Bonifica integrale
di Cosima Nassisi
La storia del bonificamento delle terre italiane, inteso nel senso «più antico e più largo, di riduzione della terra a coltura, o a miglior coltura, rimovendo le cause che la rendono infruttifera o scarsamente fruttifera», si collega strettamente con tutti quei fattori, economici e sociali, del regime fondiario e dell’ordinamento agricolo, che la bonificatrasforma a fini di maggior produzione e di più civile vita rurale [Ramadoro 1952, pp. 879-890]. In questo senso, per una storia della legislazione nell’età contemporanea sono – per la bonifica italiana – riferimenti fondamentali il complesso di provvedimenti legislativi del decennio 1923-1933 che sfociarono nel Testo unico della bonifica integrale del 13 febbraio 1933, n. 215; infine merita di essere segnalata la l. 2 gennaio 1940, n. 1, per la colonizzazione del latifondo siciliano.La legislazione non ha avuto rilevanti sviluppi almeno sino alla creazione della Cassa del mezzogiorno (legge 10 agosto 1950, n. 646), che nei primi anni si occupò di bonifiche, di infrastrutture, della cosiddetta preindustrializzazione.
A grandi linee, si può dire che è nei primi decenni del XX secolo, e specie negli ultimi anni precedenti la prima guerra mondiale, che il concetto di bonifica acquista un significato più ampio, contrassegnato dall’espressione «bonifica integrale», come oggi è intesa, cioè bonifica agraria ad integrazione di quella idraulica, al fine di adattare il regime fondiario ad un più elevato livello di produzione e di vita. Si va infatti dai vari disegni di legge presentati prima del 1882, che intendono la bonifica nel significato «idraulico» del termine – «per il suo fine economico e la sua lucrosità non poteva essere assunta tra i compiti dello Stato, cioè essere opera pubblica» [ibidem] –, alla legge Baccarini che, ponendo in primo piano non lo scopo economico ma «igienico» (antimalarico) della bonifica, porta lo Stato ad assumere tra i propri compiti una parte del costo totale delle spese delle bonifiche dette di prima categoria (di grande interesse igienico o di miglioramento agricolo associato a vantaggio igienico) e abbandonando le altre all’iniziativa dei privati, isolati o consorziati. Vi sono quindi una serie di nuove particolari disposizioni che devolvono gradualmente agli organi statali nuovi compiti, oltre alla sistemazione idraulica (delle paludi e terreni paludosi), sino a comprendere anche opere stradali, di difesa idraulica, di rimboschimento e rassodamento delle pendici, ecc., sempre però con prevalente interesse igienico, e per i territori idraulicamente dissestati.
Un quadro esauriente dell’analisi storica e storiografica della questione della bonifica dovrebbe a rigore dilatarsi all’intera storia delle disposizioni legislative e non solo a esse, in quanto le forme d’attuazione non sempre furono coincidenti con gli obiettivi sociali che le disposizioni dinanzi sommariamente accennate avrebbero voluto raggiungere. Che con i provvedimenti normativi adottati dall’unificazione in poi si siano accentuati anziché corretti gli squilibri fra le varie regioni e il dislivello del bonificamento fra Nord e Sud, è un problema affrontato da una vastissima letteratura storiografica passata e recente. È altresì comune agli storici che si sono occupati dell’argomento la consapevolezza del ruolo determinante del Testo unico delle leggi sulle bonificazioni delle paludi e dei terreni paludosi del 30dicembre 1923 (n. 3256), che apre la strada al successivo decreto-legge Serpieri, Provvedimenti per le trasformazioni fondiarie di pubblico interesse (r. d. l. 18 maggio, n. 753), che per la prima volta affidò allo Stato non più solo il compito di risanare i terreni paludosi, ma anche «di promuovere e facilitare la trasformazione fondiaria dei comprensori che presentino, ai fini dell’incremento della produzione, un rilevante interesse pubblico, mediante opportuno coordinamento delle opere da eseguirsi e delle relative attività pubbliche o private» [g.u., n. 122 del 23 maggio 1924]. A una visione frammentaria dei singoli problemi (difesa idraulica, bonifica, irrigazione, viabilità, trasporti) fa seguito una visione complessiva che sembrò dover recare una svolta notevole, data anche l’ampiezza del concetto di bonifica integrale, che poteva praticamente trovare applicazione su tutto il territorio agrariamente utilizzato in Italia, in quanto mirava al recupero delle proprietà fondiarie improduttive, con facoltà per le società capitalistiche e per i privati di ottenere concessioni di bonifica e di esproprio dei terreni da bonificare. In realtà per la prima volta – come sarà precisato nella relazione all’Assemblea Costituente – la legge Serpieri «si pose organicamente il problema della trasformazione dei comprensori latifondistici o estensivi del Mezzogiorno, anzi prese le mosse direttamente da questo problema» [Ministero per la Costituente, 1946-1947, pp. 335-351].
Come è ormai noto, il dibattito apertosi negli anni ’70 sul nodo fascismo-Mezzogiorno si è centrato soprattutto attorno all’attività bonificatrice largamente estesa – tra le leggi sulle trasformazioni fondiarie di pubblico interesse del 1924 e quella sulla colonizzazione del latifondo siciliano del 1940 – anche nel Mezzogiorno, dove, nonostante deficienze ed ostacoli ulteriormente aggravati dalla Seconda guerra mondiale, alcune rilevanti realizzazioni furono compiute; particolare notorietà, oltre alla bonifica pontina, ebbero i progetti di trasformazione fondiaria avviati dalla bonifica integrale in Puglia, e in Campania, che posero le premesse per il successivo decollo negli anni ’50 delle nuove «aree di irrigazione».
Il giudizio della storiografia più matura ha interpretato la revisione legislativa sulle bonifiche del 1923-1924 come il prodotto del lungo graduale processo iniziatosi dopo il 1900, quando il governo Giolitti emanò la massiccia mole di provvedimenti legislativi sul Mezzogiorno: dalla legislazione sull’Agro romano del 1910 alle tre successive leggi degli anni 1911-1912 (12 giugno 1911, n. 774; 4 aprile 1912, n. 277; 20 giugno 1912, n. 712). Era quanto aveva scritto Manlio Rossi-Doria già alla fine degli anni trenta negli interventi sulla rivista «Bonifica e colonizzazione», a proposito del programma della politica agraria fascista, che si affermò subito in una serie «coordinata» di provvedimenti, dovuti in gran parte a Serpieri, con il quale «si realizza – quasi d’un tratto, per chi non conosca l’evoluzione spirituale degli agrari italiani e dei loro tecnici sotto l’influenza delle vicende sociali delle campagne nel nuovo secolo – la fusione tra il movimento politico nuovo e le aspirazioni dei tecnici e degli agricoltori» [Rossi-Doria 1939b, p. 398]. Al centro delle sue analisi c’era la nota tesi che si trattava di scindere il legame tra la cultura di Serpieri e il fascismo, chiarendo quali erano stati i reali rapporti tra l’ambiente nittiano del grande agronomo e il fascismo, «che non aveva avuto, prima della conquista del potere, tempo e modo per elaborare nell’ambitodel partito una sua precisa dottrina e un suo preciso programma di politica agraria» [Rossi-Doria 1941b]; si trattava anche di spiegare come l’adesione convinta e sincera dei tecnici agricoli e degli stessi docenti della scuola di Portici al fascismo, chiamati a «ruralizzare» l’Italia, fosse da mettere in relazione con la politica della bonifica integrale e con l’attesa di protagonismo delle loro figure professionali nella direzione dell’agricoltura e nelle strutture decentrate della politica agraria, dai sindacati di categoria ai consorzi. In definitiva, questi giudizi e criteri di analisi riaffiorati nella produzione storica del secondo dopoguerra di Rossi-Doria, costituiranno alcuni motivi ispiratori delle interpretazioni storiografiche successive, nel senso che la ricerca storica li assumerà come punti essenziali di riferimento.
Larga parte dei nuovi indirizzi storiografici sul Mezzogiorno – rivolti a verificare la validità delle tesi dei meridionalisti classici e rivoluzionari sulle cause del divario e in particolare dei capisaldi della vulgata meridionalista (il processo alla borghesia, la rivoluzione contadina, il sottosviluppo, ecc.) –, hanno inteso smentire la vecchia immagine del Mezzogiorno «immobile» e la visione «dualistica» della società italiana. Tornando oggi a quel dibattito, debole sul piano politico e fertile su quello storiografico [Giarrizzo 1998], bisogna rilevare che grande attenzione fu dedicata al tema delle «trasformazioni» della società meridionale nell’età moderna e contemporanea, soprattutto negli anni tra le due guerre e nel secondo dopoguerra (in gran parte ignorati dalla letteratura meridionalista e non più raccolti dal dibattito storiografico degli anni successivi). L’interesse degli storici si è concentrato sulle origini della frantumazione del blocco agrario nel Sud – avviata alla fine degli anni Trenta dalla politica economica del fascismo ed esplosa con violenza sotto l’impatto delle lotte contadine nel 1944-1947 – in riferimento alle diverse realtà storico-geografiche del Mezzogiorno (in questa direzione il prodotto più maturo è riconducibile alle storie regionali degli anni ’70 e ’80 della Calabria, Sardegna, Puglia, Campania, Sicilia, Abruzzi, Marche). Il dibattito si è alimentato soprattutto dalla riconsiderazione di figure come Napoleone Colajanni e Francesco Saverio Nitti (anche grazie all’apporto del documentato saggio di Barbagallo del 1984).
Gli storici ritornavano perciò ad esaminare la fase nittiana, valutandone i progressi in ordine alle conoscenze della realtà economico-sociale, nazionale e meridionale, e alla modernizzazione tecnica e amministrativa e, in riscontro, le deboli basi politiche. Si riapriva una rilettura delle cosiddette «leggi speciali» di carattere regionale che vennero emanate per varie zone del Mezzogiorno, le quali, fra l’altro, assegnavano allo Stato l’esecuzione di alcune opere pubbliche (come gli acquedotti o le opere igieniche) in modo da spostare l’impiego della spesa pubblica a favore del Mezzogiorno. Queste leggi prevedevano anche, in alcuni casi, un intervento dello Stato nel settore industriale che poteva anche giungere alla «creazione di una zona industriale», oppure che si limitava ad agevolazioni doganali o fiscali [Castronovo 1975].
Una linea di ricerca molto importante è risultata quella del rapporto istauratosi nel primo quindicennio del XX secolo fra le esigenze di espansione del capitale industriale e creditizio settentrionale, che la guerra aveva notevolmente potenziato, e l’impegno dialcuni funzionari e tecnocrati riformatori influenzati da Nitti (da Eliseo Jandolo ad Angelo Omodeo, da Carlo Petrocchi a Serpieri) a favore del Sud: in questo quadro era indicata anche una soluzione per i problemi del Mezzogiorno. In effetti, si fece strada una moderna linea riformatrice, centrata attorno al legame tra tecnocrazia riformista, industria elettrica e meridionalismo nittiano, specie dopo il 1910, quando lo statista lucano abbandonò le posizioni stataliste per proporsi come alfiere dell’elettrificazione privata. Ancora una volta l’industria elettrica svolse una funzione di «battistrada» nel rinnovamento degli impianti industriali e nella mobilitazione di ingenti flussi di investimento. Furono gli anni del rafforzamento della Edison e della crescita di alcuni gruppi elettrofinanziari, come ad esempio la Sme (Società meridionale di elettricità) – sorta nel 1899 – la cui sezione elettro-agraria s’interessò alla trasformazione fondiaria delle pianure meridionali della Campania (le campagne vesuviane, la piana del Volturno, le campagne intorno a Benevento e Montuoro) e della Puglia (il tavoliere di Foggia, la costa del barese, il Salento).
L’importanza del ruolo dagli intellettuali tecnici durante il fascismo come «problema storiografico» fu opportunamente evidenziato da Giarrizzo in un saggio del 1978. Si rilevò così che, operando all’interno dei Consorzi agrari e dei Consorzi di bonifica, molti tecnici agrari di primo piano elaborarono negli anni Trenta progetti di trasformazione fondiaria, e poi, una volta dissolta «la fiducia nello stato riformatore e la definizione in esso di un loro specifico ruolo» [Giarrizzo 1978] utilizzano nel secondo dopoguerra le nuove opportunità offerte prima dai «nittiani» meridionali (nel Salento Giuseppe Grassi) e, in seguito, negli anni ’50, dalla Dc. A giudicare almeno dagli orientamenti della realtà pugliese, la mobilitazione in questo senso assunse un rilievo tutt’altro che trascurabile. Ma ancora oggi si avverte l’esigenza di studi che abbiano a un tempo angolazioni biografiche e di storia locale e che tengano a loro volta presenti i nessi tra i vari livelli di vita nazionale e tra questi ultimi e quelli locali.
Converrebbe perciò tentare di compiere indagini più approfondite, ripartendo dal primo dopoguerra e dall’anno di svolta che fu il 1925, ampiamente indagato sul piano politico, mentre assai minore è stata l’attenzione rivolta agli stretti legami di alcuni esponenti dell’agraria meridionale con settori speculativi del mondo finanziario, che consentono agli agrari di guidare con successo nell’inverno 1934 la battaglia contro Arrigo Serpieri e la bonifica integrale, avviata fin dal r.d. 29 novembre 1925 (n. 2464) che modificava la legge Serpieri del 1924, segnando la definitiva sconfitta del piano elettroirriguo nel Sud, giacché negò la validità dell’esproprio contenuta nelle leggi del 1923-1924, e, per di più, accordò ai proprietari consorziati una netta preferenza su qualsiasi parallela iniziativa delle imprese capitalistiche private (art. 2 e art. 3) [Barone 1986; Checco 1984]. È giunto, forse, il momento di una riflessione più ampia e rinnovata «sull’ipotesi politica (costruita tra il 1923-1924) del Mezzogiorno “fossa del fascismo”, che rivela i suoi caratteri di astrattezza e di errore dalle conseguenze gravissime» [Giarrizzo 1998]. Da questi studi si attende anche un’adeguata risposta a un tema decisivo, ma ancora poco articolato, dell’esperienza dei «nittiani» meridionali, dell’influenza da essi esercitata nel Mezzogiorno, se essi abbiano rappresentato una realtà di massa (di che tipo e fino a che punto) e soprattutto il loro rapporto con gli enti economici (consorzi agrari, consorzi di bonifica) e con il sistema creditizio.
Bibliografia
Aa.Vv., Mezzogiorno e fascismo, Atti del Convegno di Salerno del dicembre 1975, Esi, Napoli 1978; Barbagallo F., Francesco Saverio Nitti, Utet, Torino 1984; Barone G., Mezzogiorno e modernizzazione. Elettricità, irrigazione e bonifica nell’Italia contemporanea, Einaudi, Torino 1986; Castronovo V., La storia economica. Dall’Unità a oggi, Einaudi, Torino 1975; Checco A., Stato, finanza e bonifica integrale nel Mezzogiorno, Giuffré, Milano 1984; Giarrizzo G., Le trasformazioni strutturali della società meridionale, in Rossi-Doria M., Le trasformazioni del Mezzogiorno d’Italia a cura di M. De Benedictis e F. De Filippis, Lacaita, Manduria 1999; Jandolo E., La legge sulla bonifica integrale, vol. I, Cedam, Padova 1935; Ministero per la Costituente, Rapporto della Commissione Economica, parte I°: Agricoltura, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1946-1947; Pantanelli E., Problemi agronomici per la bonifica delle terre meridionali, Edizioni Agricole, Bologna 1950; Ramadoro A., Bonifica, in Enciclopedia Agraria Italiana, Ramo editoriale degli agricoltori, Roma 1952; Rossi-Doria M. [attribuito], Il premio Mussolini ad Arrigo Serpieri, «Bonifica e colonizzazione», 4, 1939b; Id., Ottant’anni di leggi, di tentativi, di discussioni attorno al latifondo, ivi, agosto-settembre, 1941b; Id., Riforma agraria e azione meridionalista, Edizioni Agricole, Bologna 1948; Id., Note di economia e politica agraria,Edizioni Italiane, Roma 1948; Serpieri A., La bonifica nella storia e nella dottrina, Edizioni Agricole, Bologna 1947.