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Costituzionalismo

di Giorgio Rebuffa

 Il costituzionalismo è l’insieme delle dottrine politiche e giuridiche che argomentano le ragioni per cui si pongono limiti ai poteri. Le dottrine del costituzionalismo, nella loro versione moderna, vanno fatte risalire a due momenti precisi: all’età della Rivoluzione inglese a quella della Rivoluzione Atlantica, nella seconda metà del secolo XVIII. Il costituzionalismo è, dunque, una dottrina generale dei limiti di esercizio dei poteri normativi, alla discrezionalità nel creare regole vincolanti da parte del potere politico. In quanto fondato sull’idea che ogni potere sia limitabile, il costituzionalismo nasce quando si afferma l’idea che la «ragione artificiale» (il diritto) sia superiore alla «ragione del re» (il comando).

 Tutto inizia con la grande crisi della sovranità nell’Inghilterra del principio del Seicento. Scrive Thomas Hobbes: «Se per il tempo come per lo spazio si potesse parlare di alto e basso, credo davvero che la parte più alta del tempo sarebbe quella compresa tra il 1640 e il 1660. Chi, infatti, da quegli anni, come dalla montagna del diavolo, avesse guardato il mondo, ed osservato le azioni degli uomini, specialmente in Inghilterra, avrebbe potuto avere un panorama d’ogni specie di ingiustizia, e d’ogni specie di follia che il mondo era capace di offrire, e constatare com’esse erano prodotte dalle loro madri, ipocrisia e presunzione, delle quali l’una è doppia iniquità, l’altra doppia follia». È in questo momento, nel «tempo alto» di quei decenni, che si attua la grande trasformazione della politica: la trasformazione della legittimità, da assoluta ed extramondana a rappresentativa. Ed è allora che inizia la costruzione della forma politica moderna, il Parlamento. È dunque la lotta politica del Seicento che porta alla sostituzione del principio di legittimazione del paternalismo e dell’assolutismo con il meccanismo rappresentativo.

 Questo è precisamente l’esito della Gloriosa rivoluzione del 1688, razionalizzato nei Due Trattati sul Governo, di John Locke. Possiamo indicare le tappe di questo passaggio. Il primo momento è quando nel 1610, nel BonhamCase, sir Edward Coke annuncia la supremazia della Common Law, cioè delle norme sedimentate nella giurisprudenza delle Corti, sulle norme prodotte dal re: «Le cause che riguardano la vita, la libertà, i beni dei sudditi non possono essere decise in base alla sola ragione naturale, ma devono essere decise dalla ragione artificiale, che un giudizio che richiede lungo studio ed esperienza per stabilire cosa sia il diritto». Fissato questo principio, le tappe successive sono le «carte delle libertà inglesi». La Petition of Rights, del 1628, garantisce l’inviolabilità dei beni e la libertà personale anche di fronte al re. Lo Habeas Corpus Act, del 1679, afferma il primato della giurisdizione e conferma l’antico divieto agli arresti arbitrari. Il Bill of Rights, del 1689, dà forma legislativa al sistema delle tutele personali e fissa i limiti all’azione del re. Infine, l’Act of Settlement, del 1701, stabilisce – tra molte altre cose – il principio dell’inamovibilità dei giudici.

 Dalla lunga esperienza inglese Montesquieu trae il principio generale secondo cui la funzione di una costituzione è quella di fissare limiti al potere: «perché non si possa abusare del potere bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere freni il potere. Una costituzione può essere tale che nessuno sia costretto a compiere le azioni alle quali la legge non lo costringe, e a non compiere quelle che la legge gli permette». Sono le parole con cui nell’Esprit des Lois si chiude il discorso sulla Costituzione inglese.

 Gli assetti costituzionali moderni sono la conseguenza della monopolizzazione dei poteri normativi da parte di un’istanza politica unica e centralizzata. È il processo che ha inizio con l’assolutismo e che termina con l’età delle rivoluzioni, dando luogo a quella formazione politica detta «stato moderno». Con le parole di Max Weber: «Lo sviluppo dello stato moderno viene ovunque promosso dall’avvio dato da parte del principe all’espropriazione di quei “privati” che si trovano accanto a lui investiti di un potere di amministrazione indipendente […] Alla finesi vede che nello stato moderno la facoltà di tutti i mezzi di impresa politica è concentrata in un vertice unico […]».

 Tra le conseguenze di tale accentramento vi è l’estensione delle materie che il «sovrano» può regolare con le norme da lui emanate e l’indeterminazione dei contenuti di tale regolamentazione. È lo «Stato legislativo» indicato da Carl Schmitt: «la cui peculiarità consiste nel fatto che esso scorge l’espressione più alta e decisiva della volontà comune in normazioni, che vogliano essere diritto, che perciò pretendono di avere determinate qualità, e alle quali quindi devono essere subordinate tutte le altre funzioni, competenze e attività».

 È in questo quadro che va collocato, nei suoi termini generali, il problema dell’individuazione degli strumenti per porre limiti alla discrezionalità, nello Stato moderno potenzialmente illimitata, dei titolari dei poteri normativi (e, in senso lato, «politici»). Le prime soluzioni sono prospettate riformulando l’antica dottrina della separazione dei poteri; riformulazione che ha luogo tra la fine del Seicento e la seconda metà del Settecento, modulata in molti scrittori, ma soprattutto da Locke e Montesquieu. Il postulato base di questa dottrina nella sua versione moderna è che condizione imprescindibile della libertà politica, intesa come la riduzione al minimo dell’interferenza di soggetti pubblici nella sfera privata, sia la divisione di tutta l’attività dei soggetti pubblici in tre settori: la creazione di norme (potere legislativo), la loro applicazione (potere esecutivo), la soluzione di controversie (potere giudiziario).

 Questa divisione in settori dell’attività pubblica deve essere sia funzionale che organizzativa: «funzionale» nel senso che le attività di ciascun potere hanno caratteri formali che li distinguono e si svolgono in base a una ripartizione di competenze. «Organizzativa» vuol dire, poi, che tali attività distinte devono essere compiute da soggetti diversi, ovvero da organi separati. La rielaborazione moderna della dottrina della separazione dei poteri si compone dunque di due parti: una relativa alle formedegli atti dei poteri pubblici, e una relativa all’organizzazionedei loro rapporti.

 La trasformazione moderna della dottrina avviene con due ridefinizioni concettuali. In primo luogo ogni settore dell’attività di governo, ogni «potere», è confinato all’esercizio della propria funzione; e solo di questa: ciascuna funzione va esercitata da organi distinti. In secondo luogo, si afferma che garanzia della libertà politica è che a ciascuno dei poteri individuati venga attribuito soltanto un segmento dell’attività normativa, ma che le norme generali vincolanti siano il prodotto della reciproca interferenza. In tal modo ciascuno dei poteri pubblici è limitato dall’attività degli altri.

 Alla fine del Settecento viene riformulata la definizione dei diritti soggettivi, che aveva costituito il nucleo della Rivoluzione inglese. Le definizioni che troviamo alle origini del pensiero politico e giuridico moderno possono essere ricondotte nei loro lineamenti essenziali a due idee contrapposte di Costituzione. Nel primo, la Costituzione viene intesa come documento scritto, obbligatorio e vincolante, redatto perciò con le terminologie e le formule della cultura giuridica. Tale modello viene di solito definito «volontaristico», perché la Costituzione è considerata un «atto di volontà» che crea e stabilisce un assetto dei rapporti politici e «dichiara» i diritti. Nel secondo modello, la costituzione viene pensata come un particolare «assetto storico dei rapporti politici e giuridici», non necessariamente esposto in un documento scritto. In questo caso Costituzione coincide quasi sempre con «struttura dell’ordine politico», ed è una metafora che serve a indicare le sue «leggi fondamentali». Questo secondo modello viene indicato come «tradizionalistico», in quanto l’ordine costituzionale è pensato come il prodotto dell’accumularsi di consuetudini e di tradizioni che regolano i rapporti politici, le immunità, i privilegi, i diritti di soggetti singoli o collettivi.

 Tutte le concezioni di costituzione che incontriamo nelle teorie giuridiche e politiche dell’età moderna derivano da questi due modelli. Il nucleo del dibattito costituzionale a partire dal Settecento può essere riassunto nella contrapposizione tra l’idea di Costituzione che si fonda sulla tradizione e l’idea di una costituzione innovativa, fondata sulla volontà creatrice di un’assemblea. Questa contrapposizione è sintetizzata da due testi: le Reflections on the French Revolution,di Edmund Burke, del 1790, e i Rights of Man di Thomas Paine del 1791.

 Burke è il capostipite di una lunga tradizione penetrata poi, sebbene con mutamenti di prospettive e di linguaggi, nel costituzionalismo moderno. L’obiettivo di Burke è quello di una radicale critica alla dottrina costituzionale della Francia rivoluzionaria. Il suo punto di partenza è l’opinione secondo cui le istituzioni fondamentali di una comunità non possono essere costruite su una tabula rasa e non possono né funzionare né durare se fondate su un mero atto di volontà. Al contrario le istituzioni costituzionali durature sono il lento prodotto della tradizione e delle consuetudini.

 Una costituzione è, in primo luogo, un «sistema di vincoli e di patti sociali» che lega tra di loro le parti costitutive di uno Stato. Una Costituzione rappresenta quindi non un equilibrio attinente al sistema politico, ma al «corpo sociale». «Costituzione» è solo un’espressione di sintesi per indicare un sistema di ripartizione di competenze e di interessi tra parti costituenti il corpo sociale; e sono le prassi e le tradizioni a fissare questo equilibrio, non le regole «create».

 Forse più importante è un altro aspetto delle tesi di Burke, quello relativo al fondamento dei diritti: coerentemente alle opinioni «tradizionaliste» in tema di Costituzione, i diritti non possono avere alcuna base «naturale» o «razionale», ma esclusivamente una base «storica». I diritti, afferma Burke, citando un passo di uno dei documenti costituzionali della Rivoluzione inglese, la Petition of Rights,hanno un solo possibile fondamento, l’ereditarietà; essi non possono quindi essere tutelati «sulla scorta di astratti princìpi concernenti i diritti delluomo, ma come diritti degli inglesi derivati dai propri avi».L’ereditarietà è per Burke il «principio della nostra società» e attraverso di essa si trasmettono «le istituzioni politiche, i beni di fortuna, i doni della provvidenza».

 Va segnalata peraltro una differenza delle tesi di Burke rispetto al «tradizionalismo» costituzionale francese: per Burke il principio dell’ereditarietà ha la funzione di strumento di legittimazione della forma di governo perché esso «ha dato a questa nostra associazione la forma di un legame di sangue, legando la costituzione del nostro paese ai più cari legami domestici, dando un posto alle nostre leggi fondamentali nel cuore delle nostre affezioni familiari. Le ragioni, quindi, dell’ereditarietà come fondamento dei diritti sono funzionali e connesse al fatto che esso collega la sfera pubblica e quella privata e non hanno alcun legame con l’origine guerriera e di conquista dei privilegi di ceto.

 La Costituzione «geometrica e matematica» dei francesi, secondo Burke, ribalta questa concezione dei diritti «storici» per sostituirli con i generici e indifferenziati diritti dell’uomo; mentre «i veri diritti dell’uomo risiedono in una zona media, difficile a definire, ma non impossibile a percepire. I diritti dell’uomo in una società civile, sono i suoi stessi vantaggi; e questi non vengono mai espressi in assoluto […] La ragione politica è un principio di calcolo: è una lunga serie di somme, sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni, operazioni tutte morali, e non metafisiche o matematiche, compiute su fattori squisitamente morali». Burke cerca quindi di costruire una visione dei diritti fondata su «compromessi» ed «equilibri» tra interessi, prospettando una distinzione tra diritti «economici», relativi a beni materiali, e diritti «politici», relativi al «governo». Ed è l’affermazione dell’assolutezza di questi secondi che egli critica come l’aspetto di maggior debolezza della dottrina costituzionale della Rivoluzione francese. I diritti astratti della Rivoluzione non riguardano infatti soltanto la ripartizione dei beni («una giusta porzione di quanto la società, con la sua combinazione di abilità e forza può fare in suo [dell’individuo] favore»),ma sono pensati soprattutto come diritti all’amministrazione dello stato, diritti di governo, diritti politici. Al contrario, se di diritti naturali si può parlare, questi possono riguardare solo la sfera dell’autoconservazione, i diritti sui beni e non i diritti politici: «e per quanto riguarda la parte di potere, autorità e direzione che spetta ad ogni individuo nell’amministrazione dello Stato, nego che questa faccia parte direttamente degli originali diritti dell’uomo in una società civile – perché io considero solo l’uomo in una società civile – e ritengo che sia invece stabilito per convenzione». Per Burke vi sono dunque due punti fermi: il fatto che l’entrata nella società civile comporta l’abdicazione da parte di ciascuno del «diritto di farsi governatore di se stesso»; e il fatto che i diritti di governo non possono essere attribuiti a singoli individui, ma a gruppi per la tutela dei loro interessi collettivi.

 Questa posizione deriva da una particolare concezione dell’eguaglianza, possibile solo all’interno di aggregazioni collettive e di «ranghi sociali»: l’eguaglianza non riguarda la generalità degli individui, ma solo i soggetti in quanto appartenenti a un determinato «rango». È per contro necessario che tra i ranghi sociali vi sia diseguaglianza. Infatti, secondo Burke, la diseguaglianza tra i soggetti collettivi, i «ranghi», rende possibile l’esercizio «limitato» dei poteri pubblici; limitazione che verrebbe travolta dall’eguaglianza assoluta tra individui. È quello che Burke chiama «il principio della cavalleria» e che serve «a comporre in armonia le differenti gradazioni della vita sociale».

 Al di là del linguaggio immaginoso Burke è, dunque, un sostenitore della funzione di limitazione al potere politico costituita dalle aggregazioni intermedie della società. È il suo, potremmo dire, un «costituzionalismo senza eguaglianza». Questo punto conduce al centro della costruzione di Burke, l’analisi dei limiti della stessa rappresentanza. Egli usa espressioni durissime verso il sistema rappresentativo delineato dalla costituzione francese, e in particolare verso l’idea che identifica rappresentanza egualitariae libertà costituzionale. Per Burke questa identificazione è la premessa del dispotismo perché spezza la funzione di limite all’esercizio del potere costituito dalla rappresentanza degli interessi aggregati riuniti nei cosiddetti «corpi intermedi». Questi, infatti, posti in posizione diseguale, costituiscono un sistema di governo in grado di limitare ogni discrezionalità e le tentazioni di ritorno a qualche forma di assolutismo. Il sistema del costituzionalismo inglese appare a Burke un efficace meccanismo di equilibri. Esso è «una monarchia regolata da leggi, controllata ed equilibrata dalle grandi forze della ricchezza ereditaria e della dignità ereditaria, ambedue a loro volta controllate giudiziosamente dalla ragione e dal sentimento del popolo rappresentato in un organo adeguato e permanente». Burke descrive, dunque, la Costituzione inglese come un sistema di «patti sociali» tra loro in equilibrio, che si limitano reciprocamente: solo in questo modo si può avere un efficace antidoto a ogni forma di governo «assoluto» (monarchico o democratico) che travolgerebbe i limiti.

In conclusione, i punti centrali della riflessione di Burke sono due: le «parti» che compongono lo Stato sono aggregazioni rappresentative di interessi contrapposti e diseguali; tali «parti» sono reciprocamente subordinate e limitate; il che dà luogo a una forma di governo «costituzionale». All’opposto di questo ideale di costituzione si trova invece, secondo Burke, il sistema che si va costruendo in Francia, dove un’assemblea sovrana, unica, solitaria e senza contrappesi, è proprio l’opposto dell’armonia delle «parti sociali», tra loro in reciproca limitazione: «Vediamo un organismo senza leggi fondamentali, senza massime stabilite, senza norme di procedura rispettate, che niente può vincolare ad un sistema qualsiasi». Una Costituzione è, prima di tutto, un sistema di limiti che riguardano gli interessi e le parti del corpo sociale. La cristallizzazione di un tale delicato equilibrio in un documento che «dichiara» diritti fondamentali, con poca o scarsa attenzione per i meccanismi effettivi di limitazione dell’esercizio del potere, non è altro che la premessa della «tirannia di partito». Con Burke siamo dunque ancora all’interno di una visione costituzionale «tradizionalista», secondo cui l’ordine politico riflette l’ordine sociale.

 La confutazione delle opinioni di Burke viene sviluppata da Thomas Paine, soprattutto nell’opera Rights of Man,pubblicata nel 1791. Apparentemente il problema di partenza è lo stesso di Burke: come garantire l’immutabilità e la stabilità delle istituzioni politiche. Per Paine lo strumento più adatto è proprio una «Dichiarazione dei diritti» o, come la definisce, una «contemplazione razionale dei diritti». Questo perché, i diritti individuali sono un fenomeno politico immutabile, sono stabili per se stessi. Paine riformula i postulati della tradizione giusnaturalista, volgendoli alla costruzione di una politica costituzionale. In primo luogo – afferma – la Costituzione, considerata come il rinnovamento di un patto, deriva dai diritti: la «scoperta» dei diritti, la loro «contemplazione razionale», crea il patto costituzionale. Ed è principalmente per questa ragione che essa deve essere espressa in un documento scritto. Non vi sono più, nell’ottica di Paine, «diritti storici» né «interessi» del corpo sociale; la costituzione è un atto di fondazione dell’ordine sociale e politico che abbatte tutte le istituzioni precedenti e tutte le istituzioni politiche sono sottoposte «al vaglio dei diritti».

 In secondo luogo tali diritti, «naturali» (e perciò «assoluti») costituiscono il limite ai poteri e determinano il contenuto dello stesso contratto sociale; in quanto diritti individuali essi postulano come unici contraenti gli individui. In tal modo la costituzione riflette un ordine sociale «minimo» che diventa il fondamento dell’ordine politico: «La costituzione precedeilgoverno, e il governo non è che una sua creatura». I diritti non possono più essere immaginati come appartenenti a «gruppi», a «ceti», a «ordini». Tutto ciò cambia la natura della Costituzione perché il patto costituzionale è un contratto politico e non un contratto sociale: gli equilibri del «corpo sociale» non hanno più niente a che fare con quelli del «corpo politico». Vanno sottolineati ancora due elementi delle idee di Paine. In primo luogo l’idea della «creazione» dell’ordine costituzionale, che si esprime nell’idea di «potere costituente»: «L’attuale assemblea nazionale francese è, in senso stretto, il contratto sociale». Il secondo elemento è l’idea che la formazione della rappresentanza non può che essere su base nazionale: «[…] alla Nazione appartiene il diritto di formare e riformare, generare e rigenerare Costituzioni e governi». È in questa prospettiva che si colloca il rifiuto del modello della «costituzione inglese». Anzi, secondo Paine, l’Inghilterra non ha nemmeno una costituzione: essa «è una forma di governo priva di costituzione» e il suo sistema politico «nasce dal fango dei borghi putridi».

 La Costituzione deve essere, invece, un atto di fondazione delle istituzioni politiche, che ha come oggetto la tutela dei diritti e come strumento l’assemblea legislativa, in cui si esprime la volontà nazionale. Per queste ragioni che nessuna costituzione può fondarsi sulle tradizioni e sui «diritti storici»: ogni costituzione è una rivoluzione.

 Le concezioni costituzionali di Burke e di Paine, se esprimono paradigmaticamente due opposte concezioni di costituzione, sono entrambe significative per la comprensione degli sviluppi del costituzionalismo occidentale. Nel modello «tradizionalista» l’accento è posto sui limiti: la costituzione è un equilibrio di interessi diversi di componenti («parti») della struttura sociale. Per questo motivo le istituzioni politiche e la forma di governo devono rispecchiare tale diversità di interessi ed essere dotate degli strumenti atti a garantirne gli equilibri. Nascono da questa tradizione alcune delle nozioni cardine del costituzionalismo moderno, a cominciare da quella di equilibri costituzionali e da quella di limiti all’esercizio dei poteri.

 Nel modello «volontaristico», l’accento è posto sull’idea di rappresentanza di individui eguali, portatori di diritti: la costituzione è un patto con cui si fissano le competenze degli organi politici. Da questo modello deriva l’idea della tutela dei diritti come obiettivo di ogni documento costituzionale. Ma anche l’idea del primato dell’assemblea rappresentativa, che è stata per lungo tempo alla base dei sistemi costituzionali dell’Europa continentale.

 L’elemento peculiare che caratterizza l’ordine costituzionale dell’Europa continentale dopo la Rivoluzione francese non si trova solo nei caratteri dei suoi documenti e delle dottrine che ne razionalizzano i principi. Esso è costituito, anche, da un dato di fatto: l’esistenza di una macchina amministrativa centralizzata e di alta specializzazione professionale. Secondo l’analisi di Tocqueville, è da attribuirsi a questo fenomeno la ragione che impedì la costruzione, in Francia e in Europa, di un sistema costituzionale fondato sull’idea di «limiti». Scrive nei Souvenirs nel 1851: «Sicché io sostengo che quando si afferma che non c’è nulla tra noi che sia al riparo delle rivoluzioni si sbaglia, perché c’è la centralizzazione. In Francia solo una cosa non si può fare: un governo libero; e solo un’istituzione che non si possa distruggere: la centralizzazione».

 Si potrebbe affermare, sulla scorta di questo giudizio, che il primo carattere della «Costituzione rivoluzionaria», cioè di quell’assetto che di fatto si diffuse e restò stabile nel continente europeo ben oltre gli ultimi decenni del secolo XVIII, sia stato l’accentramento dei poteri normativi e delle strutture politiche; il fenomeno indicato da Max Weber come espropriazione dei poteri decentrati ed autonomi. Si consolida dunque nell’Europa continentale un modello costituzionale contrapposto a quello del «governo limitato», in cui l’elemento caratterizzante pare la continuità tra assolutismo e democrazia. La struttura portante di questo modello è rappresentata da una peculiare concezione della separazione dei poteri, che finisce con il porre al centro del sistema costituzionale il potere esecutivo.

 Scrive ancora Tocqueville in una pagina de L’Ancien Régimeet la Révolution: «è che, dopo l’89, l’ordinamento amministrativo rimase sempre in piedi, tra le rovine delle costituzioni politiche. Si mutavano vuoi la persona del sovrano, vuoi l’assetto del potere centrale; ma il corso quotidiano degli affari non ne veniva interrotto e turbato: le piccole faccende, che interessavano singolarmente ogni cittadino, continuavano ad essere regolate dalle norme e dagli usi ben noti; ognuno continuava a dipendere dai poteri secondari ai quali aveva l’abitudine di far capo, e di solito si trovava ad avere a che fare con i medesimi funzionari; invero, se ad ogni rivoluzione l’amministrazione veniva decapitata, il corpo ne rimaneva vivo ed intatto; le stesse mansioni erano svolte dai medesimi agenti; costoro mantenevano, pur nella mutazione delle leggi politiche, il loro antico bagaglio mentale e la loro pratica. Giudicavano ed amministravano dapprima in nome del re, poi in nome della repubblica, infine in nome dell’imperatore. In seguito, facendo la fortuna rifare alla sua ruota il medesimo giro, essi ricominciavano a giudicare e ad amministrare per il re, per la repubblica e per l’imperatore, sempre gli stessi e allo stesso modo: invero, che mai ad essi importava il nome del padrone? Ciò che più loro premeva, era di essere non tanto cittadini, quanto buoni giudici e buoni amministratori».

 È chiara nelle pagine di Tocqueville il funzionamento effettivo del modello di separazione dei poteri adottato nell’Europa continentale: la supremazia del legislatore rappresentativo è solo l’apparenza, la «formula politica», dietro la quale vi è la supremazia dei poteri amministrativi. Ovvero di quello tra i poteri costituzionali che ne mantiene il controllo, l’esecutivo. Ciò porta a questo severo giudizio di Hayek, che considera quel che è avvenuto nell’Europa continentale: «una draconiana interpretazione del principio della separazione dei poteri [che] servì a rafforzare i poteri dell’amministrazione e fu largamente usata per proteggere le autorità amministrative da ogni interferenza del giudiziario, e pertanto rafforzare, più che limitare, il potere dello stato». Vi sono tuttavia, anche nella primazia del potere esecutivo che caratterizza il Continente, due elementi dell’organizzazione giuridica che funzionano, sia pure in modo obliquo, come limiti all’azione dei poteri pubblici, e che esplicano un ruolo che potremmo chiamare «di garanzia». Il primo è costituito dalle codificazioni del diritto privato. In esse si esplicano, infatti, i principi di quella che è stata chiamata la «costituzionalizzazione dei codici di diritto privato». In una situazione di limitato intervento dei poteri pubblici nella sfera delle relazioni economiche – come accadeva nell’Ottocento – i principi e le garanzie dei codici funzionavano come salvaguardia dell’autonomia privata: la proprietà individuale e l’autonomia contrattuale segnavano i confini dell’azione dello Stato.

 Alla struttura «a codice» degli ordinamenti giuridici si affiancano le categorie dogmatiche elaborate dalla dottrina. Queste si pretendono dotate di caratteri di «scientificità» (analoghi, per le ideologie giuridiche che le diffusero, a quelli delle scienze naturali) tali da farli operare, di fatto, come filtro selettore di ogni innovazione normativa. Il che significò che, sia chi redigeva un testo legislativo, sia chi proponeva un’interpretazione giurisprudenziale, doveva restare nell’ambito dei confini fissati dalle formule concettuali della dogmatica giuridica. Così, per dare solo un esempio, in tema di persone giuridiche il legislatore era restio ad adottare, e il giudice a convalidare, regimi patrimoniali e fiscali distinti per le persone «private» e le persone «pubbliche», perché tale distinzione non trovava riscontro nelle caratteristiche unitarie attribuite alla «persona giuridica» dalla dottrina. I diritti soggettivi debolmente tutelati da carte costituzionali «flessibili» (e quindi facilmente mutabili), prevalentemente composte da regole sull’organizzazione dei poteri (non da regole sui diritti di immediata applicabilità e sanzionabilità), postulanti un’idea di sovranità «senza limiti», trovano quindi una loro imperfetta tutela nei principi codicistici e nel rigore delle rappresentazioni dogmatiche. Tuttavia anche tale funzione di garanzia è destinata a declinare quando, nell’ultimo trentennio dell’Ottocento, viene affermato il principio della «irresponsabilità amministrativa», anche nel caso di violazione da parte di soggetti amministrativi, di diritti civili, e quindi la sottrazione dei soggetti amministrativi a qualunque tipo di efficace controllo giurisdizionale.

 Restano, valide per descrivere questo fenomeno di immunità dell’azione amministrativa (frutto di una versione «debole» del principiodella separazione dei poteri) le critiche formulate dalla dottrina costituzionale britannica, e in particolare da Albert Dicey alla fine dell’Ottocento. Questi osservò, a proposito del diritto amministrativo francese, che la sottrazione dell’azione amministrativa al controllo del potere giudiziario ordinario, determinava un assetto costituzionale opposto a quello rappresentato dal principio britannico della Rule of Law, configurando una sottrazione al controllo di legalità dei soggetti pubblici e un’attribuzione di vaste immunità. Si determina quello che Dicey chiama un regime amministrativo, caratterizzato da due postulati. Il primo è che lo Stato, e i suoi funzionari, posseggano come rappresentanti della nazione, un insieme di diritti speciali, privilegi e prerogative, di cui si avvalgono nei confronti dei privati e che hanno alla base principi diversi da quelli stabiliti per i rapporti interprivati.

Il secondo postulato è, secondo Dicey, la sottrazione dei funzionari amministrativi al controllo del potere giudiziario ordinario. Tutto ciò porta Dicey a concludere che il regime costituzionale francese (e continentale) è imperfetto e opposto ai principi del costituzionalismo così come erano stati fissati dalla tradizione anglosassone; tradizione che invece rappresenta, secondo questo autore, un efficace sistema di governo limitato.

 Il costituzionalismo ha trovato la sede del suo sviluppo più nel mondo anglosassone che nel continente europeo. Qui, come indicava molti anni fa Nicola Matteucci, ha trovato un potente ostacolo nella cultura giuridica statalista prima, positivista poi che aveva messo al centro del suo sistema concettuale la volontà dello Stato, intesa come «persona giuridica». Oggi, nonostante qualche residuo accademico, anche la cultura giuridica continentale sembra aver fatti propri i principi del costituzionalismo: il primato della tutela dei diritti individuali e l’idea di separazione dei poteri come reciproca interferenza.

 Si pongono, però, nuovi problemi che hanno fatto parlare – a torto – di crisi del costituzionalismo: la rottura del delicato equilibrio tra Stato nazionale e ordinamento costituzionale; l’espansione della democrazia sostanziale, più interessata alla distribuzione che alle garanzie; l’ampliamento di decisioni che riguardano grandi collettività, ma che vengono prese in sedi sempre più ristrette; l’esercizio di controlli giurisdizionali sovranazionali e interstatali (spesso utili alla tutela dei diritti); una ancora indefinibile ristrutturazione dell’ordine politico della cosiddetta «globalizzazione».

Anche in una fase di incertezza vale quanto scriveva Charles McIllwain nel 1939: «I due elementi fondamentali correlativi del costituzionalismo, per i quali tutti coloro che amano la libertà devono ancora battersi, sono i limiti giuridici al potere arbitrario e una completa responsabilità politica del potere esecutivo innanzi al popolo».

 

Bibliografia

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Brano tratto dal "Dizionario del liberalismo italiano", edito da Rubbettino Editore. Clicca qui per acquistarlo con il 15% di sconto