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Mezzogiorno (questione del)

 di Aurelio Musi

 La questione del Mezzogiorno o meridionale emerse con piena evidenza nel decennio successivo all’Unità d’Italia e avviò una riflessione nella cultura italiana sul forte dislivello di sviluppo esistente tra le due parti del paese: fu questo l’atto di nascita del meridionalismo.

 L’unificazione della nostra penisola fu una scelta inevitabile e positiva per il Mezzogiorno d’Italia: inevitabile perché rappresentò la realizzazione di un obiettivo perseguito con determinazione e passione dalle più avanzate élites intellettuali che vedevano, già dal primo Ottocento, nell’unificazione del paese l’unica via per costruire la patria sul fondamento della libertà; positiva perché, attraverso l’integrazione nazionale, il Mezzogiorno partecipò a pieno titolo al lungo e complesso processo di sviluppo dell’Europa. Più integrazione nazionale volle cioè dire per l’Italia, dopo il 1860, più integrazione europea: ed è un nesso a cui non si presta oggi la dovuta attenzione.

L’unificazione della nostra penisola, inevitabile e positiva, fu anche dolorosa e problematica per il Mezzogiorno. L’inserimento nel mercato nazionale e internazionale implicò costi elevati per il Sud. Una formazione economico-sociale fragile, non autosostenuta, a basso livello tecnologico e largamente dipendente dal capitale straniero, fu integrata in una più ampia, ma vide restringersi la sua base produttiva. Il contributo decisivo in uomini e risorse finanziarie, offerto dal Mezzogiorno al processo di accumulazione originaria del capitale, svoltosi nei decenni postunitari, fu accompagnato da politiche prima liberoscambiste, poi protezioniste, promosse dalle classi dirigenti postunitarie, che si rivelarono entrambe dannose per gli interessi meridionali. Il Sud d’Italia conobbe più lo Stato come macchina accentratrice e repressiva che come complesso di istituzioni e funzioni tese a modernizzare la vita economica, sociale e civile.

 Il 1861 fu dunque anche il principio sia di una questione meridionale nei termini classici elaborati da un’illustre tradizione liberale e democratica, sia di una questione napoletana, che si presentò con motivi di continuità e di novità nel passaggio di Napoli da grande capitale di uno Stato preunitario a grande metropoli meridionale dopo l’Unità.

 Più organicamente i termini della riflessione sul Mezzogiorno furono proposti da Pasquale Villari nelle Lettere meridionali (1875), Leopoldo Franchetti nel saggio Condizioni economiche e amministrative delle province meridionali (1875) e in La Sicilia nel 1876. Condizioni politico-amministrative (1877), e soprattutto da Giustino Fortunato. Dei tre intellettuali di formazione liberale, fu soprattutto Fortunato a insistere su un duplice motivo: l’inferiorità del Mezzogiorno rispetto alla parte settentrionale dell’Italia per caratteri fisici, geografici e climatici; la necessità del vincolo unitario. «Egli indicava perciò tutta una serie di misure ispirate al riconoscimento pieno della povertà naturale del Mezzogiorno e all’urgenza di alcuni dei maggiori flagelli tradizionali. Quindi, innanzitutto, diminuzione della pressione tributaria, tenuta troppo alta per il pregiudizio infondato di un Mezzogiorno ricco e favorito dalla natura. In tal modo si sarebbe favorita la formazione dei capitali e di una borghesia agraria che li potesse impiegare nella terra con criteri più moderni e fecondi di quelli tradizionali. E poi bonifiche, acquedotti, lotta alla malaria (sostenendo, col monopolio statale, un prezzo politico assai basso del chinino), rimboschimenti, sistemazione di bacini fluviali, ferrovie, scioglimento dell’intricato nodo costituito dal problema demaniale, e così via» [Galasso 1978].

 Tre furono le componenti essenziali del meridionalismo classico: la tensione etico-politica che nasceva dalla percezione delle insufficienze e della problematicità dell’Unità nazionale; la sua inevitabilità e necessità per poter consentire all’intero paese di diventare in pochi decenni una potenza di medio rango nel concerto mondiale, di compiere il processo di accumulazione originaria del capitale, di raggiungere, in poche parole, standard di maggiore civiltà, capaci di inserire l’Italia nell’Europa; il mito del buon governo, l’idea cioè che fosse possibile risolvere il gap esistente tra Nord e Sud attraverso pratiche di buona amministrazione e di più incisivo sviluppo delle funzioni dello Stato moderno nel Mezzogiorno.

 Negli ultimi due decenni del XIX secolo, ancora lungo questa linea, le difficoltà nella realizzazione del processo di unificazione nazionale furono poste in relazione al divario Nord-Sud. E la lettura della questione meridionale fu svolta dal meridionalismo democratico precisamente come questione dello Stato e della Nazione. Scriveva Ettore Ciccotti nel 1898: «Il Mezzogiorno, più che tutto il resto d’Italia, soffre a un tempo dello sviluppo dell’economia capitalistica e dell’insufficienza di questo sviluppo. Da ciò hanno origine il suo malessere economico e i conseguenti fenomeni morali e politici anormali».

 Al Mezzogiorno come luogo della sviluppo e della sua insufficienza corrispondeva il Mezzogiorno come luogo del «troppo Stato» e del «non ancora Stato». Troppo Stato significava unità centralizzata, apparato amministrativo, macchina repressiva. Poco o non ancora Stato significava scarso sviluppo o assenza delle funzioni-modello che connotano la modernità del politico: quelle funzioni che si attribuiscono agli Stati-nazione meglio riusciti, per così dire. Così Napoleone Colajanni nel 1899: lo Stato è il «grande assenteista del Mezzogiorno e delle isole. Vi prende sotto forma di imposta, e vi restituisce poco sotto forma di spesa».

 A cavallo tra Otto e Novecento, dall’inchiesta Saredo sull’amministrazione comunale di Napoli a Francesco Saverio Nitti, una voce si levò all’unisono e costituì l’obiettivo principale del meridionalismo: l’espansione delle funzioni dello Stato moderno nel Mezzogiorno come vantaggio generale per l’intera nazione. Era ormai chiaro che i dislivelli di statualità erano in relazione biunivoca con i dislivelli di nazione in un nesso di reciprocità.

 Un passaggio importante sia nella visione della questione meridionale sia nelle politiche pubbliche fu il contributo di Francesco Saverio Nitti, al principio del Novecento, per la creazione di una legislazione speciale per il Mezzogiorno. All’inizio del XX secolo l’industria napoletana era ancora, grosso modo, quella di quarant’anni prima. La creazione dell’Ilva, l’industria siderurgica di Bagnoli, non fu di primaria importanza solo dal punto di vista quantitativo. Essa si inseriva nel quadro di un progetto di più ampia modernizzazione che appariva egregiamente espresso nella filosofia della «legge speciale» del 1904, fortemente voluta da Francesco Saverio Nitti e da lui ispirata. Egli fissava tre punti. Il primo: la promozione economica e sociale di Napoli richiedeva una sua profonda trasformazione in senso industriale. Il secondo: il problema di Napoli non poteva essere considerato in termini strettamente cittadini, ma, come diremmo oggi, in termini di area metropolitana. Il terzo: i primi due punti andavano accompagnati con una serie di indirizzi di politica sociale adeguati e sufficienti. La legge riprese soprattutto il primo e il terzo di questi punti. Nel progetto di modernizzazione alla grande industria veniva assegnato un ruolo assai ampio: volano di sviluppo economico e civile della città; fattore creativo di nuovi ceti e gruppi sociali, tra cui principalmente il proletariato di fabbrica, interlocutore privilegiato del riformismo giolittiano e protagonista del suo modello di sviluppo fondato sulla politica di alti salari per l’espansione della domanda, la legislazione sociale e la politica di opere pubbliche, l’invito alla collaborazione col governo lanciato anche verso i partiti di opposizione.

 I limiti della «legge speciale» sono stati individuati in quello che è stato chiamato il «presupposto illuministico» della sua ideologia. Proprio dal 1904 cominciava, infatti, la lunga storia di una malriposta fiducia negli effetti indotti dalla creazione di strutture industriali, di impianti, di infrastrutture non solo a Napoli ma nell’intero Mezzogiorno. Quasi tutti i più importanti interventi di politica economica per il Sud fino ad anni recentissimi sono stati infatti viziati dal «presupposto illuministico», come si vedrà successivamente: le iniziative della Cassa per il Mezzogiorno, concepite come interventi di trasformazione economica profonda, ma ridotti nei fatti, tutt’al più, a parziale sostegno di una gracilissima struttura industriale; la politica dei «poli di sviluppo» degli anni Sessanta del Novecento, che ha lasciato tante «cattedrali nel deserto», ecc. La storia di Napoli e del Mezzogiorno, a partire dalla creazione dell’ILVA di Bagnoli, dimostra che non può esistere automatismo tra un insediamento industriale, sia pure di grandi proporzioni, tra incentivi fiscali alle imprese, tra il sostegno dello Stato sia sul versante della produzione sia sul versante dei consumi e il soddisfacente sviluppo economico dell’area di insediamento, fondato sui cosiddetti effetti indotti. La storia della prima e della seconda rivoluzione industriale dimostra che occorrono ben altri prerequisiti e un elevato livello di integrazione fra di loro per il decollo dello sviluppo economico.

 L’insoddisfazione della linea del meridionalismo classico, che giunge, pur con profonde novità, fino a Nitti, e che può essere sintetizzata nel mito del buon governo e dell’industrializzazione promossa dall’intervento statale, fu fortemente messa in discussione dai partigiani della «rivoluzione meridionale»: Gaetano Salvemini, Guido Dorso, Antonio Gramsci. Pur da posizioni di partenza diverse, – il primo socialista «sui generis», il secondo erede e originale interprete del pensiero democratico, il terzo cofondatore del Partito Comunista Italiano nel 1921 e maggiore esponente del marxismo teorico italiano – essi rivendicarono l’esigenza di una più attiva partecipazione delle élites e delle masse per portare a soluzione la questione meridionale.

 Per Salvemini solo con una politicizzazione generale delle masse, e cioè dei contadini meridionali, e con l’identificazione di una strategia di alleanza di classe nel resto del paese si poteva aggredire la questione meridionale considerata soprattutto una questione di potere. L’analisi più originale riguardava proprio quest’ultimo punto. «Una grande proprietà latifondistica, generalmente in mano alla vecchia aristocrazia feudale e alla grande borghesia agraria fusasi con essa, deteneva tanto la maggiore ricchezza quanto l’effettivo potere. Questa classe si era strettamente alleata con il capitalismo settentrionale, garantendo ad esso l’appoggio incondizionato della rappresentanza parlamentare meridionale alla sua politica, soprattutto in materia finanziaria e doganale, a cui l’industria settentrionale era legata da un interesse vitale. In cambio i latifondisti meridionali ricevevano carta bianca per la loro azione oppressiva nel Mezzogiorno e pieno sostegno per i loro interessi, sia che si trattasse di contratti agrari che di dazio sul grano» [Galasso 1978]. Dunque il proletariato rurale meridionale, alleato col proletariato industriale del Nord, doveva essere il protagonista della sua emancipazione.

 Guido Dorso affidava invece alla «borghesia umanistica», al ceto intellettuale, al decentramento e al self government il compito di disfare il blocco agrario meridionale e liberare le masse contadine dal suo potere.

 Antonio Gramsci, dopo aver criticato il Risorgimento e le modalità di realizzazione dell’Unità italiana, identificando entrambi con una «rivoluzione agraria mancata», riprendeva l’indicazione di Salvemini, relativa all’alleanza tra contadini del Sud e operai del Nord, ma con finalità strategiche completamente diverse. Per Salvemini quell’alleanza doveva servire a fondare una democrazia rurale di piccoli proprietari nel Sud e a liberare la classe operaia settentrionale da una struttura industriale fondata sui monopoli e sul protezionismo: dunque democrazia rurale e spazio alla libera concorrenza interna e internazionale. Per Gramsci quell’alleanza doveva invece servire a distruggere l’intero sistema per costruire il socialismo. Per Gramsci il proletariato avrebbe distrutto il blocco agrario meridionale nella misura in cui fosse riuscito, attraverso il suo partito, a organizzare in formazioni autonome e indipendenti masse di contadini poveri. E sarebbe riuscito in tale compito anche in relazione alla sua capacità di disgregare il blocco intellettuale, armatura flessibile ma resistentissima del blocco agrario.

 Tra continuità e novità significative, analogie e differenze profondissime tra i suoi interpreti, il pensiero meridionalista dall’Unità alla prima guerra mondiale rivelava comunque un tratto comune: solo ponendo il Mezzogiorno e la questione meridionale al centro degli interessi nazionali, se ne potevano correttamente affrontare i termini.

 Il fascismo significò un notevole passo indietro sia in termini di politiche pubbliche per il Mezzogiorno sia in termini di elaborazione meridionalista. In sostanza la questione Napoli venne affrontata attraverso gli incentivi a una sconsiderata espansione edilizia e ad un industrialismo che, pur lasciando impregiudicata la sostanziale e strutturale fragilità del settore secondario dell’economia napoletana, significò soprattutto la penetrazione nel Mezzogiorno dei grandi gruppi capitalistici nazionali. La proiezione mediterranea e africana doveva poi servire più a risolvere questioni di consenso al fascismo che a prospettare un’adeguata soluzione della questione meridionale.

 Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale e alla ricostruzione del paese, la classe politica italiana impostò una vasta azione legislativa a favore del Mezzogiorno. La novità radicale fu costituita dalla creazione di istituti specifici per promuovere e amministrare l’intervento pubblico nell’Italia del Sud. Nel 1947 furono fondati l’Ente per l’irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia e Lucania e l’Opera per la valorizzazione della Sila. Il 1950 fu la volta delle leggi per la colonizzazione della Sila e per uno «stralcio» della riforma agraria generale. Fu istituita la Cassa per il Mezzogiorno: le sue competenze furono specificate e allargate con provvedimenti legislativi nel 1952 e negli anni seguenti, la sua durata, inizialmente stabilita in dieci anni, fu prorogata. Nel 1953, per promuovere l’attività creditizia nel Mezzogiorno fu trasformato l’Isveimer (Istituto per lo sviluppo economico dell’Italia meridionale), fondato nel 1938. Altri provvedimenti riguardarono la Sicilia e la Sardegna, trasformate rispettivamente nel 1946 e nel 1948 in regioni autonome a statuto speciale.

 La filosofia alla base dell’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno e di tutto l’intervento straordinario nel Sud fu espressa organicamente da uno dei suoi massimi ispiratori, Pasquale Saraceno, e seguita sia dalla classi dirigenti di orientamento cattolico sia da quelle di orientamento liberaldemocratico. Fu Saraceno nel 1955 a scrivere un saggio dal titolo significativo Premesse culturali ad una politica di sviluppo economico del Mezzogiorno. Quelle premesse possono essere schematizzate come segue: lo sviluppo dell’industrializzazione del Mezzogiorno è obiettivo primario da perseguire; dopo l’Unità d’Italia lo sviluppo del Mezzogiorno è stato concepito solo come sviluppo agricolo; non è stata seguita né la via della salvaguardia dell’area più debole del paese, né la via della sua armonizzazione economica; diventa allora decisivo il ruolo dello Stato nel Sud d’Italia sia per modificare le tendenze del mercato in vista della creazione di convenienze, sia per predisporre misure atte a conseguire il maggior grado di industrializzazione e soddisfare la presumibile offerta di lavoro, sia per integrare industria pubblica e industria privata; bisogna tuttavia «evitare l’immissione nel sistema economico italiano di un nuovo elemento di squilibrio quale sarebbe un’industria meridionale prevalentemente di Stato in concorrenza con un’industria settentrionale prevalentemente privata».

 Nel 1954 anche il dibattito meridionalistico riacquistò un nuovo vigore grazie soprattutto alla fondazione di due riviste: «Cronache meridionali» di area marxista e «Nord e Sud», fondata da Francesco Compagna e Vittorio de Caprariis, di ispirazione liberaldemocratica. Mentre la prima rivista criticò duramente la politica di intervento straordinario, la seconda si adoperò a sostenerla con l’obiettivo della modernizzazione economica, sociale e civile del Mezzogiorno.

 Nel passaggio dal centrismo al centro-sinistra nel 1963, soprattutto da parte di settori liberaldemocratici, in particolare il segretario del Partito Repubblicano Italiano, Ugo La Malfa, l’intervento straordinario per il Mezzogiorno fu visto in stretta relazione con la logica della programmazione e la politica dei redditi. Nella traduzione dal piano progettuale alla prassi, tuttavia, l’intervento straordinario fra anni Sessanta e anni Settanta, identificabile nella politica dei «poli di sviluppo» e della concentrazione delle grandi realtà industriali statali o parastatali in alcune città del Mezzogiorno (ancora Napoli, Taranto, Gioia Tauro, Brindisi, ecc.), si rivelò deficitario: e in breve tempo si passò da una fase di apparente intensa industrializzazione a una fase di drammatica deindustrializzazione.

 Fin dalla fine degli anni Settanta furono riconosciuti limiti e contraddizioni della politica meridionalistica. Giuseppe Galasso invitò le classi dirigenti del tempo a indossare il «saio dell’umiltà»: una sorta di autocoscienza critica da parte di chi aveva condiviso fin in fondo la politica dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, identificandone sia il valore negli anni Cinquanta e Sessanta – la crescita sociale, mentale e negli stili di vita nel Mezzogiorno – sia i limiti e gli insuccessi della «politica speciale» nei decenni successivi, sintetizzabili nel fatto che la politica per il Mezzogiorno fu ridotta a un settore dell’azione generale di governo. Ma negli anni Novanta «ben poco per non dire nulla si è inventato dopo la soppressione della Cassa in materia di tipologia dell’intervento pubblico nel Mezzogiorno» [Galasso 2005]. Sono stati battezzati con parole nuove strumenti e istituti già noti e sperimentati. Gli incentivi fiscali sono diventati «fiscalità di vantaggio». Un’agenzia per l’intervento nel Mezzogiorno è diventata «Sviluppo Italia». Un controllo centrale di tale intervento si chiama «cabina di regia». Il fatto è stato ancor più grave se si considera che il prodotto interno lordo per abitante è sceso dal 58,6 per cento di quello del Centro-Nord nel 1991 al 54,9 per cento nel 1999: «il che significa – scrive ancora Galasso – un ritorno ad un dislivello Nord-Sud grosso modo simile a quello dei primi anni Cinquanta».

 Solo pochi anni fa qualcuno aveva stilato il certificato di morte del meridionalismo. Sembrava un dato acquisito nel senso comune culturale la cosiddetta «obsolescenza della questione meridionale», che, peraltro, si diceva fosse stata un’invenzione dei meridionalisti. Con il dualismo veniva negata la stessa «categoria Mezzogiorno». In nome del dinamismo e delle trasformazioni del Sud erano diventate di moda espressioni come «Mezzogiorno senza meridionalismo», «pensiero meridiano», ecc.

 Oggi il vento spira diversamente. Dopo anni di «pensiero debole», il Mezzogiorno reclama ora più robuste categorie di analisi e una ripresa, sia pure criticamente orientata, della straordinaria tradizione del meridionalismo classico.

 La documentazione a supporto di questa esigenza è, da tale punto di vista, di un’impressionante evidenza. Basta prendere ad esempio i dati di fonte Eurispes su redditi e disoccupazione al 2005. Al Nord il reddito netto medio delle famiglie è di 30.678 euro, al centro di 26.650, al Sud di 19.380. Le famiglie con reddito superiore a 40.000 euro sono il 20 per cento al Nord, il 13, 3 al Centro, il 7,1 al Sud. Le famiglie con reddito inferiore a 5.000 euro sono l’1,2 per cento al Nord, stessa percentuale al centro, al Sud passano al 6,7. Il tasso di disoccupazione è al 3,8 per cento al Nord, al 6,1 al Centro, al 17,9 al Sud. Infine le famiglie sotto la soglia convenuta di povertà sono il 2,4 per cento al Nord, il 3,8 al Centro, il 6,1 al Sud. Dunque anche nell’Italia tripartita domina il dualismo.

 Le punte di eccellenza dell’economia meridionale – scrive Galasso – non fanno sistema: rimangono singoli iceberg nuotanti sparsamente nel mare circostante delle condizioni del Mezzogiorno, delle quali accentuano, anzi, con la loro stessa incidenza statistica, il livello comparativamente non felice rispetto al resto del paese [Galasso 2005].

 Un’altra argomentazione messa radicalmente in discussione è quella in base a cui il Mezzogiorno deve essere valutato rispetto a se stesso e non sulla base di parametri esterni a esso: «affermando cioè un criterio autoreferenziale del discorso storico e politico del tutto irricevibile su qualsiasi piano metodologico ci si voglia collocare» [Galasso 2005].

 La cultura meridionalistica deve riprendere oggi il suo ruolo militante, assumere maggiore visibilità, ripensare certo i suoi strumenti concettuali, ma ponendo mente al fatto che il problema Mezzogiorno esiste ed è diventato ancor più acuto oggi. «Si butti pure via tutta l’acqua sporca o imputridita del vecchio bagno meridionalistico. Ma il bambino non può essere buttato via con l’acqua sporca del bagno. Tanto più poi se quel bambino è un indocile e grande problema, e si chiama Mezzogiorno d’Italia» [Galasso 2005].

Bibliografia

Barucci P., Il Mezzogiorno alla Costituente,in «SVIMEZ» La questione meridionale dal dopoguerra ad oggi,Giuffrè, Milano 1975; Galasso G., Passato e presente del meridionalismo,voll. 2, Guida, Napoli 1978; Id., Il Mezzogiorno da questione a problema aperto,Lacaita, Manduria-Bari-Roma 2005;Ivone D., (a cura di), Cultura, Stato e Mezzogiorno nel pensiero di Pasquale Saraceno, Editoriale Scientifica, Napoli 2004;Musi A., Bandiere di carta. Intellettuali e partiti in tre riviste del dopoguerra, Avagliano, Cava dè Tirreni 1996; Id., Il Sud nello Stato unitario,in La chioma della vittoria. Scritti sull’identità degli italiani dall’Unità alla Seconda Repubblica, a cura di S.Bertelli, Ponte alle Grazie, Firenze 1997; Id., Nazioni prima della nazione, in «Scienza e Politica», 20, 1999;Id., Questione meridionale e identità nazionale,in «Nuova Secondaria», 8, XXV, 2008; Villari R., Il Sud nella storia d’Italia. Antologia della questione meridionale,voll. 2, Laterza, Bari 1966.

 

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