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Ebrei

di Ester Capuzzo

Se la storiografia ebraica degli ultimi decenni non si è mostrata molto favorevole nei confronti dell’ottocentesco processo emancipatorio, sia rispetto a chi l’aveva favorito, sia rispetto a chi aveva lavorato per realizzarlo, è pur vero, però, che con l’avvento dello Stato liberale e l’estensione dell’emancipazione subalpina gli ebrei delle diverse comunità disseminate nel paese si avviarono all’integrazione nazionale, ancorché in un paradigma omologante, affiancandosi alla parte politicamente più matura della popolazione e concorrendo alla costruzione dell’Italia unita secondo un trend sviluppatosi sin dagli albori del Risorgimento.

La partecipazione ebraica a fatti ed eventi dell’età Risorgimento è, infatti, pienamente attestata durante la Restaurazione: nella clandestinità all’interno di società segrete, durante i moti rivoluzionari e le brevi esperienze costituzionali del periodo, nelle vie dell’esilio attraverso quello che potremmo definire un patriottismo di frontiera, dato il caso ebraico di identità composita che avrebbe riversato nell’Italia, patria adottiva, il tradizionale attaccamento nutrito per la patria avita, Sion.

Certamente, però, fu il 1848 a segnare il momento culminante della partecipazione ebraica alla lotta risorgimentale con alcune centinaia di volontari impegnati nelle campagne militari del 1848-1849, mentre in Piemonte veniva sancita la completa parificazione di tutti i cittadini indipendentemente dal culto professato e gli israeliti subalpini potevano vestire l’uniforme dell’esercito regio. Anche negli altri Stati preunitari numerosi furono gli ebrei inseriti nella Guardia Civica, alcuni dei quali posti al suo comando e molti, percentualmente, furono quelli che accorsero alla difesa dei due baluardi della libertà del 1848-1849, Venezia, retta da un patriota di ascendenze ebraiche, Daniele Manin, e Roma per la cui difesa moriva, tra gli altri, un altro patriota ebreo, Giacomo Venezian. Alcuni ebrei ebbero incarichi istituzionali nel governo della Repubblica veneta come Isacco Pesaro Maurogonato e Leone Pincherle o furono eletti nell’assemblea della Repubblica romana come Leone Carpi e Salvatore Anau. Nelle ultime vicende risorgimentali il numero dei volontari era destinato a crescere nelle campagne militari del 1859-1860 e un piccolo manipolo di essi prese parte all’epopea garibaldina, sbarcando con i Mille a Marsala.

Con la proclamazione del Regno d’Italia si apriva una nuova fase dei rapporti tra ebrei e Stato nazionale, tra ebrei e società italiana, tra ebrei e liberalismo. La lunga ed intensa partecipazione risorgimentale aveva, infatti, contribuito a diffondere tra gli ebrei italiani la sensazione di essere tra i co-fondatori insieme con gli altri patrioti di un qualcosa di completamente nuovo, di essere i co-protagonisti della fondazione dell’unità del paese. A lungo tra essi, in particolar modo nei ceti medio-alti, si verificò una completa identità di interessi e di idee, anche quando gli ebrei si rendevano conto che il Risorgimento, movimento laico, emancipatore e per certi versi assimilazionista aveva portato a ridimensionare il loro particolarismo e, quindi, la loro identità di gruppo. Se il Risorgimento, infatti, aveva operato per la conquista dei diritti civili e politici a prescindere dalla religione, segnando il punto di arrivo della secolare aspirazione alla libertà, all’affrancamento dall’oppressione al tempo stesso l’abbattimento delle mura dei ghetti e il superamento delle forme di isolamento e di separazione dalla società esterna facevano intravedere il rischio di perdere la propria identità culturale e religiosa. La potenziale ed intrinseca contraddizione tra l’integrazione nello Stato nazionale e nella società civile e la conservazione delle proprie radici, molti decenni dopo espressa dalla formula del diritto alla diversità, era destinata a caratterizzare la storia degli ebrei italiani dalla seconda metà dell’Ottocento ai giorni nostri.

Costanti furono le preoccupazioni di chi temeva che la specificità della coscienza e delle tradizioni ebraiche potesse andare dispersa o affievolirsi nell’interscambio con la cultura, i costumi, il modo di vivere della maggioranza della popolazione o addirittura l’aprirsi di un irreversibile processo di assimilazione. Una contraddizione probabilmente irrisolvibile perché insita nella natura stessa del popolo ebraico e della sua diaspora, nel duplice livello del diritto all’uguaglianza e alla diversità.

L’“atomizzazione” dell’ebraismo italiano a seguito dell’emancipazione, rifluito nella costruzione dello Stato nazionale, dava vita all’ebreo moderno, aperto all’integrazione con la società circostante, mediante anche la rottura dell’endogamia tradizionale e l’adesione all’etica borghese e liberale, e non infrequentemente teso all’assimilazione, solo scarsamente vissuta nel secondo Ottocento attraverso la conversione al cattolicesimo, spesso dovuta alla pratica dei matrimoni misti. Coglieva pienamente questo passaggio all’atto dell’unificazione nazionale Isacco Artom, il celebre segretario di Cavour di chiara fede liberale, che in una corrispondenza con Alessandro D’Ancona, cresciuto anch’egli in un ambiente liberale, riteneva che nella nuova progettualità politica che il nascente Stato italiano stava elaborando gli ebrei dovessero porre le loro competenze e capacità «a disposizione di tutti», aderendo a quell’ideale di comune cittadinanza politica che non si limitava soltanto a coloro che vi appartenevano iure sanguinis, ma era aperto a quanti ne condividevano finalità politiche e morali.

Lo Stato liberale, infatti, fondato su una visione laica e sull’esaltazione fideistica nel progresso riconosceva a tutti i suoi appartenenti un’eguaglianza senza diversità che si riassorbiva nell’uniformità dei diritti e dei doveri dei singoli senza alcuna considerazione per la specificità dei gruppi minoritari, tra cui gli ebrei, considerazione che si sarebbe avuta molto più tardi con l’affermarsi del principio dell’eguaglianza nelle differenze soltanto nell’Italia repubblicana. Nel mondo liberale dell’Ottocento, teso all’omologazione delle diversità, non era possibile che si realizzasse una società di “eguali e diversi”, di qui la complessità della condizione ebraica negli ultimi decenni dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, mirante a conciliare due diritti in contrasto tra loro. Ciò veniva molto spesso risolto attraverso un “equo compromesso”, fondato su atteggiamenti e comportamenti che nel processo di integrazione si intersecavano, più in generale, con la fragilità della coscienza identitaria italiana.

Non minimale, peraltro, appariva la militanza politica degli ebrei italiani nella fase postemancipatoria nelle fila del liberalismo. Questa si motivava con elementi diversi derivanti oltreché dalla sensibilità sociale, dalle influenze culturali, dalla partecipazione al processo risorgimentale, dalla connessione stringente tra i principi religiosi-filosofici dell’ebraismo e quelli ideologici del liberalismo. I primi si fondavano su ideali e valori espressi dalla Torah, costituenti quei criteri di giustizia, umanitarismo, uguaglianza, libertà a cui nel tempo gli ebrei hanno sempre cercato di riferire e riportare la propria dimensione esistenziale, i secondi miranti, al di là di ogni impostazione trascendente, a inverare quegli stessi criteri su un piano etico-politico, esplicitando comportamenti ispirati al rigore e alla responsabilità. Costanti etiche dell’ebraismo e idealità etico-politiche del liberalismo che sempre più nell’Italia che stava per farsi nazione costituivano un humus a cui attingere soprattutto dal momento in cui la maggioranza degli ebrei della penisola politicamente aveva superato la pregiudiziale repubblicana, aderendo dopo il 1859 alla soluzione moderata della Società Nazionale, come Giuseppe Finzi e Alessandro D’Ancona, e che avrebbero spinto qualche decennio più tardi un altro liberale di ascendenza ebraica, Luigi Luzzatti, a sostenere la compatibilità tra appartenenza politica e fede religiosa e l’influenza dei principi morali della religione sull’azione politica.

Nell’evoluzione liberale di ambienti lombardi e toscani Giuseppe Finzi e Tullio Massarani si collocavano come protagonisti della transizione alla soluzione monarchica del Risorgimento, alla quale avevano già aderito in toto gli ebrei subalpini, i primi a vivere un’emancipazione senza ritorni, soluzione che sebbene contrapposta alla visione democratica, appariva comunque rivoluzionaria nell’unire la penisola, nel ridurre il peso delle istituzione ecclesiastiche e nel superare l’assetto dell’antico regime. Alessandro D’Ancona a sua volta si poneva come figura di raccordo tra il liberalismo toscano e quello piemontese, divenendo direttore del fiorentino «La Nazione», organo del liberalismo moderato toscano e professore alla Normale di Pisa. Nonostante l’evoluzione liberale vissuta da molti, l’orientamento politico degli ebrei non rimase del tutto uniforme e Mazzini continuò ad avere ammiratori non soltanto sul piano ideale ma anche seguaci sul piano dell’azione e il richiamo d’obbligo è naturalmente a Nathan Rosselli e alla sua famiglia.

Con la fine dell’emarginazione e l’uscita dei ghetti prendeva corpo per gli ebrei italiani il loro impegno politico nel segno della libertà e delle libertà nonostante la persistenza di preclusioni di carattere teologico che anche nei primi decenni dopo l’unificazione colpiva alcuni di essi militanti negli schieramenti liberali. I noti casi di Sansone D’Ancona, di Isacco Pesaro Maurogonato, di Edoardo Arbib e più tardi di Marco Cassin, protagonisti degli episodi più eclatanti di antisemitismo politico, testimoniavano la persistente diffidenza anche da parte della cultura liberale che aveva vagheggiato l’emancipazione uti singuli e la laicità della fede in una visione progressista, volta secondo gli schemi ottocenteschi ad elaborare un concetto di uguaglianza senza diversità, destinato a lungo ad essere un’utopia imperfetta. Forme di antisemitismo, talora ideologicamente consapevole talora strumentalmente occasionale, che non si coagularono in una corrente politica di rilevante peso e non riuscirono ad impedire comunque la presenza di uomini politici di ascendenza ebraica, ampiamente votati nel paese. Così come non mancarono da parte di esponenti del mondo liberale, come Ruggero Bonghi, posizioni a difesa degli ebrei che si accompagnavano al vivace dibattito intrapreso dalla cultura democratica negli anni Novanta e che nel 1897 avrebbe visto l’attacco lanciato dalla «Civiltà cattolica» contro il Torniamo allo Statuto di Sidney Sonnino, in cui la polemica contro il liberalismo e il laicismo da lui professati toccano le sue ascendenze ebraiche che si fondevano con il rigorismo protestante della famiglia materna.

La distribuzione degli ebrei tra le forze politiche si sviluppò nei decenni successivi all’unificazione nazionale sia a livello di partecipazione attiva sia di adesione ideale. Una concentrazione di un certo rilievo dell’élite ebraica italiana si rilevava nella destra storica e nel liberalismo conservatore che ne rappresentò la prosecuzione. Di questo schieramento il primo senatore ebreo, nominato nel 1876 fu Isacco Artom, affiancato da deputati ebrei aderenti alle idealità politiche di quella parte, alcuni dei quali, come Samuele Alatri, esponente di spicco della comunità romana, dopo la caduta della destra storica non si rilanciarono politicamente. Motivazioni diverse concorrevano a formare un nucleo ebraico vicino al liberalismo conservatore quali le caratteristiche socio-economiche di borghesia benestante e colta e una vocazione etico-politica di rigore e di responsabilità che ben si attagliava ai principi liberali e che nel processo d’integrazione nella società italiana vedeva gli ebrei inserirsi a livello medio-alto in settori di rilievo come i diversi comparti della pubblica amministrazione, l’università, la magistratura, le forze armate, la diplomazia, l’editoria e il giornalismo, le libere professioni, traducendosi anche in iniziative politiche e in atti munifici di promozione sociale e culturale nel quadro della filantropia dell’epoca. Nel côté liberale si distingueva, tra gli altri, Sidney Sonnino, esponente della destra, ministro e presidente del Consiglio in vari governi, avverso nel dibattito interno al liberalismo alla divisione tra liberali conservatori e progressisti e sostenitore di una funzione di centro del partito liberale. Nella concezione sonniniana il partito doveva avere i suoi fondamenti nella visione complessiva del corpo sociale e nel riconoscimento dei diritti del singolo cittadino, tra i quali lo statista toscano ravvisava il diritto elettorale mediante l’adozione del suffragio universale maschile che sarà realizzato dal riformismo giolittiano e che avrebbe contrastato con una migliore espansione nella società e nel territorio del partito liberale l’avanzata socialista e cattolica.

Luigi Luzzatti, il primo presidente del Consiglio ebreo, fu a sua volta un liberale animato da una forte sensibilità sociale, convinto che per fronteggiare il dilagare del socialismo si dovesse nell’interesse del capitalismo e della proprietà aiutare i ceti umili a sollevarsi dalla miseria. Cooperazione, credito per le classi popolari, legislazione sociale e del lavoro, furono gli obiettivi della sua agenda politica, nei quali agiva un impulso derivante dalla sua ascendenza ebraica, una radicata idea di giustizia, abbinata a una concezione morale dell’economia e della politica. La preminenza data alla questione sociale, come condizione per il mantenimento dell’assetto economico borghese e politico liberale rappresentava, infatti, una caratteristica di fondo del ceto moderato ebraico ispirato da uno stimolo riformistico nella responsabilità verso le classi meno abbienti e nel ridisegnare anche il ruolo della donna nell’ebraismo dell’età postemancipatoria.

Nella Belle Époque massima era la presenza ebraica nella classe politica liberale e nelle responsabilità di governo, spiccando nel 1902 la nomina a ministro della guerra nel governo Zanardelli del generale Giuseppe Ottolenghi. Il suo incarico ebbe larga risonanza all’estero a qualche anno dall’affaire Dreyfus in Francia e diede avvio a una nuova vocazione per gli ebrei italiani nelle carriere militari, interrotta come per altri comparti della società, dalle leggi antiebraiche del 1938.

Nell’età giolittiana il processo di acculturazione degli ebrei italiani alla società maggioritaria e la riduzione dell’ebraicità al mero terreno religioso contribuivano a rendere subalterna l’identità ebraica rispetto a quella nazionale, alla vigilia della prima guerra mondiale questo processo stava entrando in una fase decisiva. La sempre più attiva partecipazione, infatti, degli ebrei alla vita pubblica del paese come gruppo all’interno di una moderna società di massa, fondata su ordinamenti liberali stava per allentare i legami con il residuale tradizionalismo che la limitazione della vita sociale all’ambito familiare e la funzione svolta dalla rete di strutture parentali e comunitarie avevano contribuito a far sopravvivere in talune forme nell’esistenza quotidiana. La tragica irruzione della guerra in questo scenario evidenziava vicende e orientamenti diffusi negli ebrei italiani nel rapporto tra carattere dell’integrazione nazionale e livello della loro assimilazione, mettendo a fuoco le problematiche della crisi religiosa e culturale e portando alle sue ultime conseguenze il loro processo di “nazionalizzazione” in una prospettiva che, pur nella sua retorica, faceva appello in modo significativo alla tradizione risorgimentale. Tradizione fortemente sentita anche tra gli ebrei delle terre irredente come testimoniavano Camillo Ara, Marco Besso, Roberto Brunner e tanti altri.

Gli ebrei italiani rispondevano nella loro maggioranza all’entrata in guerra del paese, attestando così attraverso la partecipazione bellica, il volontarismo della trincea e, nel contesto di genere, l’attività delle donne il loro grado di integrazione nazionale, all’interno del quale i valori della fede e della patria trovavano una più salda dimensione, sebbene proprio la guerra avrebbe fatto emergere la difficoltà maggiore prodotta dall’emancipazione liberale che, trovata una patria italiana, fosse necessario trovare un’identificazione ebraica adeguata, concorrendo a rendere più netti i contorni di una comunità sospesa tra ebraicità e italianità. Nella partecipazione degli ebrei italiani alla prima guerra mondiale si situa, se così può dirsi, l’ultimo tassello del loro rapporto con lo Stato liberale, collocato tra le speranze risorgimentali e la persecuzione fascista.

Negli anni del fascismo gli ebrei italiani sino alle leggi del 1938 vissero da un punto di vista politico, al di là dei percorsi di singoli personaggi, una parabola sostanzialmente simile a quella degli italiani non ebrei. Molti, infatti, si iscrissero al Partito Nazionale Fascista, altri, in misura non esigua nonostante la percentuale non elevata della popolazione ebraica nella penisola, condivisero gli ideali dell’antifascismo. Sete per la libertà, tradizioni risorgimentali, forti radici democratiche spingevano verso l’antifascismo la parte politicamente più matura e consapevole degli ebrei italiani, spesso proveniente da esperienze diverse come i fratelli Rosselli, Vittorio Foa, Emilio e Enzo Sereni, Leone Ginzburg, soltanto per citare alcuni nomi. La scelta antifascista trovava nell’eredità risorgimentale e nel crocianesimo i suoi punti di forza. L’eredità risorgimentale di uomini come David Levi e Tullio Massarani e la “religione della libertà” di Benedetto Croce erano alla base delle radici tout court dell’antifascismo italiano. Del resto, non dobbiamo dimenticarlo, il contro manifesto degli intellettuali antifascisti redatto dal filosofo napoletano e pubblicato sul «Mondo» il 1° maggio 1925 veniva firmato, tra gli altri, da Riccardo Bachi, Guido Castelnuovo, Mario Falco, Tullio Levi-Civita, Gino Luzzatto, Rodolfo Mondolfo.

Forte, infatti, fu il debito morale contratto dagli ebrei antifascisti nei confronti del crocianesimo, come è stato rilevato per Enzo Sereni, divenuto sionista (nel 1927 lasciava l’Italia per la Palestina e fondava il kibbutz di Givat-Brenner) e autore di un’interessante storia del fascismo, per Emanuele Artom, Leone Ginzburg, Eugenio Curiel e Eugenio Colorni, al di là della loro adesione alle diverse formazioni politiche che si venivano creando nella clandestinità. Nella idealità politica di Carlo Rosselli, fondata sul ripudio del socialismo marxista, gli elementi socialisti e quelli liberali si fondevano e si compenetravano insieme, come per Raffaele Cantoni, aderente a Italia Libera, un’associazione di ex combattenti divenuti antifascisti, sciolta nel 1925, che esaltava un socialismo etico e liberale di derivazione mazziniana, un insurrezionalismo risorgimentale e un antifascismo morale ed etico.

La tradizione liberale fondata sui principi di libertà e democrazia, alimentava comunque, gli ideali di quanti confluivano nella resistenza, soprattutto nelle formazioni partigiane azionista e socialista, e operava con il suo sostrato anche sulle fila dell’emigrazione antifascista ebraica, largamente ampliatasi dopo l’emanazione delle leggi razziali, e diffusasi anche oltre oceano, come nel caso di Max Ascoli, ispirato da idealità liberali e presidente a New York della Mazzini Society tra il 1940 e il 1943. Più aderente alla tradizione liberale era Eugenio Artom, allontanatosi dalla politica attiva dopo il 1924 e che nel 1942 riprendeva l’attività politica in stretto contatto con Ivanoe Bonomi, promuovendo dopo l’8 settembre 1943 la ricostituzione a Firenze del Partito liberale e divenendo rappresentante del PL nel Comitato Toscano di Liberazione Nazionale nei mesi della clandestinità e durante la battaglia per Firenze (luglio-agosto 1944). Oltre a organizzare la lotta armata contro l’occupazione antinazista, Eugenio Artom, assumeva la guida della comunità ebraica di Firenze e insieme con Nathan Cassuto e Raffaele Cantoni, sostenuto da sua moglie, Giuliana Treves, organizzava in quei momenti drammatici l’opera di assistenza e di soccorso non soltanto dei suoi correligionari fiorentini, ma provvedeva anche alle varie centinaia di profughi ebrei, italiani e stranieri, che erano giunti nel capoluogo toscano per trovare rifugio e sostegno.

Alla Resistenza, intesa dal liberale Artom come un secondo Risorgimento per riscattare l’onore e la dignità nazionale, parteciparono diversi ebrei pur di differenti appartenenze politiche, portatori di una varietà di atteggiamenti, ma largamente ispirati dalla tradizione liberale e risorgimentale dei loro padri, che produceva così i suoi ultimi frutti.

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Brano tratto dal "Dizionario del liberalismo italiano", edito da Rubbettino Editore. Clicca qui per acquistarlo con il 15% di sconto