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Eguaglianza

di Alberto Giordano

La riflessione liberale sull’eguaglianza caratterizza prepotentemente gli ultimi decenni del Diciannovesimo secolo e, ancor più intensamente, la prima metà del Novecento. Non che in precedenza essa mancasse dalle opere degli autori che, più o meno fedelmente, si ispiravano al patrimonio concettuale del liberalismo: basti pensare, per limitarci a due celebri esempi, alle (contrastanti) considerazioni svolte in merito da Carlo Cattaneo e Ruggero Bonghi. Ma solo con la diffusione del socialismo, specie marxiano, e dell’anarchismo à la Bakunin, oltre che alla formazione di un forte Partito socialista, i liberali furono spinti a confrontarsi con l’ingente domanda di eguaglianza sostanziale che quelle dottrine, e i movimenti che vi si ispiravano, portavano con sé.

Non a caso i primi a reagire furono gli economisti, con in testa Vilfredo Pareto e Maffeo Pantaleoni, i due alfieri della rivoluzione marginalista italiana. Pareto, che ai sistemi socialisti avrebbe dedicato un celebratissimo studio, opponeva alla generale tendenza egualitaria e livellatrice diffusa negli ultimi decenni dell’Ottocento la spinta affrancatrice della libertà civile, politica ed economica, convinto che «l’intervento dello Stato per mutare la distribuzione della ricchezza», reclamato a gran voce dai sostenitori dell’eguaglianza economica, avrebbe in realtà finito col «favorire gli abbienti, invece di intendere a sollevare le sorti dei miseri» [Pareto 1987, p. 377]. Dal canto suo Pantaleoni, in quello che rimane il suo scritto divulgativo più efficace, rivendicava per i liberali il compito di difendere «l’individualismo, un sistema di autarchia e di responsabilità, un sistema di self-government», e soprattutto di combattere il «mortifero» collettivismo. Quest’ultimo, infatti, «vuole eguaglianza delle posizioni iniziali e di arrivo» e in vista di ciò «mira a sottoporre la condotta dell’individuo ad una regola impostagli da altri», senza che i suoi sostenitori realizzassero quanto una simile regolamentazione avrebbe soffocato le migliori energie creative dell’uomo, specie nel campo economico, e che, in conclusione, «i suoi fini più nobili non possono essere realizzati che da quel sistema di individualismo che esso condanna» [Pantaleoni 1925, I, pp. 262, 293].

Ma se la critica della filosofia egualitaria sviluppata da Pareto e Pantaleoni affonda le radici, in ultima analisi, nell’economia politica di Francesco Ferrara, è senza dubbio nell’ambito delle scienze sociali e politiche che l’approccio liberale al tema dell’eguaglianza venne maggiormente coltivato. Gaetano Mosca assunse come dato di fatto la diseguaglianza politica ed economica tra gli individui e vi fondò la propria notissima teoria della classe politica: la diseguaglianza naturale degli uomini fa sì che «in tutte le società, a cominciare da quelle più mediocremente sviluppate e che sono appena arrivate ai primordi della civiltà, fino alle più colte e più forti, esistano due classi di persone: quella dei governanti e l’altra dei governati» [Mosca 1982, II, p. 608]. L’unica eguaglianza realisticamente possibile all’interno del corpo politico restava dunque quella di fronte alle leggi, uno degli elementi costitutivi della cosiddetta «difesa giuridica» – l’insieme di quei «meccanismi sociali che regolano la disciplina del senso morale» [Mosca 1982, II, 679]. Analogamente Pareto aveva notato, nel suo imponente Trattato, che «piaccia o non piaccia a certi teorici, sta di fatto che la società umana non è omogenea, che gli uomini sono diversi fisicamente, moralmente, intellettualmente»; di qui l’origine delle élites e della «diversità dei moltissimi gruppi sociali, e i tanti mai modi coi quali si mescolano» [Pareto 1988, III, p. 1939].

Per larga parte dei liberali, elitisti compresi, la critica del concetto di eguaglianza sostanziale preludeva peraltro al rigetto del pensiero democratico di derivazione roussoviana. Se già Mosca aveva ammonito che l’impossibilità di una concreta eguaglianza delle condizioni e persino dei diritti politici precludeva alla «dottrina della sovranità popolare» e alle rivendicazioni dei democratici, fondate «sul concetto che la maggioranza dei cittadini di uno Stato possa, anzi debba, partecipare alla vita politica» [Mosca 1982, II, p. 611], fu Benedetto Croce a sferrare il più poderoso attacco all’idea di eguaglianza e alla sua applicazione nella sfera politica. Andava innanzi tutto tracciata una netta demarcazione tra concezioni democratiche e liberali dell’eguaglianza: secondo le prime, «gli individui erano centri di forze pari a cui bisognava assegnare un campo pari o un’eguaglianza, come dicevano, di fatto», mentre per le seconde «gli individui erano persone, la loro eguaglianza quella sola della loro umanità, e perciò ideale o di diritto, libertà di movimento e di gara» [Croce 1995, p. 44]. Di conseguenza, per i liberali risultava inaccettabile quella «teoria politica che, per evitare fraintendimenti, chiameremo non già democratica e neppure giacobina, ma, quale essa è, egualitaria»; una teoria fondata su di una «eguaglianza che non sarebbe pensabile se non nella forma di autarchia, del pieno appagamento dell’individuo in sé medesimo, che non ha nulla da chiedere all’altro, al quale è eguale; e perciò in una forma così fatta, che non può valere a fondare lo Stato, ma per contrario ne mostra la superfluità, essendo, in tale ipotesi, ogni individuo uno Stato a sé». In un siffatto contesto, i medesimi valori di libertà e fraternità sarebbero divenute solo vuote parole «e, come vuote, aperte ad ogni arbitrio», concesse o negate a seconda del volere momentaneo; in fondo, si chiedeva ironicamente Croce, «che cosa c’è di più stupido della “libertà” e “fraternità”, attribuite a una fila di fredde, lisce ed eguali palle da bigliardo?» [Croce 2002, pp. 191-192].

Conclusione accettata sostanzialmente, almeno in ambito politico, da Luigi Einaudi, pronto a scorgere in «ogni governo [l’]espressione di una minoranza» e a credere che la volontà generale altro non fosse se non una «astrazione inesistente» [Einaudi 1920, p. 47]. Eppure proprio a Einaudi si deve la più originale e approfondita riflessione di area liberale sul tema dell’eguaglianza dei punti di partenza. Se già dai primi anni Venti era presente negli scritti einaudiani la predilezione per uno Stato «il quale cerca di dare agli uomini le opportunità più uniformemente distribuite per partire verso mete diversissime o lontanissime le une dalle altre» [Einaudi 1973, I, p. 37], solo nel primo lustro degli anni Quaranta egli sviluppò organicamente e sistematicamente le proprie posizioni in materia. Si trattava di compiere lo sforzo di «creare le condizioni giuridiche e le situazioni economiche atte a rendere meno disuguali che far si possa i punti di partenza dei singoli uomini nella gara della vita», respingendo tuttavia il tentativo di instaurare «l’uguaglianza assoluta», fonte di «asservimento nella miseria», e preservando grazie all’azione del mercato, la «necessità di promuovere il risparmio e la produzione», accompagnata dalla diffusione della proprietà «quanto più largamente possibile tra le moltitudini» [Einaudi 2001, pp. 45-46]. E tuttavia, come giustificare secondo l’ottica liberale un simile intervento – sia pur «conforme» e di cornice – a opera delle autorità pubbliche?

La ratio di misure atte a instaurare una effettiva eguaglianza dei punti di partenza affondava le radici in un argomento di sapore milliano: stabilito che «la società ideale non è una società di gente uguale l’una all’altra [bensì una] composta di uomini diversi, i quali trovano nella diversità medesima i propri limiti reciproci», risultava consono al fine del liberalismo – l’elevazione materiale, morale e spirituale degli individui – che, grazie all’intervento dei poteri pubblici, si garantisse a coloro i cui «genitori non riescono a consentire ad essi di partecipare alla gara della vita senza troppo grave soma iniziale» di ottenere «quel minimo che sia indispensabile affinché essi non siano costretti ad accettare subito quelle qualsivoglia più basse occasioni di lavoro che ad essi si presentano e possano attendere a fare la scelta di lavoro considerata meglio conforme alle loro attitudini» [Einaudi 1977, pp. 250, 309]. Ciò, beninteso, evitando di superare «il punto critico, al di là del quale comincia fatalmente l’asservimento al tiranno» e perciò non contraddicendo ai presupposti del liberalismo classico. D’altra parte, a parere di Einaudi, persino «i Galiani, i Verri, gli Smith, i Turgot, i grandi liberali del secolo XVIII» non avrebbero avuto nulla da obiettare di fronte alla proposta di un «sistema tributario il quale promuovesse il risparmio e attenuasse, senza giungere al mortifero livellamento, la disparità delle fortune» [Einaudi 2001, pp. 6-7].

Posizioni largamente condivise da numerosi teorici neo-liberali: si pensi a Filippo Burzio, che aveva enfatizzato la funzione «sociale» e potenzialmente egualitaria della proprietà privata, considerandola «un attributo e un palladio della personalità umana» [Burzio 1945, pp. 170-171], e a Panfilo Gentile, secondo il quale l’idea «della personalità dell’individuo, del suo sviluppo, deve valere nei confronti di tutti gli individui» e dunque integrarsi «con l’altro principio dell’eguaglianza» [Gentile 1946, p. 2]. Ma pure, a testimonianza della molteplicità dell’approccio liberale al concetto di eguaglianza, fortemente criticate da chi, come Bruno Leoni, riteneva impropria qualsiasi dilatazione della sfera pubblica per mezzo della legislazione, uno strumento apparentemente «veloce, razionale e di ampio respiro» sebbene in realtà troppo coercitivo ed esteso «per rappresentare davvero un rimedio per tutti coloro ai quali si rivolge», e considerava invece benefica la classica formula della «eguaglianza di tutti i cittadini davanti alle leggi» incarnata nella tradizione anglo-americana del rule of law [Leoni 1961, pp. 5, 62].

Bibliografia

Burzio F., Essenza ed attualità del liberalismo, Utet, Torino 1945; Croce B., Etica e politica (1931), a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1994; Id., Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932), a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1995; Id., La religione della libertà. Antologia degli scritti politici, a cura di G. Cotroneo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002; Einaudi L., Lettere politiche, Laterza, Bari 1920; Id., Il Buongoverno. Saggi di economia e politica, voll. 2, a cura di E. Rossi, Laterza, Roma-Bari 1973; Id., Lezioni di politica sociale (1944), a cura di F. Caffé, Einaudi, Torino 1977; Id., Riflessioni di un liberale sulla democrazia (1943-47), a cura di P. Soddu, Olschki, Firenze 2001; Gentile P., Liberalismo, capitalismo, comunismo, in «La Città Libera», a. II, 1946, n. 3; Leoni B., Freedom and the Law, Van Nostrand Company Inc., Princeton 1961; Mosca G., Scritti politici, vol. I: Teorica dei governi e governo parlamentare (1883); vol. II: Elementi di scienza politica (1896-1923), a cura di G. Sola, Utet, Torino 1982; Pantaleoni M., Erotemi di economia, voll. 2, Laterza, Bari 1925; Pareto V., I sistemi socialisti (1901-1902), a cura di G. Busino, Utet, Torino 1974; Id., Scritti politici, vol. I, a cura di G. Busino, Utet, Torino 1987; Id., Trattato di sociologia generale (1916), ed. critica a cura di G. Busino, voll. 4, Utet, Torino 1988.

Brano tratto dal "Dizionario del liberalismo italiano", edito da Rubbettino Editore. Clicca qui per acquistarlo con il 15% di sconto