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Mutualismo, Cooperazione

di Gianni C. Donno

Riferendo in merito ai lavori del IX Congresso degli Scienziati italiani, che s’era tenuto in Venezia dal 14 al 24 settembre 1847, Cesare Correnti ricordava come, in tema di lotta alla povertà, s’era consigliato

di dare il massimo sviluppo a quegli istituti di beneficenza che possono direttamente esercitare un ufficio educativo, e di curare che altri istituti di soccorso operino in armonia colle normali funzioni economiche della società: sicché non si vegga più quel che ora si verifica quasi sempre che il rimedio crei il male, come tutti sanno dalla sbandata limosina, che fomenta e perpetua l’oziosa accattoneria: si proclamò l’urgenza di soppiantare le antiche e difettose fondazioni di beneficenza, i monti di pietà, i soccorsi segreti, le pensioni e le sinecure della povertà, col fortificare e diffondere le casse di previdenza e di risparmio, le società di mutuo soccorso, i ricoveri invernali, le distribuzioni in natura.

Correnti, che di lì a pochi mesi avrebbe dettato il Manifesto, da cui avrebbero preso l’avvio le Cinque giornate di Milano, era un illustre rappresentante di quella intellettualità di idee liberali, che s’era venuta formando nei diversi Stati italiani, e che ribadiva la necessità d’un processo d’unificazione nazionale. Nelle aree del Centro-Nord, quelle idee si coniugavano a una nuova considerazione della «questione sociale», che anche l’Italia presentava, con caratteri diversi, tuttavia, da quella degli altri maggiori Stati europei, nei quali si scorgevano ormai campi di avanzata industrializzazione. In Italia questo processo era ancora in fase iniziale, e comunque di questione sociale si discuteva da tempo, in relazione alla vasta presenza di aree di povertà, che sollecitavano provvedimenti nuovi, adeguati ai tempi.

Il mutualismo, attraverso la diffusione delle Società di mutuo soccorso, appariva una delle possibili risposte, presentando gli aspetti nuovi della solidarietà e della previdenza, di contro all’antica beneficenza, vista ormai come «rimedio che crea il male». Alla data del 1848, secondo la statistica ufficiale delle Società di Mutuo soccorso in Italia al 1862, le Società ammontavano a 82, presenti soprattutto in Piemonte e anche in Lombardia. Numero eterogeneo, con molte società «spurie» rispetto a una chiara connotazione mutualistica. Ma il processo di definizione del mutuo soccorso sarebbe venuto precisandosi in Italia, all’indomani dell’Unificazione.

Intorno al tema della derivazione delle Mutuo soccorso da precedenti esperienze associative, molti studiosi coevi hanno fornito ricostruzioni e interpretazioni. Pietro Maestri (1862), Enrico Fano (1869), Cesare Revel (1875), Giovanni De Castro (1879), hanno in diversi modi rilevato varie ascendenze: le fratellanze di pietà, le società di arti e mestieri, le confraternite, le corporazioni. La novità nelle Mutuo soccorso sarebbe tuttavia risieduta nel superamento dello spirito caritativo, con l’«affermazione di un principio laico, di regolazione del delicato terreno dell’assistenza e della previdenza, che era stato fin allora appannaggio soprattutto delle corporazioni di mestiere e delle istituzioni legate alla Chiesa» [Tomassini 1996].

E ciò si realizzava nell’ambito delle idee liberali proprie delle classi dirigenti postunitarie, impegnate a superare, sul terreno della presenza sociale, il monopolio ecclesiastico.

E infatti le Mutuo soccorso vedranno, nella loro diffusione, una sorta di doppio regime: le società libere, spontaneamente sorte dall’iniziativa autonoma di frazioni delle classi lavoratrici, e altre società che invece, chiedendo il riconoscimento giuridico, si sarebbero poste all’interno delle istituzioni pubbliche del neonato Stato unitario. Le finalità – grazie alla cassa sociale cui confluivano le quote dei soci e donazioni di filantropi – venivano progressivamente precisate e ampliate: intorno al nucleo centrale del mutuo soccorso, in casi di malattia, infortunio, morte e anche disoccupazione, venivano articolandosi ulteriori fini di tipo assistenziale ma anche cooperativo, educativo, d’istruzione. Ciò segna il distacco radicale dalle precedenti esperienze associative [Cherubini 1977]. Tanto che si può affermare che le origini del movimento cooperativo in Italia vanno rintracciate nell’ambito dello sviluppo delle funzioni delle Società di Mutuo Soccorso, con particolare riguardo alla cooperazione di consumo.

Di questo può dar conto la lettura degli statuti sociali, che, per molti versi, rispecchiano le situazioni delle aree territoriali di nascita delle Mutuo soccorso. Tanto da potersi rilevare ben presto, nelle zone di incipiente industrializzazione, finalità di tipo sindacale, legate al Miglioramento e alla Resistenza [Merli 1972]. Così che la geografia delle Società di Mutuo soccorso, che si arricchisce rapidamente sino alle punte massime del 1904, risulta molto importante per comprendere anche i diversi livelli dell’evoluzione economico-sociale nell’Italia unita.

Lo squilibrio, tuttavia preesistente all’Unificazione, fra Nord e Sud dell’Italia, trova buona rappresentazione dalla geografia delle Mutuo soccorso e anche dai caratteri peculiari che esse assunsero nelle diverse aree. Al 1904, circa l’80 per cento delle società si trovava nelle aree settentrionali, sul complesso di oltre 6500 sodalizi con oltre 926.000 soci. Il mutualismo al Nord si collegava in gran parte al mestiere artigiano e successivamente al lavoro industriale, ma non mancava un’alta quota di società a configurazione territoriale, ove più esplicita appariva la natura costitutiva interclassista dei sodalizi. Infatti esponenti dei ceti abbienti, aristocratici, filantropi erano spesso fra i soci onorari delle Mutuo soccorso, essendone stati anche i promotori della costituzione. L’interclassismo era il tratto peculiare dell’associazionismo mutualistico, che risultava più evidente nel Mezzogiorno, per l’assenza di strutture industriali e di un proletariato operaio significativo.

Le cosiddette società «miste» costituivano il maggior numero, con assoluta prevalenze nei centri urbani e scarsa diffusione delle zone agricole, a segnalare spesso la grande povertà di quelle popolazioni. E comunque lo studio degli Atti di fondazione e degli Statuti delle Mutuo Soccorso – ove non siano reperibili in opuscoli – può esser proficuamente condotto presso gli archivi distrettuali notarili, anche per le numerose società che non chiesero riconoscimento giuridico. Soprattutto gli atti di fondazione, recando nomi e professione dei fondatori e dei soci, compresi quelli onorari, consentono spesso di comprendere quale fu la ragione della costituzione del sodalizio e se esso nascesse sotto patrocinio di notabili del luogo [Donno 1982]. Motivo, quest’ultimo, di grande interesse, poiché, oltre alle società «professionali» – talune delle quali soltanto intorno agli anni Novanta cominciarono a inserire la clausola di partecipazione esclusiva di soci «di mestiere» – molte società di mutuo soccorso subirono forti condizionamenti ideologici e influenze politiche dai soci fondatori e onorari.

Si apre la vasta pagina del ruolo politico svolto dall’associazionismo mutualistico, che, rimasto in sordina nelle discussioni dei convegni nazionali delle Società Operaie, giunge al centro del dibattito nel IX congresso, fiorentino, del settembre 1861, con una radicale contrapposizione e immediata scissione, fra le principali componenti. Liberali e democratici si divisero sull’opzione politica, che i secondi ritenevano non dovesse escludersi: da ciò l’approvazione del Patto di fratellanza, di ispirazione mazziniana, che avrebbe portato alla costituzione di un vasto gruppo di Società Operaie Affratellate, con diversi congressi, ed esiti controversi, soprattutto di fronte alle vicende della Comune di Parigi del 1872 [Manacorda 1971]. Anche le società moderate avrebbero approvato un proprio Atto di fratellanza, quando però la parabola politica del mutualismo ormai volgeva verso le nuove forze, cattoliche e socialiste, divenute sensibili all’opportunità di utilizzare questa forma associativa consolidata e, nel complesso, vantaggiosa per ampie frazioni di classi lavoratrici.

I cattolici avviarono l’iniziativa mutualistica, dopo il loro congresso nazionale di Venezia del giugno 1874, dalle cui risoluzioni emerse la volontà di ispirare nuove Società di mutuo soccorso ai principi della carità cristiana, in opposizione al diffondersi di tendenze sovversive. Un intento politico, che avrebbe trovato corrispettivo, nella successiva azione dei partiti operai, che, dagli anni Ottanta, si sarebbero impegnati sia nell’ingresso di propri soci nelle società esistenti, sia nella trasformazione di talune e fondazione di nuove, in direzione del Miglioramento e della Resistenza.

Ma anche nel Mezzogiorno, la relativa diffusione delle Mutuo soccorso ne vide un discreto incremento per ragioni legate alle contese politiche locali: spesso, in un comune, due diverse società, fondate e sostenute dai contrapposti notabili del luogo, si contendevano il controllo politico-elettorale, soprattutto all’indomani della riforma del voto del 1882.

Veniva così progressivamente degenerando, verso forme di strumentale azione di controllo sociale e di orientamento elettorale, un istituto dell’Italia liberale, sorto con ben altri propositi. E i governanti tentarono di raddrizzare la deriva, attraverso la legge sul riconoscimento giuridico delle Società di Mutuo Soccorso, varata nell’aprile del 1886. Dopo ripetute discussioni, partite addirittura dagli anni Sessanta e rinnovatesi in successivi progetti di legge (Maiorana-Calatabiano, 1877; Miceli, 1880; Berti, 1883), si giunse al sospirato momento dell’approvazione del 1886. Infatti, forte era oramai divenuta l’esigenza di una normativa giuridica, che regolasse una materia divenuta incandescente, a causa di una prassi associativa molto differenziata.

Dibattito importante, quello dell’aprile 1886, nel quale diverse posizioni culturali si confrontarono e scontrarono. Al centro era il contrasto sui limiti da assegnare all’azione della legge: se lasciare ampi i margini dell’iniziativa associativa – non obbligando alla richiesta di riconoscimento giuridico – oppure dare alla legge precise norme sui caratteri che le Mutuo soccorso avrebbero dovuto assumere. Il testo infine varato obbediva alla raccomandazione di quanti parlamentari, dal fronte liberale, avevano mostrato preoccupazione di una possibile ingerenza da parte dello Stato rispetto alla libera iniziativa associativa dei cittadini. E infatti il riconoscimento giuridico restò facoltativo [Marucco 1981].

Di lì a pochi anni il bilancio sugli effetti della legge appariva negativo, perché ben pochi sodalizi avevano chiesto il riconoscimento, con l’eccezione costituita da numerose società nel Mezzogiorno. Lo rilevava Francesco Saverio Nitti in un intervento assai significativo del 1894, rivendicando all’organizzazione sindacale funzioni fondamentali per il progresso sociale ed economico:

La legge del 1886 che fece concepire tante speranze, non ha dato che risultati molto meschini […]. La ragione sta nella legge stessa, la quale ha voluto limitare gli scopi delle società operaie al solo mutuo soccorso […]. Ora l’operaio che cerca di coalizzarsi […] non è da considerarsi come elemento di male. Possiam quindi ancora non parlare che di solo mutuo soccorso? La legge sulle società operaie di m. s. dovrebbe, io credo e questo dovrebbe essere argomento di studio, concedere il riconoscimento giuridico anche a quelle fra esse che si propongono di assumere le funzioni di sindacati degli operai in difesa del lavoro.

Come funzionarono, nel complesso, le Mutuo soccorso? Le valutazioni degli osservatori del tempo sono diverse. I socialisti ne criticarono l’inadeguatezza rispetto ai tempi e Osvaldo Gnocchi Viani osservava nel 1885 come «l’operaio in esse non è che un infermo da sussidiare, un invalido da pensionare, un cadavere da trasportare al cimitero; tutt’al più un testatore che lascia un piccolo sussidio agli orfani e alle vedove. Non vi figura mai come uomo che vive e che lavora». Da ciò la spinta a modificarne gli statuti e, di lì a breve, l’abbandono di questa soluzione organizzativa, a favore delle Leghe di Miglioramento e Resistenza.

Molte società tuttavia, nelle aree di maggiore forza economica, ebbero buona vita, arrivando anche a erogare piccoli prestiti e ad istituire importanti scuole per l’alfabetizzazione l’educazione e l’istruzione degli operai, società cooperative di consumo o di produzione [Degl’Innocenti 1977]. Già dal 1898, tuttavia, con la fondazione della Cassa nazionale di previdenza per la vecchiaia e l’invalidità degli operai, il tema della previdenza, fin allora non centrale nelle discussioni sul mutuo soccorso, s’era venuto proponendo come fondamentale per l’azione di uno Stato attento alla questione sociale. Da quel momento la questione della previdenza, integrando e poi sostituendo le tematiche mutualistiche, s’impose nel dibattito pubblico e parlamentare. Ed infatti, nel 1912, lo Stato avrebbe stabilito il monopolio sulle assicurazioni sulla vita, con l’intento di creare un sistema previdenziale pubblico, indirizzato alla soluzione del problema delle pensioni operaie.

E sarebbe stata questa la direzione successivamente assunta nel primo dopoguerra e col fascismo: un depotenziamento progressivo dell’associazionismo mutualistico, a favore di diversi istituti previdenziali, che sarebbe giunto, alle soglie della caduta del regime, alla costituzione dell’Istituto nazionale per l’assistenza di malattia ai lavoratori (Inam).

Al progressivo declino del sistema mutualistico in Italia è corrisposta una diffusa crescita del movimento cooperativo. La cooperazione di consumo, costola del movimento mutualistico, è fra le prime forme cooperative che si sviluppano in Italia. Il magazzino di previdenza di Torino (1854) risulta il primo sodalizio cooperativo italiano. Questa forma associativa fu alquanto versatile, orientandosi non solo verso il consumo (con sodalizi che offrivano ai soci generi alimentari e di consumo a prezzi bassi), ma anche verso la produzione ed il lavoro. E sarebbe stata quest’ultima forma a suscitare maggiori adesioni da parte della classi lavoratrici. Altri sodalizi cooperativi furono quelli bancari, cui il liberale Luigi Luzzatti dedicò molta attenzione, favorendo la creazione di numerose banche popolari cooperative. Uno degli apostoli del movimento cooperativo, Ugo Rabbeno, così tracciava i caratteri della cooperazione italiana all’ottobre 1886, in occasione del I congresso nazionale in Milano della Federazione nazionale delle cooperative:

La cooperazione è una forma economica nella quale possono trovarsi intesi e perfettamente d’accordo conservatori, radicali, socialisti, uomini di idee politiche, sociali, religiose le più disparate, poiché essa non rappresenta un fine ultimo, ma un semplice mezzo col quale poi si può tendere a fini i più diversi […] Entro la sala del congresso si era tutti cooperatori e null’altro […] libero ciascuno di ritornare, uscito di là, ad essere socialista, liberale o conservatore […] [Rabbeno 1886].

Al 1902 una statistica ufficiale censiva le società cooperative in numero di circa 2200, con maggiore presenza nelle aree centro-settentrionali. La distinzione in funzioni poneva al primo posto i sodalizi di consumo, seguiti da quelli di lavoro e pubblici servizi. Quindi le Banche cooperative e le Casse rurali. Ma s’erano anche diffuse cooperative di produzione, anche agricola, forni e latterie cooperative, cantine sociali, cooperative per abitazioni economiche, cooperative d’assicurazioni, scolastiche.

Con il primo congresso nazionale, nasceva anche l’organo a stampa della Federazione, che prese il nome de «La Cooperazione italiana». L’anno prima era nato il periodico «La cooperazione rurale», fondato da Leone Wollenborg.

Numerosi furono gli interventi legislativi a favore della cooperazione, in particolare in età giolittiana. Soprattutto quelli riguardanti l’accesso alle gare d’appalto degli Enti pubblici da parte delle cooperative di produzione e lavoro. In questa promozione legislativa si sarebbero distinti i socialisti e in particolare Nullo Baldini, vero apostolo della cooperazione fra braccianti.

L’intento di fondo assegnato dai socialisti alla cooperazione, cioè quello di risolvere l’antagonismo fra capitale e lavoro, e realizzare un nuovo modo di produrre, suscitò diffidenze e perplessità. Ma l’inserimento dei sodalizi cooperativi all’interno del mercato capitalistico fu infine ben accolto dagli economisti di formazione liberale. Così che la soluzione cooperativa si dimostrava un modo di affrontare la questione sociale, restando tuttavia all’interno delle dinamiche del mercato capitalistico [Magliulo 2009].

La riflessione di Einaudi in merito alla cooperazione trovò sintesi nell’intervento parlamentare del 1947, in occasione dell’approvazione del testo dell’articolo 45 della Carta riguardante la funzione sociale della cooperazione. Sono evidenti le perplessità dell’economista, di certo derivanti dall’osservazione della lunga esperienza del movimento cooperativo e dai successi, uniti alle distorsioni di tipo monopolistico, che aveva presentato:

Ho votato l’emendamento dell’onorevole Canevari perché vi era aggiunto quest’altro concetto che afferma il principio del controllo sulla natura delle cooperative e perché mi auguravo e mi auguro che il concetto sia interpretato nel senso che il controllo sia compiuto dai medesimi cooperatori (Commenti) al fine di poter accertare se nella cooperazione esiste sul serio la vera e sola caratteristica che la costituisce. La caratteristica speciale della cooperazione è il senso di apostolato e di eroismo dei cooperatori. (Approvazioni). Tutti noi ricordiamo, ripensando all’epoca passata, il nome di Nullo Baldini, il quale apparteneva alle schiere socialiste. Non so a quali schiere appartenesse Il Bizzozzero, il fondatore delle cooperative agrarie del parmense, del quale un altro cooperatore, il Guerci, narrò l’opera in un volume memorando; non so a quali schiere appartenesse il Buffoni, fondatore ed animatore dell’Unione cooperativa di Milano. So che, finché questi uomini sono vissuti, la cooperazione si è ingrandita ed ha adempiuto ai suoi uffici, perché questi erano uomini probi, perché erano uomini che non badavano al lucro, erano uomini che tutti gli imprenditori sarebbero stati felici di assumere ai loro stipendi, pagandoli molto più di quello che essi lucravano adempiendo ad un ufficio di apostolato. Io mi auguro che coloro che dovranno esercitare questo controllo lo eserciteranno nel senso di escludere dal novero delle cooperative quelle nelle quali non esista il senso di sacrificio e di apostolato, la sola caratteristica non misurabile e non calcolabile della cooperazione (Applausi).

Bibliografia

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Brano tratto dal "Dizionario del liberalismo italiano", edito da Rubbettino Editore. Clicca qui per acquistarlo con il 15% di sconto