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Nazionalità (principio di)

di Andrea Frangioni

Guido De Ruggiero nel capitolo Nazionalità e liberalismo della sua Storia del liberalismo europeo rilevava che poteva apparire strano come nel corso del secolo diciannovesimo gli ideali liberali si fossero associati, nell’Europa continentale e in Italia, alle lotte per l’affermazione delle nazionalità. Nelle parole di De Ruggiero è evidente un’eco delle riflessioni di Lord Acton contenute nel saggio Nationality del 1862 sulla difficoltà di conciliare la libertà individuale con la fedeltà all’entità olistica «nazione». Si tratta di riflessioni che, come è noto, troveranno un ampio sviluppo nel corso del Ventesimo secolo, in particolare con la produzione storiografica di Lewis Namier, che insisterà sui rischi insiti nel passaggio da una concezione della nazione «territoriale» a una caratterizzata da una più vaga e difficile demarcazione, come quella linguistica e culturale.

In questo senso, le parole di De Ruggiero sembrano collocare il liberalismo italiano, rispetto al problema sollevato da Acton, in una diversa prospettiva nella quale emancipazione degli individui ed emancipazione delle nazioni procedono insieme, in un quadro armonico. Se questo è vero, si può però anche cogliere, nell’approccio del liberalismo italiano al tema, un’attenzione a non assumere come un assoluto il principio di nazionalità ed a contemperarlo con altri principi ed esigenze, quali il rispetto dei principi del diritto pubblico europeo e il bisogno di evitare lo scoppio di moti rivoluzionari incontrollati in Europa. A questo proposito, proprio una ricognizione della riflessione del liberalismo italiano sul principio di nazionalità risulta assai interessante.

Pochi anni prima dell’opera di De Ruggiero, nel 1918, nel suo volume Le Principe des Nationalités, lo studioso francese René Johannet definiva il principio di nazionalità, differenziandolo dal concetto di nazione e dal sentimento nazionale, come il principio in base al quale le «razze» (ma oggi diremmo le «nazioni») si concepiscono come un corpo politico, facendo conseguentemente coincidere Stato e nazione. In altre parole, il principio di nazionalità assume un duplice valore: sul versante interno, di legittimazione dello Stato e, su quello esterno, di regolazione dei rapporti internazionali. In tal senso, la riflessione su tale principio, in Italia, precede la nascita dello stesso termine «nazionalità». Infatti, il termine «nazionalità» si diffuse nel nostro Paese solo dopo il 1810, come calco del termine francese nationalité, usato per la prima volta in quell’anno da Madame De Staël nel suo scritto De l’Allemagne. Invece, il passaggio da un’accezione solo culturale della nazione a una «politica», vale a dire all’individuazione dell’appartenenza alla nazione italiana come elemento di legittimazione politica, sulla scia di quello che era avvenuto in Francia con la Rivoluzione, è di qualche anno precedente e nasce nelle fila del «giacobinismo» italiano. Infatti già nel 1796 i partecipanti al concorso milanese su quale dei governi meglio si adattasse all’Italia (vinto da Melchiorre Gioia) avevano variamente sostenuto la necessità di uno Stato unitario come strumento di emancipazione nazionale.

Un primo approccio che possiamo definire liberale a questo tema si ritrova però solo nei primi anni della Restaurazione nel «Conciliatore» di Milano, grazie al collegamento che i suoi redattori, come il Pellico e il Di Breme, ebbero con quel centro di stimolo del liberalismo romantico europeo che fu il circolo di Coppet, di madame De Staël, Benjamin Constant, Sismondi. Per gli autori del «Conciliatore» la lettura della Storia delle Repubbliche italiane nel Medioevo di Sismondi e di Corinne, ou L’Italie della De Staël stimolavano il patriottismo nazionale, mentre quella delle Considerazioni sulla rivoluzione francese, sempredella De Staël, e del celebre Discorso del Constant induceva all’ammirazione della Costituzione liberale francese del 1791 e delle libertà costituzionali britanniche. Questi modelli erano preferiti rispetto a quello della virtù repubblicana di Roma caro al giacobinismo e alla tradizione classicista italiana; insieme era chiara la scelta per le riforme, anziché per la rivoluzione. Il contatto con il gruppo di Coppet implicava inoltre l’invito a collegarsi alle più moderne tendenze della cultura romantica europea: in tal senso piuttosto che difendere l’autoctonia della cultura nazionale, sulla scia della linea dell’«italianismo» (termine peraltro coniato dal Pellico) alfieriano-foscoliano assai diffuso negli stessi anni, si sosteneva una visione «europea» per recuperare i ritardi nazionali.

In sostanza è possibile individuare nelle pagine del «Conciliatore» in nuce, all’incrocio tra polemica letteraria e polemica politica (e dove anzi è la prima a predominare), una peculiare declinazione del rapporto libertà-Nazione-Europa. Infatti il principio di nazionalità non è assolutizzato e si privilegia la ricerca della modernizzazione culturale, sociale e politica (in termini di maggiori libertà civili), in collegamento con le più moderne tendenze europee, come premessa dell’unificazione politica nazionale. Si tratta di una posizione che caratterizzerà il liberalismo italiano, giungendo a un alto punto di equilibrio, questa volta tutto politico, nel pensiero di Cavour.

Infatti nella «religione progressista» romantica della nazione dell’altro grande protagonista del Risorgimento, Mazzini, i temi romantici, liberali ed «europeisti» del «Conciliatore», pure in origine presenti, vengono declinati in tutt’altro modo: la rivendicazione della libertà assume una dimensione etico-morale in cui coscienza ed emancipazione individuali e coscienza ed emancipazione nazionali costituiscono un tutt’uno; inoltre il richiamo all’europeismo culturale romantico diviene aspirazione a un’altra Europa, rifondata ab imis sulle nazioni. Ben diverso è invece il discorso per Cavour: nel piemontese, l’aspirazione alla liberazione dell’Italia, che emerse insieme al suo entusiasmo giovanile per la rivoluzione di Luglio del 1830, maturerà come è noto in un atteggiamento che, ispirato proprio al liberalismo del juste milieu francese, diviene gradualista e prudente, ma non meramente conservatore. In questo quadro, l’unità nazionale è concepita come la conclusione di un lungo lavoro riformatore: ciò è testimoniato anche dal primo intervento cavouriano sulla questione nazionale, il noto saggio Des chemins de fer en Italie del 1846. Dai suoi scritti successivi emergono alcuni dati precisi sul suo approccio al principio di nazionalità, che possono essere anche confrontati con le altre prese di posizione in ambito moderato sul tema della nazionalità. Ad esempio, rispetto al neoguelfismo di un Gioberti (oltre che, naturalmente, al pensiero mazziniano), non vi è nessuna insistenza, nel Cavour, su primati o missioni nazionali, anzi unica missione delineata è quella di inserire l’Italia nella corrente del progresso europeo; rispetto alla sola rivendicazione dell’indipendenza nazionale e dell’espulsione della presenza austriaca, caratteristica di Cesare Balbo, ma anche di Giacomo Durando, che dedicò al tema lo scritto Della nazionalità italiana, si insiste sul legame tra tale rivendicazione e le riforme in senso liberale sul piano interno. Inoltre, si può tracciare una distinzione tra l’impostazione cavouriana e la pure celebre teorizzazione del principio di nazionalità compiuta, nel corso del decennio di preparazione, da Pasquale Stanislao Mancini. Il giurista Mancini riprese, a partire dalla prolusione Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti del 1851, la concezione spiritualista della nazione propria di un Mazzini (per cui le nazioni si fondano in primo luogo sull’elemento psicologico della coscienza dell’appartenenza nazionale) e quindi individuò, dando vita a un indirizzo destinato a perdurare nel diritto internazionale italiano, nelle nazioni, e non negli Stati, i soggetti del diritto internazionale. Cavour, invece, rifiuta l’ipotesi di una palingenesi dell’ordine europeo in nome del principio di nazionalità, della quale lo statista piemontese aveva delineato chiaramente i rischi, ad esempio commentando l’Assemblea costituente tedesca del ’48, e concepisce l’unità politica italiana come coerente con i principi del diritto pubblico europeo dell’epoca, mercé l’inserimento della nuova Italia nel concerto delle potenze esistente (ciò risulta evidente, ad esempio, dai suoi ultimi interventi parlamentari del 1861, così come dalla sua corrispondenza degli stessi mesi).

La concezione cavouriana può essere assunta a punto di riferimento per tutto il periodo successivo. D’altra parte la sua migliore teorizzazione, in cui confluirono però anche elementi derivanti dal pensiero di Mancini, giunse a una decina d’anni dalla morte dello statista: il riferimento è al commento di alcuni liberali italiani, come Ruggiero Bonghi, ai fatti del 1870-’71, la guerra franco-prussiana e l’unificazione tedesca. Nelle pagine di Bonghi viene ad esempio delineata una netta contrapposizione tra la concezione italiana della nazione, basata su fattori volontaristici e in base alla quale appartengono a una nazione, in questo caso mancinianamente, tutti «i popoli che nella loro coscienza sentono di appartenervi» e la concezione tedesca che individua i fattori della nazionalità in elementi naturalistici, come la lingua o la razza. Corollario del ragionamento era che, in politica interna, era la concezione italiana rispetto a quella tedesca a meglio conciliarsi con le istituzioni liberali così come, in politica internazionale, la concezione italiana, ben più di quella tedesca, conduceva a invocare il rispetto del diritto pubblico europeo e del principio di nazionalità e la collaborazione internazionale.

Si tratta di una dicotomia destinata a riemergere in momenti drammatici della storia nazionale: Francesco Ruffini la riproporrà, con alcuni scritti, negli anni della prima guerra mondiale; quindi, dopo essere stata richiamata da Croce nella Storia d’Europa nel secolo decimonono, sarà resa celebre da Federico Chabod nelle lezioni universitarie milanesi del tragico inverno del ’43-’44.

Alla luce di questa interpretazione, il legame nazione-libertà-Europa come delineato da Cavour (diverso da quello di Mazzini, ma in fondo complementare a questo) parrebbe quindi rappresentare la bussola della classe dirigente liberale: incrinatosi, ma non venuto del tutto meno, con Crispi e con la sua politica «avventurosa», esso si sarebbe spezzato solo con il fascismo.

Ma in realtà il punto di «equilibrio» raggiunto da Cavour risulta difficile da mantenere. Per molti aspetti, il principio di nazionalità come delineato dallo statista piemontese sembra continuare a caratterizzare il liberalismo italiano e a guidare la politica italiana, soprattutto attraverso l’azione di uomini come Emilio Visconti Venosta: l’individuazione del primum movens della politica estera nazionale nell’esigenza di tutelare l’indipendenza raggiunta mediante il «tranquillo» inserimento dell’Italia tra le grandi potenze sicuramente lo testimonia. Tuttavia dopo il 1870 il concerto delle Potenze non è più quello conosciuto da Cavour e dominato dall’Inghilterra di Palmerston, ma è piuttosto orientato dalla Germania di Bismarck: la prevalenza degli interessi strategici e della realpolitik e il crescente protezionismo rendono più ristretti gli orizzonti rispetto alla progressiva affermazione del liberalismo auspicata dal primo ministro piemontese. Più in generale la classe dirigente liberale, di fronte alle molteplici fragilità del nuovo Stato, pare perdere fiducia in se stessa e nella capacità del liberalismo di tenere insieme progresso e ordine sociale. Così la tutela dell’indipendenza raggiunta diviene fine in sé e l’insistenza italiana per la partecipazione al concerto delle potenze muta progressivamente di tono, anche per molti liberali, fino a giungere ad una certa condivisione dell’ammirazione di Crispi per il modello bismarckiano e all’appoggio alle avventure coloniali.

In questo contesto i valori di una concezione liberale della nazionalità rimangono presenti in voci di minoranza, come nelle critiche moderate di Stefano Jacini e di Ruggiero Bonghi alla «megalomania» della politica estera italiana e nel loro invito a concentrarsi piuttosto sulle difficili condizioni interne del Paese e sulle necessarie riforme. Ma anche in queste posizioni non si riproduce completamente la posizione di Cavour, in quanto ciò che pare emergere è quasi un rifiuto dello status di grande potenza dell’Italia tanto pervicacemente richiesto dal Piemontese. In sostanza, la riproposizione del modello cavouriano appare impossibile.

La stessa impossibilità, con conseguenze ben più drammatiche per la classe dirigente liberale, si prospetta al momento dello scoppio della prima guerra mondiale. In questo caso, infatti, non si riesce a riproporre la sintesi efficace individuata da Cavour tra il principio di nazionalità e l’inserimento dell’Italia nel concerto delle potenze europee. Parte della classe dirigente liberale sembra piuttosto rifarsi alla posizione di Cesare Balbo e alla sua ipotesi di «inorientamento dell’Austria», in una logica di mera conservazione dell’ordine europeo di cui il mantenimento in vita dell’Impero asburgico rappresentava un elemento essenziale. Una simile posizione conduce alcuni, come Giolitti, al neutralismo, nel tentativo di intavolare con l’Impero austro-ungarico una trattativa sui compensi. Così liberali neutralisti, come i redattori dell’«Italia Nostra», giungono a contestare apertamente il principio di nazionalità difeso dagli interventisti democratici. Ma ad una posizione in fondo simile si ispirano quanti, come Salandra, sostengono la guerra con il programma del «sacro egoismo», che, come è noto, non contemplano la possibilità della dissoluzione dell’Impero asburgico. Di contro, il «Corriere della Sera» di Albertini, con alcuni suoi importanti collaboratori, come Giuseppe Antonio Borgese e Francesco Ruffini, che già si è richiamato, interpretano il conflitto come difesa dei valori dell’Europa liberale contro il tentativo egemonico degli Imperi centrali, erede del bismarckismo antiliberale. Tra i valori da difendere vi è anche quel principio di autodeterminazione nazionale poi solennemente proclamato dal presidente USA Wilson. In questo modo però, queste forze si ritrovano a sostenere la ricostruzione dell’Europa su basi nazionali, con una radicalità propria di Mazzini piuttosto che di Cavour, e con conseguenti scelte politiche, come quella della politica delle nazionalità e della ricerca dell’intesa italo-slava, generose ma spesso avventate (si scorrano, a questo proposito, le pagine della «Voce dei popoli» di Umberto Zanotti Bianco, prendendo, ad esempio, l’articolo L’Italia e la politica internazionale di Tommaso Gallarati Scotti, apparso nel primo numero del 1919).

Il dopoguerra dimostrerà poi la difficoltà di applicazione del principio di nazionalità, soprattutto nell’Europa centrorientale, sembrando così dare ragione a Lord Acton. In questo senso, come elemento nuovo che si inserisce nel dibattito, si può ricordare come proprio in quegli anni, con gli articoli di Junius-Luigi Einaudi poi raccolti nelle Lettere politiche, e con il saggio di Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati Federazione europea o Lega delle nazioni?,si affacci una prima significativa critica, inedita per l’Italia e per il liberalismo italiano, al principio di nazionalità. Infatti questi scritti, oltre alla critica di tipo «federalista» alle insufficienze della Società delle Nazioni, contengono anche una contestazione dello stesso concetto di Stato nazionale, riprendendo esplicitamente il pensiero di Lord Acton.

Questo tipo di critica del principio di nazionalità continua ad avere una certa diffusione negli anni del fascismo: nel 1935 su «Giustizia e Libertà», e quindi al confine tra liberalismo e socialismo, contestano l’identificazione tra antifascismo e Risorgimento, sviluppando una critica radicale allo Stato nazionale risorgimentale in favore del federalismo europeo, Andrea Caffi (già scettico sul principio di nazionalità in alcune sue lettere degli anni della Grande Guerra a Umberto Zanotti Bianco) e Nicola Chiaromonte. Inoltre, proprio dalle opere di Einaudi, apprende la contestazione dello Stato nazionale Ernesto Rossi che, a sua volta, la trasmette a un nonliberale come Altiero Spinelli. Siamo alle origini di quel movimento federalista europeo al quale, alla fine della guerra, guarderà con simpatia parte del mondo liberale.

Ma, al di là della forza, tutto sommato limitata, che il movimento federalista europeo organizzato ebbe, con la fine della Seconda guerra mondiale è varia la percezione nel liberalismo italiano della necessità di superare il principio di nazionalità. Il rifiuto di «assolutizzare» tale principio, che già si è visto in Cavour, si evolve in molti (si pensi, oltre ad Einaudi, a Carlo Sforza, ma anche ad Alberto Tarchiani o al già ricordato Gallarati Scotti) in un superamento della concezione della sovranità assoluta degli Stati, mercé l’impegno per il collocamento dell’Italia in un innovativo sistema di alleanze occidentale ed europeo. In questo modo si sembra quasi prendere atto, alla luce dell’esperienza, della difficoltà di mantenere in un equilibrio soddisfacente i termini dell’equazione nazione, libertà ed Europa e di trovare una corretta applicazione, in un’ottica liberale, del principio di nazionalità. Occasione per un confronto di questa nuova posizione con una visione più tradizionale del principio di nazionalità, sostenuta ad esempio da Vittorio Emanuele Orlando, sarà data dai dibattiti interni al partito liberale in occasione della ratifica dei Trattati di pace e del Patto atlantico.

In fondo, lo stesso Chabod, che si è visto riprendere negli anni della guerra la linea di pensiero di Bonghi e di Ruffini, sostenne questa evoluzione, parlando, nella conclusione della sua voce Europa dell’Appendice dell’Enciclopedia Italiana del 1948, di superamento del «dogma della frontiera». E a tale principio lo storico, insieme a un altro liberale, come Alessandro Passerin d’Entreves, si era ispirato nella sua attività politica in Val d’Aosta, intuendo la necessità di elaborare una «politica di larga libertà delle zone di frontiera» per trasformare quei «focolai d’irredentismo» in «anelli di congiunzione tra una nazione e l’altra».

Così molti furono negli anni successivi i segnali di una progressiva scomparsa del principio di nazionalità non solo dall’orizzonte della contemporaneità italiana, come notò Rosario Romeo nelle Conclusioni del suo Cavour, ma anche da quello del liberalismo italiano. Basti pensare proprio all’itinerario di ricerca nel secondo dopoguerra di un pensatore liberale importante come Alessandro Passerin d’Entreves, che coinvolse temi inediti per il liberalismo italiano come quelli del diritto all’obiezione di coscienza nei confronti dello Stato e della disobbedienza civile. Ancora si può ricordare la scarsa fortuna della dicotomia chabodiana sulle idee di nazione, confutata, già nel 1949, sulla scia delle posizioni di Hans Kohn, da Salvemini nelle sue lezioni universitarie fiorentine. Non a caso, allora, la riflessione sulla nazione non viene indicata da Nicola Matteucci tra gli elementi di quella ripresa di vitalità del pensiero liberale che a suo giudizio cominciò a manifestarsi a partire dagli anni Settanta del Novecento.

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