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Élites (classi dirigenti, classe politica)

di Fabio Grassi Orsini

È fuori di dubbio che la formazione e il rinnovamento delle classi dirigenti e delle élites politiche sia stato un problema per tutti i regimi e in qualsiasi epoca. Quando si produce una sclerotizzazione delle classi dirigenti e di conseguenza si determina un mancato ricambio della classe politica è inevitabile che questa situazione si ripercuota sul funzionamento delle istituzioni e anche nel rapporto tra governanti e governati. Il caso più classico fu quello della Rivoluzione francese che portò alla crisi dell’ancien régime, all’emergere della borghesia come classe dirigente e alla nascita degli stati moderni. Se l’Italia è stata un «paese senza rivoluzioni» sembra però che essa sia stata afflitta da una «sindrome di Crono»: una sua caratteristica è stata, infatti, quella di «divorare», nel corso della sua storia, quasi ogni vent’anni la sua classe politica. Il ricambio delle élites politiche in Italia è avvenuta, per successive «rotture» [Grassi Orsini 2009, pp. 11 e ss] tanto che F. Forte ha formulato in proposito la «teoria dello shock» [Forte 2009]. Tali «rotture», con maggiore o minore incidenza, sono avvenute agli inizi degli anni Novanta del Settecento, con la prima e seconda Restaurazione, con l’Unità d’Italia, con la caduta della Destra, con la «rivoluzione parlamentare» della Sinistra storica, nell’età crispina, con la «svolta liberale» di inizi del secolo scorso, con l’avvento del fascismo, nel secondo dopoguerra, con la fine dell’età degasperiana e, parzialmente, con la fine della prima Repubblica.

Per quanto riguarda l’Italia di fine Settecento, che non conobbe un processo rivoluzionario paragonabile a quello che avvenne in Francia, si vennero a creare, durante il decennio francese, sistemi statali fortemente influenzati dalle idee d’oltralpe. Essi ebbero breve durata, ma favorirono l’ascesa di ceti borghesi, che ebbero una loro importanza nella vita delle associazioni segrete, nei moti risorgimentali pre-quarantotteschi e nei movimenti costituzionali del ’48. Non si può dire, tuttavia, che questi movimenti avessero promosso delle «rivoluzioni borghesi». D’altra parte, né alla Carboneria, né alla Giovane Italia aderirono solo borghesi (ma anche membri dell’aristocrazia, del clero e di ceti popolari). La stessa Giovane Italia, per quanto si rivolgesse al popolo, in realtà era un’organizzazione interclassista che faceva leva sui giovani per la formazione di un gruppo dirigente che potesse guidare la «rivoluzione italiana». Mazzini aveva accennato alla necessità di una «classe governante» e aveva parlato di «guide», impersonate dai «migliori» e dai «più capaci». Nello svolgere una critica ai sistemi socialisti utopici e al protocomunismo, aveva segnalato il pericolo della formazione di «caste» che avrebbero finito per governare «dall’alto verso il basso», concentrando tutto il potere nelle loro mani e imponendo la loro dittatura sulla società.

Con la Restaurazione gran parte del personale politico democratico fu oggetto di persecuzioni, costretto all’esilio o comunque allontanato dalla politica. Nel campo moderato non si poté fare a meno di trarre una lezione dagli avvenimenti. Ciò spiega perché i maggiori filosofi della politica furono indotti a cercare di sanare le ferite prodotte nel corpo sociale dalle divisioni ideologiche e sociali. Di conseguenza furono contrari a creare partiti che avrebbero diviso l’opinione pubblica e messo un ceto contro un altro, rischiando di rompere l’armonia sociale.

Rosmini, in una logica moderata, era contrario alle contrapposizioni sociali e politiche e si dimostrava un convinto critico del partito politico, esprimendo riserve sulla teoria della sovranità popolare. A prescindere da quali fossero le forme di governo, la questione era se i governanti dovessero attenersi al volere delle masse quando esse fossero in errore o la loro volontà fosse viziata dalle passioni, quando cioè esse si ponessero contro i fini della società, non realizzando delle «volontà veramente sociali». In sostanza, Rosmini contrapponeva il rispetto dei diritti naturali e inviolabili dell’uomo alla volontà della maggioranza, quando essa non fosse stata fondata sulla giustizia ma sulla «utilità pubblica». Rosmini non si nascondeva che gli «errori delle masse» fossero più facili e frequenti nei regimi democratici. Riferendosi ad alcune riserve espresse da Tocqueville a proposito del suffragio universale e della capacità delle masse di scegliere una classe politica onesta e competente, giungeva alla conclusione che anche una classe politica di elezione popolare avrebbe finito per essere una oligarchia.

Gioberti nel Primato non riconosceva le classi come funzioni sociali. Egli continuava a parlare di ceti in senso tradizionale; molto sfumata era, poi, l’immagine della borghesia. Quando si riferiva alla classe politica, Gioberti usava alternativamente i termini «governanti», «rettori» o «politici», ma non intendeva riferirsi a un gruppo o ceto in particolare, ma a individui che esercitavano una funzione politica.

Per quanto riguarda l’aristocrazia, egli dedicava ad essa una diffusa trattazione nel Primato e introduceva una distinzione tra «aristocrazia feudale» e «aristocrazia civile» o «patriziato», non tanto basandosi sull’origine, ma sulle qualità intrinseche di questo ceto. Nelle monarchie, quest’ultimo rafforzava la potestà del principe e contribuiva a temperarla, ma non se ne poteva fare a meno anche nelle repubbliche e perfino negli Stati Uniti d’America, considerati da alcuni un modello di libertà. Egli pensava che la legittimazione del «patriziato civile» doveva dipendere dalle virtù proprie e che a esso si dovesse richiedere il sapere, la scienza, le buone lettere, cioè una cultura utile per servire il principe e la patria ed a tal proposito ricordava che nella nobiltà ci fossero scrittori come D’Azeglio, Balbo, Provana, Petitti. La nobiltà doveva dimostrare modestia e non aver spirito di casta e senso di superiorità rispetto alle altre classi. Alla borghesia in quanto tale non era riconosciuta nessuna particolare funzione sociale, né titoli per rivendicare un ruolo dirigente e una funzione di classe politica, la quale continuava a essere quella selezionata dai meccanismi tradizionali.

Nei Prolegomeni, Gioberti lasciava cadere quello che sembrava essere un pregiudizio antiborghese e introdusse in luogo della borghesia il concetto di «ceto medio», che egli considerava come l’ordine dialettico dei cittadini, perché interposto fra aristocrazia ereditaria e volgo, fra il patriziato e la plebe. Questo ceto medio prendeva dall’aristocrazia i modi (la «creanza»), la ricchezza, la cultura e aveva in comune con la «plebe» l’operosità, la forza e il numero (la «moltitudine»). Per Gioberti nel ceto medio risiedeva la parte più sostanziale e viva della nazione ed egli lo definiva come ceto «virtualmente universale» in quanto rappresentava la «somma dei cittadini a gerarchia ordinati». L’influenza di questo ceto era un «termometro dell’incivilimento», tanto che nei Paesi più civili, il ceto medio non solo era più numeroso ma diveniva progressivamente più «comprensivo», perché dilatandosi avrebbe finito per comprendere l’aristocrazia e la plebe, in una parola tutta la società. Questo ceto doveva costituire la sintesi dialettica di tutti gli altri ceti.

Per quanto riguarda «la plebe», vista ancora come una «larva incrisalidata» e un «popolo in erba», l’invito era quello di farsi ceto medio: solo con l’aiuto della «opinione universale» sarebbe stato possibile trasformarla in un popolo di cittadini (plebe cittadina); creare un’unità «di mente e di cuori degli altri ceti»; «mostrare a ciascuno il suo vero utile». A formare l’opinione universale contribuiva però il «parere dei pochi», cioè dei «colti e degli ingegnosi». In altra occasione, invece, Gioberti parla di «scuola nazionale», la quale con «severi studi» e «senza la presunzione di governare» contribuiva alla formazione dell’opinione pubblica. Più diffusamente egli si riferiva all’«ingegno» come termine dialettico, intendendo «l’ingegno colto» e riferendosi a «uomini colti ed ingegnosi» che avevano il compito di formare l’opinione pubblica, egli indicava i giornalisti e gli scrittori, dato che nella formazione dell’opinione pubblica un ruolo importante era svolto dalla stampa. Gli uomini politici non dovevano essere scelti né per privilegi di nascita, né per censo, e la loro «capacità rappresentativa» avrebbe dovuto derivare dalla loro «capacità». Poiché esisteva una divisione del lavoro che richiedeva una «varietà d’ingegni», questi uomini dovevano avere una «capacità speciale»: l’«ingegno civile». Se Rosmini tendeva a non riconoscere a nessuna classe un ruolo dirigente e preferiva parlare di «governanti», come si vede Gioberti invece adombra il concetto di «élite».

Da parte loro i moderati (Farini, Balbo, D’Azeglio, Capponi, Ricasoli) ponendosi l’obiettivo dell’unità, dell’indipendenza della nazione italiana, si sforzarono di aggregare attorno al loro programma oltre che gli esponenti della borghesia liberale anche la parte più illuminata dell’aristocrazia e del clero. Il problema del rinnovamento della classe politica in Italia nel primo Risorgimento era abbastanza complesso perché strettamente legato alla questione nazionale, e per certi versi anche alla riforma della Chiesa. Era, quindi, necessario evitare i conflitti d’interesse tra le classi, così come i conflitti politici e lavorare per la «concordia sociale». Pur appartenendo, come Balbo, a una delle più antiche famiglie piemontesi, D’Azeglio concordava con Farini sul fatto che la nobiltà non fosse più una classe in senso sociale e politico, in quanto questo nome presupponeva un’autorità politica concessa a una classe su altre classi. Nella sua risposta alla Lettera del prof. Carlo Farini, intitolata Dei nobili e dell’attuale indirizzo delle opinioni italiane, si associava all’opinione di quest’ultimo, che assolveva l’aristocrazia italiana dalle accuse di aver tenuto una posizione «antinazionale», dimostrandosi uno strumento della Restaurazione. Tuttavia egli non riteneva che la nobiltà italiana potesse considerarsi un ceto omogeneo, per tradizione, condizione economica e funzione sociale, e tanto meno fosse possibile considerarla una classe politica.

D’altra parte, pur sostenendo D’Azeglio in quella lettera di volersi, lui appartenente alla nobiltà, farsi «avvocato difensore» della borghesia – posizione dialetticamente opposta al borghese Farini che si presentava come paladino della nobiltà – non intendeva concedere alla borghesia il monopolio del patriottismo e della democrazia. In realtà, se D’Azeglio riteneva superato e indifendibile nell’ordinamento della società moderna il «principio aristocratico», respingeva con la stessa energia l’egualitarismo portato avanti dai radicali e dai democratici. Nella lettera a C. Farini, pur considerando la diseguaglianza sociale un male, egli la riteneva un «male universale» e in un certo senso non eliminabile in assoluto. Ma pur perdurando le diseguaglianze sociali, i cittadini dovevano essere uguali dinanzi alla legge: una società civile doveva reggersi sulla giustizia e sul principio di legalità.

I costituzionalisti liberali, che rifiutavano di considerare la borghesia come una classe, ritenevano che il ceto politico, in un regime rappresentativo, dovesse essere selezionato attraverso i meccanismi elettorali, da una parte, ed i concorsi pubblici, dall’altra. In coincidenza con la polemica contro il parlamentarismo, la cui principale causa fu imputata alla cattiva formazione della classe politica in un regime di suffragio allargato, si sviluppò tra i sociologi e costituzionalisti una riflessione che portò alla elaborazione di una «teoria delle élites». Gaetano Mosca rifiutava il principio secondo cui l’organizzazione sociale migliore fosse quella fondata sul «preconcetto contemporaneo» e cioè sul principio di maggioranza, per il quale la democrazia era la forma normale di governo, in quanto espressione della volontà del Paese. Si trattava in realtà, secondo Mosca, di una presunzione legale, perché non era infatti concepibile una società, per quanto democratica, in cui il governo fosse esercitato da tutti. Anche in quel caso, infatti, sarebbe stata necessaria una macchina organizzativa, un’organizzazione composta naturalmente da una minoranza numerica. Per Mosca, infatti, in qualsiasi forma di governo, coloro che esercitano i pubblici poteri sono sempre una minoranza, al di sotto della quale vi è sempre una classe più numerosa di persone che, non partecipando mai realmente in alcun modo al governo, non fanno che subirlo. Il potere è dunque esercitato né da uno solo, né da tutti, ma da una «classe speciale» di persone.

Mosca attribuisce perciò una grande importanza al rinnovamento della classe politica, che normalmente avviene attraverso l’infiltrazione di alcuni elementi proveniente dagli strati più umili nelle classi elevate. Era preferibile che questo rinnovamento avvenisse in modo graduale e pacifico, «in modo di rinsanguare continuamente le classi dirigenti» e impedire l’esaurimento delle aristocrazie, che era destinato a portare a cataclismi sociali. Oppure questo cambiamento poteva avvenire in modo rapido e violento, a causa di rivolgimenti interni o in caso di crisi, che cambiano i criteri in base ai quali si reclutano le classi dirigenti e che ne mutano nel giro di pochi anni il personale. In alcuni casi questo cambiamento violento dava un grande impulso al progresso e molte volte, invece, era l’inizio di un periodo di decadenza e di dissoluzione di una civiltà [Mosca 1994, pp. 208 e ss.].

Da parte sua Pareto, nei suoi scritti sociologici, affronta il problema delle élites, partendo da una acquisizione di una legge individuata nel suo Cours d’economie politique, relativa alla distribuzione della ricchezza. La ricchezza – secondo Pareto – si distribuiva secondo una curva che descriveva un andamento simile a una «trottola»; la distribuzione della ricchezza dava luogo cioè ad una «piramide sociale»; una piramide che aveva una base molto larga e si andava restringendo mano a mano che si saliva verso l’alto: nella parte più bassa si collocavano i ceti poveri e alla sommità quelli più ricchi. La piramide rappresentava la parte esteriore dell’organismo sociale. All’interno di essa gli individui, come molecole, erano sempre in movimento; si muovevano dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso. Le classi superiori erano quelle più ricche e costituivano un’aristocrazia (un’eletta). Finché l’equilibrio sociale era stabile, gli individui che facevano parte di questo gruppo apparivano dotati di qualità tali da garantire l’esercizio e la conservazione del potere. Ma queste élites non duravano, perché tutte, prima o poi, erano colpite da una decadenza più o meno rapida. Le élites potevano sopravvivere soltanto con l’espulsione degli elementi meno efficienti e con la cooptazione di elementi nuovi, che appartenevano alle classi soggette. Vi doveva perciò essere fra élite dominante e classi soggette una continua circolazione: se questa circolazione non ci fosse stata o fosse stata troppo lenta, c’era il rischio che l’equilibrio si rompesse e si producesse una rivoluzione.

Questo processo di formazione e di circolazione delle élites è stato spesso interpretato, secondo Pareto, in modo «soggettivo», da parte degli storici e presentato come lotta tra le classi: aristocrazia (od oligarchia) contro il popolo. In realtà queste classi si sono disarticolate nel corso del tempo e non sono composte sempre dagli stessi individui ed è arbitrario attribuire ad alcune di esse valori di onestà, progresso, modernità e ad altre disvalori come la corruzione, il conservatorismo, il tradizionalismo.

Pareto si poneva anche il problema di come si potesse avvertire la decadenza di un’élite, che egli faceva dipendere dalla «invasione dei sentimenti umanitari», dalla «morbosa sensibilità verso le classi soggette». Un’élite per difendersi deve ricorrere anche alla forza, anche se bisogna distinguere la violenza dalla forza: un’élite che vuole conservare il suo ruolo deve lottare per la sua sopravvivenza e il diritto non è che l’esercizio della forza. Ma la forza deve avere dalla sua parte il consenso sociale.

Vi sono molti punti in comune tra questa legge sulla circolazione delle élites, enunciata per prima volta da Pareto nei Systèmes, con la teoria della classe politica, dell’equilibrio sociale e della difesa giuridica di Mosca, il che legittima la pretesa di primogenitura del giurista e sociologo siciliano sul concetto di élite. Partendo da questa premessa, Pareto cercava di delegittimare l’autorità dei governi unicamente fondati sul principio di maggioranza e contestava anche il binomio democrazia-progresso.

Già prima del suo distacco dal Psi, Salvemini aveva cominciato a porsi il problema del rapporto tra classi e potere politico e ad accettare l’assunto moschiano che esse, a prescindere dalle forme di governo, erano comunque delle minoranze organizzate e ciò valeva anche per i regimi democratici. Egli perciò rifiutò sin dagli inizi la classificazione prevalente nella sinistra della teoria delle élites come di una formulazione reazionaria tendente a frenare l’ascesa delle masse e dei partiti popolari, provocando un divorzio tra liberalismo e democrazia. Salvemini fu, forse, il primo nella Sinistra a spostare l’attenzione dall’allargamento della partecipazione alla formazione della classe politica e al rapporto tra classe politica e democrazia. In un passaggio del suo libro sulla Riforma della Scuola Media,egli scriveva:

Nessuna democrazia potrebbe a lungo mantenersi se, circoscrivendo ed assottigliando i privilegi di nascita e della ricchezza, non si curasse di sostituire alla vecchia aristocrazia di diritto una nuova aristocrazia di fatto, dalla intelligenza limpida e dalla retta e forte volontà, aperta a tutti, non ereditaria, rinnovabile continuamente ma sempre aristocrazia [Salvemini 1908, p. 417].

Per Salvemini la scuola era il luogo privilegiato della formazione delle «nuove» élites, che costituiva la precondizione dello sviluppo verso una moderna democrazia. Interessante è notare come egli utilizzi il termine «aristocrazia», invece di élite o «eletta» di derivazione paretiana, anche se in questo stesso passaggio, vi è un chiaro accenno alla circolazione delle élites. L’obiettivo di Salvemini era essenzialmente quello di far avanzare un progetto di riforma della politica – rivolto esclusivamente ai partiti democratici – nell’ambito del quale il rinnovamento della classe politica era un presupposto. Questo problema del rinnovamento della classe politica venne assunto da tutto il gruppo della prima «Unità», ma fu affrontato in maniera organica da Gino Luzzatto, che era il più aggiornato conoscitore della politologia del suo tempo (nei suoi scritti, oltre alla citazione imprescindibile di Mosca vi erano riferimenti a Michels e Ostrogorski). In un suo articolo intitolato Democrazia e partiti, del 1912, egli aveva scritto che:

Noi siamo […] democratici, non perché crediamo alla virtù del numero, o perché riteniamo che le folle dei lavoratori manuali abbiano maggiori attitudini che le persone ricche ed agiate al governo della cosa pubblica; ma perché siamo convinti della necessità che esista un’aristocrazia di governo, pur sapendo che una classe in tanto può aspirare al dominio politico, in quanto ha la virtù di sprigionare dal proprio seno e di scegliere i propri rappresentanti, un gruppo ristretto ed energico, crediamo, tuttavia, che queste élites non possano averenulla in comune coi governi aristocratici chiusi, e debbano trarre la loro forza dalla continua possibilità di rinnovamento e dal consenso più largo delle masse [Luzzatto 1912].

Egli specificava, inoltre, che «poiché ora appunto le vecchie classi, e le stesse aristocrazie operaie, che per ultime han conquistato il diritto alla rappresentanza politica, si son già dimostrate stanche e sfiduciate, si sono chiuse nella cerchia ristretta dei loro affari ed han preferito delegare il potere ai soli professionisti della politica, noi crediamo che non si possa uscire da questo marasma se non per affacciarsi alla vita pubblica di forze nuove, che minacciando dal di fuori le posizioni conquistate e determinando nuovi urti di interessi, impongano a tutte le classi produttrici di prendere posizione e di assumere direttamente la responsabilità del potere» [ibidem].

Se facciamo attenzione al linguaggio, sembra che il termine élite sia più di derivazione paretiana, piuttosto che moschiana e quello di aristocrazia operaia abbia una chiara ascendenza michelsiana. Altri concetti sono quello della distinzione, anche se implicitamente enunciata, tra classe dirigente e classe politica, quando si dice che la prima può aspirare al «dominio politico» in quanto è capace di esprimere un’élite politica (designandola come un gruppo ristretto di persone intelligenti ed energiche); quello della contrapposizione tra élites «tradizionali» ed élites «nuove» e tra élites «chiuse» ed élites «aperte» e ciò a prescindere dalla loro origine sociologica (anche un’aristocrazia operaia poteva essere chiusa quanto un’oligarchia borghese). L’apertura di un’élite era commisurata in definitiva al grado di rinnovamento e in questa sua idea del necessario rinnovamento delle élites, vi era una ripresa del concetto di circolazione di esse, anzi vi è qualcosa di più e cioè che quello che viene auspicato è un pluralismo delle élites, una lotta tra élites dominanti ed élites emergenti. Implicitamente, si può ritenere che egli consentisse con Mosca sul fatto che la riproduzione delle classi politiche, anche in un regime rappresentativo, fosse un processo indipendente dalla partecipazione e che costituiva un a priori rispetto alla legittimazione politica, anche se per essere democratica un’élite doveva poter contare su un largo consenso delle masse. Non vi doveva, quindi, necessariamente essere una contrapposizione tra élites e masse. Ne deduciamo che una contrapposizione può nascere solo quando le élites non si rinnovano e quando la designazione delle rappresentanze non avviene attraverso la partecipazione delle masse.

Nella «seconda» «Unità» il problema fu ulteriormente approfondito e negli interventi dedicati al tema venne in sintesi elaborata una definizione di teoria delle élites democratiche che era fondata su alcune caratteristiche: la platea da cui si traevano le élites in un regime democratico era più vasta; la loro circolazione era dal basso verso l’alto, ma anche dall’alto verso il basso con espulsione degli elementi meno validi; i processi della loro formazione erano sottoposti al controllo dell’opinione pubblica. La teoria delle élites fu ripresa da Gobetti e da «Rivoluzione Liberale» (il tema, oltre che da Gobetti fu dibattuto da numerosi collaboratori, e in particolare da G. Ansaldo). Il problema dei ceti medi e della trasformazione in borghesia moderna, inteso come «ceto dirigente ed equilibratore», fu al centro del dibattito al I congresso dell’Unione democratica di Amendola, in particolare nella relazione di M. Vinciguerra.

Ancora nel 1925, Salvemini torna a parlare delle élites come «forze consapevoli ed attive», protagoniste della storia contrapposte alle «moltitudini inerti» e alle «oligarchie paralitiche» e il discorso fu approfondito da Dorso nel suo Classe politica e classe dirigente, pubblicato postumo nel 1949 e in seguito anche da Burzio, nel libro L’essenza del liberalismo (1945). Il «circolo virtuoso» dell’élitismo democratico italiano si rafforza e non casualmente con gli scritti di Salvemini per il «Ponte» di Calamandrei (Il concetto della democrazia del 1946 e LaRivoluzione del ricco del gennaio del 1951) e per il «Mondo» di Pannunzio (Albertini 1914-15, 9 febbraio 1952).

G. Perticone sostiene la tesi che il rapporto classi dirigenti-élites politiche riguardo l’Italia è di fatto ribaltato rispetto allo schema normale di una democrazia liberale ad economia di mercato dove queste ultime sono espressione delle classi dirigenti [Perticone 1954]. Sempre in quegli anni sono da segnalare le considerazioni che nella stessa direzione conduceva Panfilo Gentile, che era stato collaboratore dell’«Unità» salveminiana, poi di «Risorgimento liberale» e del «Mondo» di Pannunzio [Gentile 1955].

Bobbio ha riconosciuto nei suoi Saggi sulla Scienza Politica in Italia, ma ancora prima nel suo scritto La teoria della classe politica negli scrittori democratici in Italia,la originalità di questo lineage italiano della «teoria delle élites democratiche», a partire appunto da Gobetti, Dorso e Burzio, ma senza riconoscerne la ascendenza salveminiana e unitaria. Si tratta di un particolare non secondario perché una volta documentata la paternità salveminiana e la data di inizio della discussione di questa dottrina, ne discende sia il carattere di originalità di questa teoria rispetto a elaborazioni successive e ovviamente la precocità nei riguardi delle elaborazioni americane. Lo stesso Stoppino nella sua prefazione al libro di Bacrach La teoria dell’élitismo democratico riconosce alla scienza politica italiana il merito di aver posto le basi del superamento della contrapposizione tra élitismo e teoria democratica. In proposito egli scrive che «la marcia di avvicinamento dell’élitismo verso la democrazia si accentuò con Filippo Burzio e Guido Dorso, che utilizzarono in chiave esplicitamente liberale e democratica l’insegnamento paretiano e moschiano». Ma le sistematizzazioni di Burzio e di Dorso e le stesse anticipazioni di Gobetti avrebbero potuto esistere senza la riflessione del «gruppo salveminiano» della «prima» «Unità»? Negli anni ’50 e ’60 del Novecento, salvo qualche eccezione, come quella di C.A. Jemolo, che si occupò delle «classi dirigenti» in Italia, di J. Meynaud, che scrisse sulle «categorie dirigenti», di F. Compagna, che esaminò il problema relativamente al Mezzogiorno e di G. Sartori, che condusse una importante ricerca sul ceto parlamentare, la cultura italiana fu pervasa da un «furore antiborghese», come scriveva L. Settembrini, in cui si segnalarono specialmente gli economisti di tendenza marxista, che furono «più realisti del re», andando oltre la stessa «politica dei ceti medi». Una cultura cioè dominata da una concezione della lotta di classe, fondata su un antagonismo dualistico borghesia-classe operaia, intesa come «classe rivoluzionaria» e «classe dirigente» in formazione. L’attenzione verso la «piccola borghesia» fu strumentale e determinata dalla esigenza di promuovere la sua ricollocazione nell’ambito di un blocco sociale «progressista». A gettare un sasso nello stagno fu, negli anni 70, il noto saggio di P. Sylos Labini nel quale egli si sforzò di rappresentare un’articolazione realistica della società italiana. Al di là delle interpretazioni di derivazione marxista, che hanno dominato la cultura economica di questo dopoguerra, i contributi più originali al discorso sulle élites rimangono quelli formulati dalla sociologia (Farneti, Pizzorno, Ferrarotti, De Rita) e dalla politologia italiana (il già citato Sartori, Cotta, Verzichelli), senza dimenticare costituzionalisti come Maranini, che denunciava le degenerazioni «partitocratiche» nella formazione della classe politica.

Negli anni Ottanta si segnala una «riscoperta» della borghesia, soprattutto nel campo degli studi storici e storico-istituzionali (Banti, Macry, Romanelli, Melis, Meriggi, Cammarano, Malatesta, per citare alcuni nomi) e in particolare, in questo settore, vanno segnalati i lavori di un gruppo di studiosi che negli anni Novanta hanno promosso il «ritorno alla storia politica», ponendo al centro delle loro indagini le classi politiche.

Per quanto concerne la posizione dei liberali a riguardo del problema delle classi dirigenti, si deve notare che sia nei programmi clandestini e, poi, in quelli immediatamente dopo la ricostituzione dei partiti, la questione dei ceti medi ebbe una sua centralità, per non parlare della battaglia di «Risorgimento Liberale» in difesa della borghesia. Il fatto è che il tema venne sfumato per evitare di essere oggetto di delegittimazione nel prevalente clima antiborghese, mentre riacquistò dignità a partire dall’avvento di Malagodi alla direzione del partito.

Se si vuole ritrovare il filo conduttore della tradizione liberale, non si può fare a meno di riferirsi alle numerose riflessioni di Croce sulla funzione della borghesia come classe generale e sulla classe politica come «classe pensante» che «ha per sua occupazione gli interessi generali e si immedesima nello Stato-sostanza».

Il concetto di borghesia come «classe generale» fu – come noto – trattato organicamente da Croce nel suo saggio Sul concetto di borghesia, scritto nel 1924 e inserito nel volume Elementi di politica del 1925. Nel suo articolo L’avversione alla borghesia, scriveva:

La borghesia è, nel proprio concetto, la classe «media», non in senso economico, ma in quello politico di mediatrice (e come diceva Hegel di classe non classe) perché temperata e liberale, sapeva mentalmente e moralmente elevarsi sui contrasti delle persone e degli interessi materiali e storicamente s’identificava col moto della civiltà e della libertà moderna [Croce 1960, pp.42 e ss].

Croce confutava le interpretazioni della borghesia come ceto economico e ne dava una formulazione etico-politica, considerandolo un ceto dirigente la cui funzione è quella di ricercare l’interesse generale, contraddistinguendolo come «classe non classe» e cioè «come il complesso di tutti coloro che ha vivo il sentimento del bene pubblico, ne soffrono la passione, affinano e determinano i loro concetti a quest’uopo, e operano in modo conforme». Riecheggia la definizione crociana in un libro «eterodosso» di Sergio Ricossa, Straborghese, pubblicato negli anni Ottanta e recentemente riedito.

Da segnalare, infine, le conclusioni cui pervengono gli autori dei saggi contenuti nel numero monografico di «VentunesimoSecolo» su Classi dirigenti ed élites politiche nella storia d’Italia, dove viene svolta un’indagine storica e sociologica (F. Grassi Orsini), viene ricostruito il dibattito su classi dirigenti e classe politica negli anni repubblicani (G. Nicolosi), viene analizzato il carattere delle classi dirigenti (F. Forte) e le modalità della loro formazione (A. Galdo) e dove si colgono gli elementi di continuità e di cambiamento nel ceto parlamentare nella seconda Repubblica (L. Verzichelli). Secondo questi autori, esauritasi la classe politica prefascista negli anni Cinquanta del ’900, i partiti di massa – che hanno dominato la società e l’economia – hanno assunto il quasi monopolio della formazione della classe politica. Con la loro politica viziata da un pregiudizio antiborghese, questi hanno favorito, loro malgrado, l’emergere di un ceto medio di massa che non ha le caratteristiche di una borghesia moderna. Rimane viva quindi la speranza, anche se si è consapevoli delle difficoltà, che possa avvenire la trasformazione di questi ceti medi in una classe dirigente capace di esprimere una classe politica moderna. Si tratta di un problema antico ma allo stesso tempo attualissimo della società italiana.

Bibliografia

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Brano tratto dal "Dizionario del liberalismo italiano", edito da Rubbettino Editore. Clicca qui per acquistarlo con il 15% di sconto