contrappone al diritto inteso in senso oggettivo. Questa contrapposizione vale come segue. Se il diritto è il complesso di tutte le norme vigenti, la legge ne è solo un sotto insieme: essa non comprende le norme consuetudinarie, quelle regolamentari e così via. Perciò i giuristi preferiscono parlare di diritto piuttosto che di legge per riferirsi al complesso normativo in vigore. Peraltro tale complesso normativo spesso è di derivazione tradizionale e può nei nostri sistemi riferirsi anche a norme che provengono dal diritto romano. Ciò accentua quindi il carattere sapienziale del diritto stesso nella sua derivazione storica in quanto contrapposto alla mera legge estrinsecazione del potere politico attuale. In tale contesto si pone allora piuttosto l’accento sul potere stesso dei giuristi di creare un ordinamento al di là delle competenze specifiche del potere politico, e ne si esalta il ruolo a fini anche polemici rispetto al ruolo politico dei partiti e alle loro limitate capacità di controllo e direzione del processo sociale.

Un’altra rilevante contrapposizione è quella fra legge e giudice, nel senso che il governo della legge ha spesso rappresentato storicamente una limitazione al governo dei giudici, ovvero, al contrario, che il governo di questi si determina soprattutto come limitazione ai poteri del governo e del parlamento.

La lotta tra potere dei giudici e potere legislativo viene spesso combattuta sul terreno della teoria dell’interpretazione. Non a caso i codificatori di fine ’700 e inizio ’800 inventarono sistemi di interpretazione che fossero affidati a specifiche commissioni legislative e pertanto sottratti agli organi del potere giudiziario. Ancora recentemente in Italia il nuovo testo di riforma della magistratura prevede che una interpretazione non letterale della legge possa essere un illecito disciplinare del giudice. Si dice che lo stesso Napoleone quando comparve a stampa il primo commentario del Code civil esclamasse «Mon Code est perdu».

La questione dell’interpretazione della legge si pone allora come una questione politica decisiva nell’ambito dell’organizzazione della società mediante leggi. Tale questione viene spesso affrontata come mero problema di tecnica di redazione legislativa onde evitare lacune aporie e ambiguità che possano dare adito all’interpretazione facendo sfuggire il risultato da ottenere dalle mani del potere legislativo.

La questione è tuttavia più complessa. Non solo il linguaggio umano in cui si esprime il diritto non è uno strumento perfettamente malleabile, ma occorre riconoscere quanto segue. Il potere legislativo non possiede conoscenze illimitate; in pratica non dispone della conoscenza di tutti i dettagli delle operazioni umane e ha limitate capacità di previsione del futuro. La legge non può disciplinare i dettagli dell’operazione chirurgica o anticipare i progressi della professione medica. Essa si deve perciò di necessità accontentare di formule più elastiche come «colpa», «nesso causale» o «dolo» e lasciare che siano i giudici a fornire un significato preciso di tali formule in base alle determinazioni concrete di tempo, luogo e circostanze in cui sono avvenuti i fatti, che peraltro possono essere conosciuti al meglio solo in virtù della celebrazione dei processi che vi attengono.

Questo non è un problema particolare che possa venire sottovalutato ma un problema assai generale che pervade l’intero dominio del giuridico: si tratta di una ignoranza essenziale con cui il potere legislativo si confronta continuamente nel suo tentativo di dirigere il processo sociale.

Perciò la questione delle lacune o delle formule ambigue non dovrebbe essere analizzata come questione che attiene a un difetto della formulazione legislativa, ma come materia di un gap ineliminabile tra la produzione di testi normativi e gli accadimenti del mondo reale. In pratica il diritto è sempre necessariamente scarso rispetto ai fatti sociali.

Una teoria più realistica dell’attività legislativa dovrebbe piuttosto tener conto del fatto che il legislatore ha sempre poteri limitati di previsione e di controllo, e che il diritto nella sua evoluzione necessita di una elaborazione decentrata la cui conoscenza non è di fatto accentrabile in un singolo ente o singolo gruppo di menti umane.

Legge e liberalismo

Oggi il significato di legge in senso concreto appare della massima rilevanza per poter affrontare le questioni attinenti alla regolamentazione delle società avanzate. La legge non assume la stessa rilevanza e gli stessi caratteri in società in cui essa deriva da apparati partitici organizzati, o in società in cui il potere politico è organizzato in forme più blande. In pratica il carattere della legge appare una funzione del tipo di organizzazione della società politica.

La posizione politica, ivi compresa quella del liberalismo, si spiega storicamente solo con il senso concreto in cui legge e giudice sono venuti a trovarsi nelle varie situazioni ordinamentali.

In Inghilterra l’assolutismo monarchico si è manifestato attraverso il ricorso alla giustizia discrezionale del cancelliere nota come Equity, determinandosi un aspro conflitto con le corti di diritto comune, Common Law, dove sedevano giudici che erano sì di nomina regia, ma che appartenendo al ceto dei proprietari terrieri, ne risultavano di fatto indipendenti. In tal modo le corti comuni hanno esercitato un contropotere nei confronti dell’assolutismo che ha dato origine all’ideologia del common law come diritto di fonte giurisprudenziale che «proprio perciò» garantisce i diritti individuali, e in special modo il diritto di proprietà, nei confronti del potere sovrano. Difendendo il diritto di proprietà i giudici inglesi difendevano la propria stessa indipendenza come ceto.

Tale ideologia non trovò riscontro in America al tempo della Rivoluzione, in quanto i giudici di nomina regia erano anzi visti come lo strumento dell’oppressione della madre patria nei confronti delle colonie, donde la libertà appariva assicurata piuttosto dal ricorso a documenti scritti di origine politica: gli statuti delle colonie, poi costituzioni dei singoli stati, il ricorso alla legge, e persino alla codificazione.

Solo col tempo nel XIX secolo in America tornò a prevalere l’idea che il governo indipendente dei giudici potesse assicurare la libertà ma in quanto agganciato all’interpretazione dei testi costituzionali, e in specie della costituzione federale. Questo sviluppo è risultato congruente con l’idea americana originaria di avere una cittadinanza federale e un potere politico statale, per la quale appunto i diritti di cittadinanza affidati alla costituzione e alla Corte Suprema risultano indipendenti e intangibili da parte della legislazione politica degli stati.

Anche in Francia ovviamente i giudici sono stati visti come gli strumenti dell’attuazione dell’Ancien regime, il che spiega come venisse ghigliottinato l’80 per cento dei giudici del Parlament di Parigi.

La difesa della libertà non poteva avvenire attraverso i giudici, ma attraverso la legge. Si badi non attraverso la costituzione, in quanto questa contravveniva al principio democratico, proprio in quanto avrebbe vincolato l’Assemblea Nazionale a limitazioni giudiziarie. In particolare, la garanzia della libertà doveva avvenire attraverso quella sorta di super-legge che furono i codici in quanto unificazione legislativa di ragione dell’intero territorio della sovranità politica, come tali per eccellenza l’emblema dell’antiarbitrio giudiziale o legislativo anteriore.

In tal modo si creò una ideologia della legge come scudo della libertà («La proprietà non può che essere limitata dalla legge!»), e del giudice in quanto servo interprete della legge secondo i canoni del linguaggio comune e del significato piano delle parole del testo della legge.

In sostanza la questione della legge si pone come questione dei tre poteri (normativo, amministrativo e giudiziario – perfettamente sviluppata dal Diritto canonico molto prima che da Montesquieu) e il suo senso per una teoria politica dipende dalla sua posizione concreta nell’ordinamento storico.

Se il liberalismo coincide con la teoria della definizione e salvaguardia di diritti individuali intangibili dalle decisioni politiche, il giudizio sulla legge o sulla giurisprudenza non può che dipendere dal suo concreto situarsi storico. Peraltro solo in vitro i tre poteri possono essere tenuti ben distinti, e che ciò sia possibile in pratica fa parte del bagaglio utopico delle credenze della teoria politica sui meccanismi concreti del diritto.

Bibliografia

Allen C.K., Law in the Making, Clarendon Press, Oxford 1951; Bickel A.M., The Least Dangerous Branch, Yale University Press, New Haven 1986; Costantini C., La Legge e il Tempio, Storia comparata della giustizia inglese, Carocci, Roma 2007; Hayek F., von, Law, Legislation and Liberty, voll. 3, Chicago University Press, Chicago 1973-76, Irti N., Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Laterza, Roma-Bari 2006; Monateri P. G., Fonti del Diritto, in Digesto Italiano, vol. X, Utet, Torino 1992; Stolleis M., L’occhio della legge, Carocci, Roma 2007.

Brano tratto dal "Dizionario del liberalismo italiano", edito da Rubbettino Editore. Clicca qui per acquistarlo con il 15% di sconto