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Arti e mestieri

di Giovanni Farese

L’affermazione del sintagma «arti e mestieri», utilizzato successivamente in forme irriflesse e meccaniche, è dovuta, da una parte, alla diffusione delle «Corporazioni di arti e mestieri» a Firenze e in Europa tra il Medioevo e l’età moderna («radice comunale») e, dall’altra, alla pubblicazione a Parigi, a partire dal 1751, dell’Encyclopedie ou Dictionnaire Raisonnée des Sciences, des Arts et des Métiers, che fissa in via definitiva il canone per l’età contemporanea («radice illuministica»). La radice etimologica è nel latino ars (a cui mette capo la distinzione arti liberali e arti meccaniche), a sua volta incardinata nel sanscrito Ar: «andare, mettere in moto», da cui «aderire», «attaccare», «adattare». Mettendo da parte in questa sede la discussione intorno alla definizione di ciò che, nell’esercizio di una attività umana, è «arte» (come genialità, gusto e fantasia) e di ciò che è «mestiere» (come apprendimento e pratica), l’attenzione è rivolta in questo scritto a due momenti, che presentano profili di interesse storico ed economico: il «momento associativo» e il «momento formativo». Fin dalle origini è difficile, se non impossibile, espungere dal sintagma «arti e mestieri», da un parte, il significato di forma organizzata che le arti e i mestieri assumono nella società, come corpo orientato alla tutela degli interessi degli associati («momento associativo»); dall’altra, quello di apprendimento mediante istruzione, come formazione del capitale umano («momento formativo»). Dopo questa premessa, la voce è strutturata in due parti, ciascuna con quattro paragrafi, e in una Appendice. La prima parte, intorno al momento associativo, si concentra su quattro «figure»: le Corporazioni di arti e mestieri; le Camere di commercio; le Corporazioni fasciste; le Confederazioni di imprese artigiane. La seconda parte, intorno al momento formativo, si concentra su quattro «figure»: l’età moderna; l’Italia unita e liberale; l’Italia fascista; l’Italia repubblicana. Le «figure» sono forme di sintesi all’interno di processi complessi e di lunga durata. L’Appendice è dedicata a due Scuole di incoraggiamento d’arti e mestieri sorte nell’Ottocento, una a Napoli, l’altra a Milano.

Le Corporazioni di arti e mestieri

Attestate già in età romana, con il nome di corpus o collegium, come associazioni di quanti esercitano lo stesso mestiere, si costituiscono a partire dal XII secolo nelle città italiane ed europee con lo scopo di tutelare gli appartenenti a una stessa categoria professionale. Guilds in Inghilterra, Guildes in Francia, Zünften in Germania, in Italia prendono il nome generico di «Arti»(in latino Universitates o Collegia). Sorte spontaneamente, o per iniziativa del potere laico o religioso, si formano come derivazione di preesistenti confraternite di carattere devozionale, o come sodalizio dato da un giuramento che impegna all’assistenza reciproca e alla difesa degli interessi comuni (in ogni caso, si riconoscono in un Santo patrono e finanziano la costruzione e l’abbellimento di una Chiesa). Hanno un proprio statuto e un gonfalone, sotto il quale radunare il popolo in armi. Sono parte del gioco politico e assumono un ruolo nelle istituzioni cittadine, estendendo il loro controllo a funzioni di natura pubblica, quali i pesi e le misure e la sorveglianza delle strade. È a Firenze che le «Arti» assumono forma e potere, anche di simbolo. La prima è quella dei Mercatanti o di Calimala (dalla via omonima; spesso sono le strade a prendere il nome dell’Arte). Se ne staccano altre sei «maggiori»: del cambio, dei giudici e notai, della lana, della seta, dei vasai e dei pellicciai, dei medici e speziali (Dante Alighieri ne è membro). Quattordici sono le «minori»: dei beccai, dei calzolai, dei fabbri, dei maestri di pietra e legname, dei linaioli e rigattieri, dei vinattieri, degli albergatori, degli oliandoli e pizzicagnoli, dei cuoiai e galigai, dei corazzai e spadai, dei correggiai, dei legnaioli, dei chiavaioli, dei fornai – tutte prettamente artigiane. Il principio è che l’esercizio di un’arte è monopolio interno, soggetto a regole (qualità) e a vincoli (segretezza). L’ingresso è sottoposto a condizioni: occorre essere figli legittimi di un componente della stessa arte, dare prova di abilità artigiana, pagare una tassa. I membri sono divisi in maestri, apprendisti, garzoni, secondo un tipico schema logico ternario. Le società segrete, la carboneria, la massoneria (free masons, franc-masons, liberi muratori), si ispireranno a tale modello logico-organizzativo.

Le Camere di commercio

L’affermazione dello Stato centralizzato moderno, capace di garantire organicità e sistematicità agli interventi in materia economica, detta il declino delle corporazioni. Limitazioni dei privilegi, attenti controlli e ingerenze governative, assorbimento graduale delle funzioni da parte degli organi amministrativi, fino alla nascita di istituzioni di nomina sovrana: le Camere di commercio. Non più orientate soltanto alla tutela degli associati, le Camere di commercio (Bruges e Marsiglia le più antiche, 1599) si occupano del coordinamento e della promozione dell’attività economica. Nel 1701 viene istituito, a Torino, il Consolato di commercio e, nel 1729, il Consiglio di commercio; nel 1764 la Repubblica di Venezia si dota di una Camera di commercio, seguita nel 1770 dal Granducato di Toscana. Nel 1786 Giuseppe II d’Asburgo istituisce le Camere nella Lombardia austriaca, tutte chiamate a verificare la buona fede nei contratti, disciplinare gli operai, distinguere i maestri dai dozzinali, certificare alle piazze estere la bontà delle manifatture, mantenere e aumentarne il credito. È prevista l’iscrizione in un apposito registro. Le camere giuseppine e francesi, presenti in Francia già prima della soppressione delle corporazioni avvenuta nel 1791, sono il modello per le istituzioni create nella Repubblica italiana e nel Regno d’Italia da Napoleone e nel Regno di Napoli da Giuseppe Buonaparte (1808). Formalmente rifondate dai sovrani dopo la Restaurazione, le Camere continuano nei fatti a riprodurre le forme dell’ordinamento francese. Dopo l’Unità d’Italia, con la legge 6 luglio 1882, n. 680, le 26 Camere esistenti sul territorio assumono un assetto unitario (Genova, Torino, Milano, Bergamo, Brescia, Chiavenna, Como, Cremona, Lodi, Pavia, Parma, Piacenza, Bologna, Ferrara, Rimini, Pesaro, Ancona, Firenze, Lucca, Livorno, Napoli, Foggia, Bari, Palermo, Catania, Messina). Dopo le modifiche introdotte con il nuovo Codice di commercio (1882) e la nascita dell’Unione italiana delle Camere di commercio, Unioncamere (1901), la legge 10 marzo 1910, n. 121, riforma l’istituto, chiamato a rappresentare gli interessi sia commerciali sia industriali dell’area nonché svolgere rilevanti compiti di carattere pubblicistico.

Le Corporazioni fasciste

Le trasformazioni avvenute nell’economia disarticolano la struttura della società e rafforzano la consistenza e il ruolo di una pluralità di soggetti organizzati. Con il governo fascista si afferma, per opera di Alfredo Rocco, Giuseppe Bottai e Giuseppe Belluzzo, una procedura corporativa intesa come nuovo metodo di amministrazione dell’economia e delle istanze diversificate di gruppi e interessi. Con la legge 18 aprile 1926, n. 731, i Consigli provinciali dell’economia assumono le funzioni in materia di rappresentanza, promozione e coordinamento dell’attività economica, già spettanti ad altri enti, tra cui le Camere di commercio. Il 2 luglio del 1926 viene istituito il Ministero delle Corporazioni. Il 21 aprile del 1927 il Gran consiglio del fascismo adotta la Carta del lavoro, il manifesto del corporativismo, che postula la sintesi degli interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori nonché la loro subordinazione agli interessi superiori della produzione. Con la legge 20 marzo 1930, n. 206, il Consiglio nazionale delle corporazioni, peraltro già istituito con il provvedimento del 1926, diviene un organo costituzionale, ed è inaugurato il 22 aprile successivo. La legge 5 febbraio 1934 istituisce le Corporazioni, in numero di 22 (cereali, orto-floro-frutticoltura, viti-vinicola e olearia, zootecnia e pesca, legno, tessile, abbigliamento, siderurgia e metallurgia, meccanica, chimica, combustibili liquidi e carburanti, carta e stampa, costruzioni edili, acqua gas ed elettricità, industrie estrattive, vetro e ceramica, comunicazioni interne, mare e aria, spettacolo e ospitalità, professioni e arti, previdenza e credito). Nel 1939 la Camera dei deputati è sostituita dalla Camera dei fasci e delle corporazioni. La nuova organizzazione produttiva della società viene fissata da Enrico Prampolini (Le Corporazioni, 1942) e Fortunato Depero (Le professioni e le arti, 1942) in due mosaici nel quartiere Eur di Roma. L’esigenza viva di un collegamento tra il potere esecutivo e legislativo, da una parte, e il mondo della produzione, dall’altra, si ritrova nell’articolo 99 della Costituzione della Repubblica italiana, che istituisce il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, composto da esperti e da rappresentanti delle categorie produttive.

Le Confederazioni di «imprese artigiane»

Nel 1946, in un contesto di ritrovata libertà associativa, economica e di rappresentanza nascono le due confederazioni nazionali dell’artigianato: la Confederazione generale dell’artigianato italiano (dal 2006 Confartigianato imprese) e la Confederazione nazionale dell’artigianato e della piccola e media impresa-Cna. Contemporaneamente, nel 1946 nasce, a Milano, il Credito artigiano (dal 1995 parte del gruppo Credito valtellinese) e nel 1947 nasce, a Roma, la Cassa per il credito alle imprese artigiane come ente pubblico alle dipendenze del Ministero del Tesoro (dopo la privatizzazione, e l’acquisizione da parte della Banca nazionale del lavoro, è oggi parte del Gruppo Bnp Paribas, con il nome di Artigiancassa, partecipata da Confartigianato, Cna, Casartigiani – la Confederazione artigiana sindacati autonomi nata nel 1958). La funzione originaria della Cassa consiste nell’erogare i contributi e le provvidenze messe a disposizione delle imprese artigiane, nonché coordinare questo genere di aiuti nella delicata fase di ricostruzione postbellica. Il Titolo III, parte I, della Costituzione della Repubblica, entrata in vigore il 1° gennaio del 1948, riscrive i rapporti economici, con una specifica previsione affinché la legge provveda alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato (art. 45). L’artigianato, su cui si era già espresso il Codice civile del 1942, è oggetto della legge 25 luglio 1956, n. 860, e della legge-quadro per l’artigianato dell’8 agosto 1985, n. 443, che fornisce gli elementi per la definizione dell’imprenditore artigiano, dell’impresa artigiana e delle specifiche forme societarie e dimensionali che può assumere. L’imprenditore artigiano: «esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare l’impresa artigiana, assumendone la piena responsabilità, con tutti gli oneri ed i rischi inerenti alla sua direzione e gestione e svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo»; l’impresa artigiana svolge: «attività di produzione di beni, anche semilavorati, o di prestazione di servizi, escluse attività agricole e di prestazione di servizi commerciali, di intermediazione nella circolazione dei beni».Le imprese e le casse rurali e artigiane costituiscono un segmento vitale dell’economia del Paese.

L’istruzione nell’Europa moderna

A partire dal XIII secolo, accanto alle scuole religiose, destinate non soltanto al clero, si sviluppano le scuole laiche secondarie, rivolte ad alunni già alfabetizzati: le scuole d’abaco, dove si apprendono le tecniche di calcolo e i metodi della matematica mercantile, e quelle di grammatica, dove si studia la lingua latina e si leggono gli autori classici. Importanza notevole, nella storia dell’istruzione, hanno le scuole istituite nel Cinquecento, nell’ambito della Riforma cattolica, dai Gesuiti e, successivamente, da altri ordini religiosi. Nel 1597 Giuseppe Calasanzio fonda a Roma, nella Chiesa di Santa Dorotea in Trastevere, la prima scuola popolare gratuita in Europa, in cui gli allievi dopo avere appreso a leggere e far di conto, iniziano a praticare un mestiere. Oltre agli Scolopi di Calasanzio, nel Seicento altri ordini, quali i Barnabiti e i Somaschi, incrementano sia la dimensione sia le forme dell’offerta di istruzione. Nella seconda metà del Settecento, l’espulsione dei Gesuiti da molti Stati italiani va di pari passo con la secolarizzazione dell’istruzione. La riforma varata da Maria Teresa D’Austria nel 1774, ad esempio, prevede l’obbligatorietà della scuola elementare per i bambini dai sei ai dodici anni e l’istituzione di scuole normali per la preparazione dei maestri (normalschulen). Alla Rivoluzione francese e all’abolizione delle Corporazioni segue una crisi dell’apprendistato nelle botteghe. Nel 1792 Jean-Antoin-Nicolas de Caritat, marchese di Condorcet (1743-1794), presenta all’Assemblea nazionale francese il Rapport et project de decret sur l’organisation generale de l’instruction publique: tutti i cittadini devono accedervi; la scuola deve essere laica, fondata sulla trasmissione di capacità professionali utili. Nel periodo napoleonico nascono i quattro livelli di istruzione: elementare, medio-inferiore, medio-superiore, universitario. Al livello medio-superiore, assieme alle scuole normali e all’istruzione professionale, appartengono i licei (lycées). Nel Regno d’Italia e nel Regno di Napoli la scuola si modella su quella francese: i primi licei sono introdotti nel 1802, accanto ai ginnasi di modello austriaco. Nel 1808 il Piano di istruzione generale istituisce nel Regno d’Italia un liceo in ogni capoluogo di provincia.

L’Italia unita e liberale

Facendo seguito alle leggi Boncompagni del 1848 e Lanza del 1857, Gabrio Casati (1798-1873), ministro della Pubblica istruzione del Regno di Sardegna, riforma l’ordinamento scolastico con il regio decreto legislativo 13 novembre 1859, n. 3725 (legge Casati). La legge traccia una precisa linea di demarcazione tra la formazione umanistica, volta a formare le classi dirigenti, e quella tecnica, volta a formare artigiani e operai (titolo III: Dell’istruzione classica e titolo IV: Dell’istruzione tecnica). L’istruzione classica consente l’accesso a tutte le facoltà universitarie e viene articolata nel ginnasio di cinque anni, a pagamento e a carico dei Comuni, seguito dal liceo di tre anni, a carico dello Stato; l’istruzione tecnica viene articolata nella scuola tecnica di tre anni, gratuita e a carico dei Comuni, seguito dall’istituto tecnico di tre anni, a carico dello Stato. Quest’ultimo è diviso in sezioni; quella fisico-matematica consente l’iscrizione alla facoltà di scienze matematiche, fisiche e naturali. Circa l’obbligatorietà, la legge Casati istituisce una scuola elementare articolata su due bienni e obbligatoria per il primo. Sarà la legge Coppino (1877) a portare le scuole elementari a cinque anni, con il primo triennio obbligatorio. Tuttavia, con l’approfondimento, tra la fine dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale, del processo di industrializzazione del Paese, il modello di istruzione secondaria fissato dalla legge Casati, che resta immutato anche nelle successive leggi Orlando (1904) e Daneo-Credaro (1911), mostra i suoi limiti, non essendo in grado di preparare i tecnici di cui la società industriale ha crescente bisogno, soprattutto tecnici intermedi. Nasce allora non solo il dualismo tra istruzione classica e istruzione tecnica, ma anche la difficoltà ad aggiornare quest’ultima al mutare delle condizioni dell’apparato produttivo del Paese. Per lungo tempo gran parte delle istituzioni destinate a preparare i tecnici vedono la luce al di fuori della scuola, con iniziative del Ministero dell’Agricoltura industria e commercio, poi ricondotte nell’alveo del Ministero dell’Educazione nazionale nel 1931, con il ministro Balbino Giuliano (1879-1958). Tra le due guerre il mutamento socio-economico sollecita nuove riforme.

L’Italia fascista

Nel 1923, il ministro della Pubblica istruzione del primo governo Mussolini, Giovanni Gentile (1875-1944), provvede a riformare l’ordinamento scolastico: la scuola elementare è seguita da un grado successivo, chiamato scuola media inferiore, con diversi sbocchi, seguito a sua volta dalla scuola media superiore: tre anni per il liceo classico, quattro per lo scientifico, tre o quattro per i corsi superiori dell’istituto tecnico, del magistrale e dei conservatori. Con il Testo unico n. 577 del 1928, Giuseppe Belluzzo (1876-1952), il ministro della Pubblica istruzione (dal 1929 ministro dell’Educazione nazionale) istituisce la Scuola di avviamento professionale, al fine di fornire gli elementi indispensabili ai vari mestieri (agrari, industrial-artigiani, commerciali, marinari). Il 15 febbraio 1939 il Gran consiglio del fascismo approva la Carta della scuola, elaborata dal ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai (1895-1959). Alla luce di un nuovo «umanesimo del lavoro», la scuola deve essere avvicinata al mondo della produzione, secondo principi di regolazione sociali, economici e territoriali in linea con il sistema corporativo. Nella scuola elementare di cinque anni vengono introdotte, negli ultimi due anni, ore dedicate al lavoro (scuola del lavoro). Dopo la scuola elementare si aprono tre canali, ciascuno della durata di tre anni: la scuola artigiana, la scuola professionale, la scuola media unica. La scuola artigiana, divisa in cinque branche (commerciale, industriale, nautica, agricola, artistica), è destinata all’istruzione di artigiani, contadini e operai, in specie nei piccoli centri; la scuola professionale si rivolge a quanti aspirano all’impiego in uffici o in aziende tecnico-industriali, navali e agrarie, in specie nelle città medie e grandi; anche la scuola media unica, rivolta a tutti gli altri, prevede un’ora di lavoro obbligatoria. Dalla scuola media unica si ha accesso alle scuole di ordine superiore di cinque anni: il liceo classico, il liceo scientifico, il liceo artistico, l’istituto magistrale, l’istituto tecnico-commerciale e l’insieme degli istituti professionali di quattro anni (periti agrari, periti industriali, geometri e nautici). Dei nuovi tipi di scuola viene effettivamente realizzata solo la scuola media unica nel 1940-1941.

L’Italia repubblicana

La Costituzione della Repubblica italiana, entrata in vigore il primo gennaio del 1948, fissa alcuni princìpi: la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto (art. 4); la Scuola è aperta a tutti e l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita (art. 34); la Repubblica tutela il lavoro e cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori (art. 35). L’obiettivo della formazione dei giovani viene perseguito attraverso gli istituti professionali oppure appositi strumenti giuridici, sui quali la produzione normativa è, negli anni, abbondante (avviamento al lavoro, n. 264 del 1949; apprendistato, n. 25 del 1955; legge quadro in materia di formazione professionale, n. 845 del 1978). Nel secondo dopoguerra inizia a farsi strada una più precisa distinzione tra i due tipi di istruzione, quella tecnica e quella professionale: la prima, più lunga, è destinata a preparare per la direzione aziendale, oppure il proseguimento degli studi; la seconda, più breve, è destinata a preparare la persona all’ingresso rapido nel mondo del lavoro. Nel progetto di legge del 1951, voluto dal ministro dell’Istruzione Guido Gonella (1905-1982), l’istruzione secondaria risponde a uno di questi tre tipi: classico (i licei), tecnico (istituti tecnici), professionale (istituti professionali). Negli anni Sessanta e Settanta si susseguono riforme e tentativi di riforma. Dal 1981 vengono avviati i Progetti assistiti della Direzione generale tecnica del Ministero per la scuola tecnica e, dal 1987, per quella professionale. I progetti sono noti come Progetto ’92: i tre anni degli istituti professionali vengono articolati in un biennio unitario e un monoennio professionalizzante. La riforma Gelmini (2010) riordina sia gli istituti tecnici, che hanno durata di cinque anni, intorno a due macrosettori (economico, tecnologico), sia gli istituti professionali, anch’essi di durata di cinque anni, intorno a due macrosettori (servizi, industria e artigianato). Il tutto stante la necessità, fortemente avvertita negli ambienti economici e più in generale nella società, di aggiornare le conoscenze scientifiche e di rispondere alle rinnovate esigenze del tessuto produttivo italiano.

Appendice: due istituti di incoraggiamento

Nel 1806 viene fondata nel Regno di Napoli, per impulso di Giuseppe Buonaparte (1768-1844), la Regal società d’incoraggiamento alle scienze naturali, conosciuta anche come Società d’Incoraggiamento per le scienze e le arti utili. L’istituzione nasce per raccogliere, da una parte, l’eredità della Reale accademia delle scienze e belle lettere di Napoli, dall’altra, per promuovere gli studi teorici e per indirizzarli verso le innovazioni pratiche. Tra le attività proposte dall’Istituto vi è, nel 1862, la nascita del Regio istituto tecnico Giovanni Battista della Porta, il primo a Napoli; nel 1919, la promozione presso il governo di un centro di studi superiori per il mare, istituito con il nome di Regio istituto superiore navale, dal 1930 Università (oggi Università Parthenope).

Nel 1838, su iniziativa della Camera di commercio di Milano, viene fondata la Società di incoraggiamento d’arti e mestieri, per favorire il perfezionamento delle manifatture lombarde. Fondatore e primo presidente della società è Heinrich Mylius (1769-1854), imprenditore, banchiere, mecenate tedesco attivo a Milano. Sin dalla fondazione, la Società è attiva nell’erogazione di premi, riconoscimenti, sovvenzioni e nell’organizzazione di corsi su discipline tecnico-industriali. La Società istituisce sia la prima scuola serale in assoluto in Italia sia, nel 1863, l’Istituto tecnico superiore (che è oggi il Politecnico di Milano).

Bibliografia

Artigiancassa, Quaranta anni al servizio dell’artigianato per lo sviluppo economico e sociale del Paese, Cassa per il credito alle imprese artigiane, Roma 1987; Charnitzky J., Fascismo e scuola. La politica scolastica del regime, 1922-1943, La Nuova Italia, Firenze 1996; Di Battista F., Origini e involuzione dell’Istituto di incoraggiamento di Napoli, in Augello M., Guidi M.E.L., Associazionismo economico e diffusione dell’economia politica nell’Italia dell’Ottocento. Dalle società economico-agrarie alle associazioni di economisti, vol. I, FrancoAngeli, Milano 2000; Lacaita G.C., L’intelligenza produttiva. Imprenditori, tecnici e operai nella Società d’Incoraggiamento d’Arti e Mestieri di Milano (1838-1988), Electa, Milano 1990; Mancini O., Perillo F., Zagari E., La teoria economica del corporativismo, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1982; Sapelli G., Storia dell’Unione delle Camere di Commercio, 1862-1994, Unioncamere, Roma 1997; Thrupp S.L., Le Corporazioni, in Storia economica Cambridge, vol. III, Giulio Einaudi, Torino.

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