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Rendita

di Francesco Forte e Carlo Stagnaro

Per inquadrare la posizione degli economisti e dei politici liberali italiani sulla rendita è necessario ricordare che l’idea che ha spinto gli economisti, fin dal diciottesimo secolo, a interrogarsi sulla natura della rendita economica è che essa si configurasse come la quintessenza del «reddito non guadagnato». Al di sotto di una disputa teorica, vi era un conflitto di ideologie riguardanti lo sviluppo economico. Nella impostazione dei fisiocrati, la terra dà una rendita agricola, consistente in un surplus, rispetto ai costi di produzione, costituiti dai compensi per il lavoro e il capitale che vi sono impiegati, che è tanto maggiore quanto più vi è libertà di mercato e sviluppo delle industrie e dei commerci, che consente di produrre di più con la stessa terra sia in agricoltura che negli altri settori. E solo la rendita della terra, che è il surplus, che deriva dallo sviluppo economico, va tassata, per consentire che esso avvenga a pieno ritmo senza ostacoli e drenaggi sul processo produttivo a valle. Lo stesso Adam Smith scriveva che «non appena la terra di un paese diventa tutta proprietà privata, i proprietari, come tutti gli altri uomini, amano raccogliere dove non hanno mai seminato, e domandano una rendita anche per il suo prodotto naturale» [Smith (1776) 2006, p.135]. Ma Smith non riteneva che la rendita della terra, intesa come affitto che il proprietario ne può ottenere, dovesse essere tassata di più degli altri redditi in quanto in tale affitto vi è anche il compenso per la cura che il proprietario mette per mantenere e migliorare la sua proprietà. Semmai occorre contenere la spesa pubblica, per evitare una tassazione eccessiva, rispetto ai benefici ottenuti con la spesa delle imposte. David Ricardo, invece, di nuovo spostò l’enfasi sul processo produttivo a valle dell’attività agricola, sostenendo che la rendita della terra cresce automaticamente, come differenza fra costi di produzione e canone di affitto dei terreni, connesso al prezzo delle derrate agricole, con l’aumento della popolazione e l’aumento del consumo pro capite, in quanto opera una legge di rendimenti decrescenti della terra, dovuta alla limitatezza della sua fertilità. La rendita sale automaticamente per le terre più fertili, man mano che la domanda di beni agricoli si accresce e se ne accresce il prezzo, in quanto si coltivano le meno fertili e man mano che si cerca di accrescere il rendimento delle terre fertili. I salari tendono al livello di sussistenza. E tutte le imposte diverse da quelle sulla rendita, alla fine, entrando nei prezzi dei beni, ritardano lo sviluppo economico e quindi diminuiscono la crescita della rendita che si connette alla legge dei rendimenti decrescenti.

In parallelo a questa teoria «negativa» della rendita fondiaria si è sviluppata, sulla base di una teoria specifica di Johann Von Thünen e della estensione all’edilizia della teoria ricardiana, una teoria della rendita del suolo edificabile e dei fabbricati su di esso costruiti, come reddito non guadagnato, non derivante dal compenso del lavoro, né da quello del capitale, ma derivante dalla posizione differenziale dei terreni fabbricabili che sono nei centri abitati più sviluppati o nelle loro vicinanze più immediate. Henry George, a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento, spinse all’estremo la riflessione di Ricardo, sostenendo che, poiché la rendita era un beneficio improduttivo, essa poteva essere tassata anche integralmente senza alcuna perdita di efficienza per l’economia, e avrebbe potuto divenire l’unica fonte di gettito per l’erario. Nell’economia neoclassica, per altro, la prospettiva mutò drasticamente con Alfred Marshall (1890) che distinse la rendita e la quasi rendita, considerando la prima come il rendimento differenziale di lungo termine di un qualsiasi fattore produttivo, sia esso la terra agricola, il sottosuolo, il terreno fabbricabile, la competenza professionale o il talento artistico o una conoscenza tecnologica, e la seconda come il rendimento temporaneo, che deriva dal guadagno differenziale che deriva dal suo impiego quando le sue potenzialità non sono ancora interamente sfruttate. Ciò perché, come legge generale dello sviluppo economico, alla legge dei rendimenti decrescenti, si sostituisce quella dei rendimenti crescenti [Alchian 2008]. Marshall chiarì pure che la rendita economica andava intesa come la remunerazione di un fattore di produzione al di là del suo costo opportunità. Questa intuizione contribuisce a «scagionare» la rendita fondiaria dalle accuse che le erano state rivolte. Infatti, la rendita generata da un appezzamento di terreno (e, per estensione, di qualunque altro fattore di produzione disponibile in quantità fissa, che questa condizione sia temporanea o permanente) consente di trovare quale sia l’utilizzo più produttivo di quello specifico terreno, e degli altri. In questa prospettiva, ragiona Armen Alchian, «in linea di principio, un’imposta del 100 per cento sulla terra non ne cambierebbe l’offerta (assumendo inizialmente che «terra» indichi qualunque cosa abbia un’offerta fissa e indistruttibile). Ciò sarebbe corretto se in questo caso al «proprietario» della terra rimanesse qualche incentivo a curarsi di chi sia colui che è disposto a pagare di più, laddove l’extra-pagamento determina la rendita. Tale affermazione assume che in qualche modo il più alto valore d’uso possa essere conosciuto e che il gettito dell’imposta possa essere raccolto senza una competizione equa per il suo utilizzo, una proposizione dubbia se non del tutto falsa» [Alchian 2008].

Il pensiero economico italiano, che fu alla base della politica economica della destra storica e che alimentò anche il riformismo giolittiano, aveva anticipato l’impostazione marshalliana, con le teorie pragmatiche degli economisti toscani e lombardi del primo Ottocento, fautori della tassazione mediante il catasto sul reddito medio, con esonero delle migliorie, per tutti i decenni antecedenti la revisione catastale (su cui ha scritto pagine ammirate Luigi Einaudi [Einaudi 1924; 1942]) e con la teoria generale della rendita di Francesco Ferrara. Entrambe queste teorie influenzarono il pensiero di Camillo Benso Conte di Cavour, i cui scritti e discorsi, che puntavano sullo sviluppo economico mediante una politica privata e pubblica di infrastrutture, furono, per parecchi decenni, alla base della politica economica liberale italiana. Il catasto basato sul reddito medio si basa su una concezione dinamica della proprietà fondiaria opposta a quella ricardiana, in quanto esonera automaticamente da tassazione il reddito differenziale e sovratassa il reddito marginale. La terra agricola (ma anche ogni altra proprietà di beni potenzialmente produttivi) non ha una fertilità intrinseca, oggettiva, come nella concezione di Ricardo. Ha un reddito tanto maggiore quanto maggiore è l’abilità di farla fruttare nel modo giusto e la capacità e volontà di lavorarla nel modo giusto, nel quadro di opere generali atte ad accrescerne il rendimento. L’esonero pro tempore del reddito delle migliorie è un incentivo a generare, con esse, un nuovo rendimento, in termini moderni, ad accrescerne la produttività, quindi la rendita che premia tale sforzo. Ed è un incentivo a reinvestire la rendita, che appare inizialmente come un regalo della natura, in attività produttive umane.

Per Francesco Ferrara [Ferrara 1850, 1853, 1955-1956], sulla base del pensiero di Henry Charles Carey e Frédéric Bastiat, la teoria di Ricardo, secondo cui passando da terre più fertili a terre meno fertili o aumentando l’investimento di un data terra, si ha un prodotto via via minore e quindi il salario dei lavoratori risulta via via compresso, è sbagliata perché trascura la associazione fra terra, capitale e lavoro. All’inizio, quando il capitale è scarso si coltivano non le terre più fertili, ma quelle per cui occorre poco capitale. Man mano che il capitale abbonda, perché si è risparmiato, si coltivano quelle più difficili e non è affatto vero che la produttività delle maggiori dosi capitale con tali unità di terreno dia un rendimento unitario al capitale inferiore, gli dà di solito un rendimento maggiore, che consente anche di remunerare il proprietario del terreno, con una rendita non inferiore a quella che si otteneva dalle terre di facile coltivazione. Sin qui Carey e Bastiat, ma c’è un contribuito originale di Ferrara: «ma ciò non basta. Noi abbiamo sino ad ora considerato la capitalizzazione e non nei suoi elementi. Ma una grave differenza è da notarsi nella capitalizzazione dell’uomo e della materia. Questa è limitata […] Invece nell’uomo la capitalizzazione può essere infinita […] Di più la capitalizzazione in un senso non impedisce […] la stessa capitalizzazione con lo stesso capitale negli altri. Una idea appena acquistata, non come l’aratro e la semente che mentre servono a un fondo non possono servire ad un altro, sarà acquistata da tutte le intelligenze viventi, per tutte le generazioni venture».

Migliorando il capitale umano, migliora il rendimento delle risorse naturali, aumentano le mercedi e il rendimento del capitale e anche la rendita delle risorse naturali stesse, ma in modo limitato, perché capitale e lavoro possono associarsi con altre risorse naturali. Dunque la rendita della terra dei proprietari non è un dono che viene dal cielo, ma il premio per quelli che si danno da fare e veruna politica pubblica che sviluppa il risparmio che viene investito e il capitale umano. Francesco Ferrara e i suoi seguaci difendono la rendita sostenendo che essa non costituisce una fattispecie diversa dagli altri redditi: nel 1884, per esempio, il ferrariano Tullio Martello lamenterà che gli economisti abbiano «improvvidamente distinto i beni gratuiti (terre, fiumi, miniere) dai beni onerosi, i primi suscettibili di mano pubblica, i secondi di mano privata». La teoria dell’imposta di Luigi Einaudi, inizialmente favorevole alla tassazione della rendita delle aree fabbricabili come reddito non guadagnato [Einaudi 1898] si sviluppò in modo rigoroso secondo questi principi teorici, appresi da Ferrara, Marshall e dagli economisti del primo Ottocento fautori del catasto. Tanto nel campo dei terreni che delle aree fabbricabili e dei fabbricati: «come il bosco non dà reddito se non al momento del taglio, così l’area non dà reddito se non al momento della sua maturazione economica». Dal che segue che un’imposizione fiscale sull’aumento del valore dal capitale derivante dalla capitalizzazione della maggiore rendita sarebbe inappropriata perché non tasserebbe un sovrappiù piovuto dal cielo, ma darebbe luogo alla doppia tassazione rispetto al reddito che deriva dall’impiego di capitale e imprenditorialità.

La questione, insomma, spiega Sergio Ricossa, riguarda la «contraddizione tra il valore come costo o sacrificio, e il valore come utilità (valore d’uso) […] [che] assumeva […] connotazioni chiaramente positive, che infatti la scuola neoclassica […] cercò di ampliare legando il profitto alla produttività del capitale e la rendita alla produttività della terra, così come il salario premiava la produttività del lavoro» [Ricossa 2006, pp. 92-93].

Nel momento, però, in cui gli interessi della borghesia industriale del Nord Italia si saldano con quelli dei latifondisti meridionali, le coordinate del dibattito cambiano, e la tutela della rendita fondiaria diventa tutt’uno con la difesa del protezionismo che genera una rendita per gli industriali siderurgici, meccanici, zuccherieri e dell’industria navale [Macchioro 2006]. Di conseguenza, nel momento in cui i dazi cerealicoli – uno dei principali obiettivi polemici dei liberali di allora [Tedesco 2008] – diventano acquisiti, l’imposta fondiaria viene concepita come una sorta di compensazione, grazie alla quale i grandi proprietari sono costretti a restituire almeno parte di ciò che hanno guadagnato. E questo nonostante alcuni meridionalisti, da Antonio De Viti De Marco a Giovanni Carano Donvito, abbiano ben chiaro che non si può riparare a un torto con un torto, e che questa condizione finisce per danneggiare soprattutto i piccoli e medi proprietari. Il sistema tributario che così viene a configurarsi, scrive Carano Donvito, «presume un popolo che viva di tutti i vari redditi: dell’agricolo, dell’industriale e del commerciale […] gli italiani del Sud […] vivono quasi unicamente dell’incerto e variabile reddito fondiario, e […] perciò con questa sola fonte devono pagare […] tutto l’enorme carico tributario» [Carano Donvito (1903) 1928]. Lo stesso De Viti De Marco assegna al «partito meridionale» il compito di difendere il «diritto elementare e inalienabile del cittadino moderno» di «vendere e acquistare in qualsiasi luogo».

Tesi sostanzialmente, ma solo tatticamente, condivise da Edoardo Giretti, il quale riconosce che «forse De Viti ha ragione affermando la sperequazione della fondiaria a danno del Mezzogiorno. Ammetto anche che uno sgravio temporaneo della imposta sui terreni potrebbe essere il compenso da darsi ai proprietari meridionali per la abolizione del dazio sul grano. Ma temo che si finirà per fare la prima cosa e non la seconda» [Tedesco 2002]. Che l’imposta fondiaria fosse lo strumento con cui il Nord industrializzato sfruttava fiscalmente il Sud agricolo era pure la convinzione di Pantaleoni. La questione era, dunque, complessa e resa più ardua dalla difficoltà nel separare l’analisi teorica dai problemi concreti che i liberisti di fine Ottocento e inizio Novecento dovevano affrontare.

Seguendo la riflessione marshalliana, inoltre, è possibile definire la «rendita di monopolio» come l’extraprofitto che un soggetto può trarre nel momento in cui conquista una posizione monopolistica sul mercato, e consolidando o garantendo tale posizione attraverso attività amministrative e legislative. Luigi Einaudi ha sostenuto che gran parte dei monopoli sono generati dalla legge. Un tipico strumento per favorirlo, anche in mercati con molte imprese, è l’imposizione di restrizioni all’ingresso dei competitori sul mercato [Leoni (1965) 2004]. Un esempio del caso citato da Bruno Leoni è l’obbligo di iscrizione a un ordine, che adotta il numero chiuso, o palesemente o mediante l’obbligo di esami selettivi, per poter esercitare alcune attività professionali: in questo modo il numero di quanti sono abilitati all’esercizio della professione è ridotto [Boccalatte 2009]. Un esempio più sottile è quello delle numerose restrizioni all’effettiva concorrenza, a dispetto della formale salvaguardia della libertà di entrata, che è rinvenibile nel mercato dei recapiti postali in Italia [Arrigo 2007]. Infine, condizioni di privilegio possono essere garantite dal ricorso alla leva fiscale, tassando i concorrenti (come spesso accade nel caso del commercio internazionale, essendo dazi e tariffe una forma di tassazione di fatto [Slemrod 1994]) oppure attraverso sussidi o benefici tributari di varia sorta. In quest’ultimo caso, si può parlare di «rendita fiscale» [Forte 2007]. Si parla, in questo caso, di rent seeking, termine introdotto per la prima volta da Anna Krueger (1974) sulla base di una teoria sviluppata in precedenza da Gordon Tullock (1967). Per esprimere la situazione con un aforisma citato da Tullock, «l’attività di creare monopoli è un’industria competitiva» [Tullock 1967]. La tesi di Tullock che tale concorrenza genera, alla fine, dissipazione nella rendita è di fatto contraddetta dalla limitazione alla libertà di entrata, nel campo della ricerca delle rendite, nell’intreccio fra poteri economici e politici.

Il pensiero liberale italiano di fine Ottocento e dei primi decenni del Novecento ha una lunga e sfortunata tradizione di queste battaglie contro le rendite di monopolio e le altre rendite derivanti da distorsioni della concorrenza e da favori nella finanza pubblica, di origine politica, con gli scritti polemici di Vilfredo Pareto, Luigi Einaudi ed Edoardo Giretti, autore del libro I trivellatori della nazione. Con l’avvento del fascismo, le rendite di privilegio vennero addirittura teorizzate come fattore positivo, come nel caso di Ernesto Scagnetti, autore del volume Le rendite di privilegio nell’economia corporativa. Ernesto Rossi, allievo di Einaudi, ha ripreso nel secondo dopoguerra sino agli anni Sessanta, una battaglia contro i «padroni del vapore», cioè gli importanti operatori economici che ottengono rendite differenziali controllando a proprio favore il potere politico. E i movimenti politici liberali, una volta al governo, nell’epoca del miracolo economico e in quella immediatamente successiva, negli anni Sessanta del Novecento, hanno spesso evitato queste battaglie, in quanto egemonizzati da «padroni del vapore». Negli anni Settanta, epoca del compromesso storico fra Partito comunista e Dc, mentre vigeva la distinzione neo-ricardiana e marxista fra il profitto e il salario come espressione di attività produttiva e le rendite come redditi e guadagni di capitale frutto di situazioni improduttive, si moltiplicavano i dirigismi generatori di rendite fiscali di origine politica. Una parte di queste rendite sono state abbattute nel periodo successivo di alleanza fra liberali e socialisti riformisti. Ma con notevoli resistenze nei poteri economici. Nella seconda Repubblica, alle privatizzazioni non si sono sempre accompagnate le liberalizzazioni. E lì l’agenda si è spesso limitata a «casi minori», tranne che quando specifiche direttive comunitarie spingevano verso una più incisiva apertura del mercato.

In ultima analisi, la «rendita» – quando origina dal mercato, entro regole che ne assicurano il corretto funzionamento competitivo – non dovrebbe essere considerata di per sé negativa, in quanto può svolgere un’importante funzione di segnalazione rispetto agli usi maggiormente produttivi di una risorsa offerta in quantità fissa. Diverso è il caso delle rendite create artificialmente attraverso politiche pubbliche nocive al corretto funzionamento del mercato.

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