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Democratici/Radicali

di Marina Tesoro

Nei primi anni postunitari, mentre gli uomini della Sinistra storica maturavano una propria progettualità politica, proiettandosi come alternativa al governo dei moderati, alcuni esponenti della democrazia più avanzata, pur continuando a tener fede alla prospettiva della Repubblica, cominciarono a contestare l’utilità delle posizioni astensioniste e a respingere il metodo cospirativo. Da questo variegato ed eterogeneo universo, che comprendeva ex garibaldini e una parte di repubblicani (mazziniani o cattaneani) decisi a operare all’interno delle istituzioni, scaturirà un filone politico, originale sotto l’aspetto sia programmatico sia organizzativo. Questo tipo di schieramento politicoprenderà nome didemocrazia o Estrema sinistra, poi democrazia-radicale o radicale tout court.

Anche se la storiografia non è concordenel fissare il termine a quo del radicalismo italiano, non si può dubitare del fatto che Aspromonte (1863) assuma un primo significato periodizzante. Caduta l’illusione che la monarchia potesse reiterare il patto con Garibaldi, ma accresciuto altresì il disagio verso iniziative di tipo insurrezionale e volontaristico, alcuni esponenti di questa parte politica avvertirono l’esigenza di «costituzionalizzare» l’azionismo risorgimentale. Si trattava di dare vita a un ampio schieramento nazionale, riformatore e legalitario, capace di agire contestualmente tanto nella società civile, attraverso una diffusa rete associativa, quanto neivari livelli delle istituzioni, dai Consigli comunali e provinciali fino alla Camera dei deputati. L’interprete più lucido di tale disegno sarà Agostino Bertani. Il medico lombardo, dai trascorsi garibaldini, amico e sodale di Carlo Cattaneo, nello scritto Dell’opposizione parlamentare (1865), che si può assumere come una sorta di manifesto di fondazione del radicalismo italiano, definì il ruolo e lo spazio della «democrazia, considerata come partito politico». Delineato il piano delle riforme «radicali» necessarie per il Paese (suffragio universale, istruzione primaria laica, gratuita e obbligatoria, decentramento amministrativo, garanzia dei diritti personali e collettivi, nazione armata, indipendenza della magistratura), Bertani sfidava la Sinistra parlamentare a farsene promotrice, garantendo il leale sostegno «dall’esterno» della sua ala più avanzata, che qui denominò, per la prima volta, Estrema sinistra. Inoltre introdusse il tema, destinato a diventare una sorta di leitmotiv, della indispensabile funzione di raccordo (l’«anello», il «ponte») che l’ipotizzato «partito della democrazia» avrebbe potuto esercitare tra la società civile e lo Stato nelle sue varie articolazioni.

Peraltro, gli uomini di questo schieramento politico dovettero attendere fino alla seconda metà degli anni Settanta prima di vedere parzialmente accolte le loro proposte. La principale difficoltà consisteva nell’operare contemporaneamente su due fronti: da un lato verso i liberali progressisti della Sinistra e in particolare verso quegli esponenti del «liberalismo insoddisfatto» come Benedetto Cairoli e Giuseppe Zanardelli con i quali persistevano forti vincoli ideali, e dall’altro lato verso i repubblicani, che rifiutando, per lo più, la via parlamentare e legalitaria, ostacolavano e rallentavano il processo. In precario equilibrio su questa doppia linea di frontiera Bertani, sostenuto per un certo tratto dalla figura carismatica di Garibaldi, e successivamente Felice Cavallotti, guidarono la pattuglia dei democratico-radicali lungo un percorso accidentato, nel difficile tentativo di conciliare le premesse pragmatiche, legalitarie, gradualiste con le predisposizioni antisistemiche e con gli umori rivoluzionari, residuali ma non ancora del tutto riassorbiti, nel loro mondo di riferimento. Mentre la partita con i liberali progressisti poté dirsi chiusa sul finire degli anni Settanta, i rapporti nei confronti dei repubblicani risultarono assai più contrastati e contraddittori, avviandosi a definizione soltanto nell’ultimo decennio del secolo. Sul piano storiografico questo ruolo di cerniera effettivamente giocato dai democratico-radicali tra prospettive antagonistiche e visioni riformatrici ha consentito di studiarne l’iter da diverse angolature prospettiche, entro il paradigma della forza politica di opposizione o invece come parte della grande famiglia politica liberale.

Il progressivo affermarsi della identità politica e organizzativa del radicalismo italiano viene segnato da alcuni passaggi. Nel 1873 l’elezione alla Camera di Cavallotti, che superò brillantemente l’ostacolo del giuramento di fedeltà alla Corona, imprimerà nuova energia alla piccola pattuglia parlamentare dell’Estrema sinistra. La personalità dirompente del deputato di Corteolona riuscirà a calamitare l’attenzione di giornali simpatizzanti, come «Il Secolo» di Milano, che orientarono favorevolmente consistenti settori dell’opinione pubblica. Nel 1877 la costituzione ufficiale, per iniziativa soprattutto di Bertani, di un gruppo parlamentare autonomo, da una parte confermava il proposito dell’Estrema sinistra di riconoscersi in strutture proprie (e infatti il gruppo si segnala come primo esperimento di articolazione organizzativa alla Camera sulla base di presupposti politici, anziché tradizionalmente territoriali) e dall’altra parte testimoniava il dissenso politico nei confronti della Sinistra, appena ascesa al governo con Depretis. Peraltro, nel 1878, il voto favorevole al gabinetto Cairoli-Zanardelli, che trovava concordi persino alcuni settori del repubblicanesimo, sembrò aprire la possibilità di coinvolgere anche l’Estrema sinistra nel disegno di modernizzazione del Paese, espresso dall’ambizioso programma di riforme politiche e sociali dei liberali progressisti sotto l’egida di una «monarchia amabile». Tale progetto implicava che i democratico-radicali rispettassero fino in fondo l’impegno di farsi tramite verso il Paese, al fine di consolidare con il consenso popolare le istituzioni, a partire dalla stessa monarchia. Nello scritto L’Italia aspetta (1879),Bertani argomentò le ragioni di questo scambio necessario tra liberalismo e democrazia. Tuttavia, nell’intervallo di tempo tra la stesura del testo e la sua pubblicazione, si erano già chiusi gli spazi per realizzare una simile strategia di ampio respiro politico, che implicava, in prospettiva, l’integrazione dell’Estrema sinistra nell’area di governo. La caduta del primo governo Cairoli, dopo l’attentato Passannante, fece esplodere sentimenti di ostilità verso il «partito della democrazia», che fu costantemente avversato e contrastato dal governo (nelle sue diverse e successive composizioni) e dalla Corona, almeno sino agli esordi dell’età giolittiana.

Nonostante questi ostacoli, la nascita nel 1879 della Lega della democrazia, su impulso di Garibaldi e per impegno fattivo e concorde di Bertani e del repubblicano cattaneano Alberto Mario, testimoniò la vitalità della compagine democratico-radicale, tanto da delineare la fisionomia di una moderna organizzazione politica, retta su strutture stabili e relativamente diffuse sul territorio, dotata di un gruppo dirigente e di un organo di stampa. La campagna dei comizi per il suffragio universale, tra il 1880 e il 1881, dimostrò non soltanto la capacità della Lega di mobilitare ampi settori popolari e del ceto medio, ma evidenziò altresì che la strategia del pressing della piazza sul Parlamento conduceva a risultati concreti, sia pure parziali, come la riforma elettorale del 1882. L’esperienza della Lega, durata poco più di un biennio, assume un valore periodizzante sotto il profilo della strutturazione organizzativa del «partito della democrazia», ma non appare altrettanto significativa dal punto di vista ideologico. Infatti, la riproposizione della Costituente come finalità programmatica, mentre assicurò alla Lega l’appoggio di repubblicani evoluzionisti e partecipazionisti, come Aurelio Saffi, Gabriele Rosa, Arcangelo Ghisleri e di alcune consociazioni regionali repubblicane, d’altra parte tolse credibilità a una forza politica, che, non sviluppando conseguentemente le premesse pragmatiche e legalitarie, rendeva pressoché impossibile la propria interazione con il sistema istituzionale.

L’ampliamento del corpo elettorale mise alla prova la capacità dei democratico-radicali di aggregare e convogliare il consenso intorno ai propri candidati e aprì nuovi versanti di confronto con il nascente socialismo. Nel 1883 [dalla nascita] il Fascio della democrazia rappresentò un passo ulteriore sulla strada della definizione organizzativa (comitato centrale, comitati regionali, consolati operai). Tuttavia, ancora una volta, non venne colta l’occasione per una messa a punto identitaria. L’intento, tanto generoso quanto anacronistico, di presentarsi come punto di raccolta per tutte le forze dell’Italia antimoderata marchiò di eclettismo l’esperienza e ne segnò il rapido declino, nel 1885. Ciò nonostante, quel tipo di cultura politica seppe radicarsi progressivamente nel Paese, assunse consistenti dimensioni associative e si diffuse oltre le zone di insediamento originario lungo l’asse lombardo-veneto-emiliano. A partire dalla metà degli anni Ottanta i radicali non soltanto imporranno la loro presenza nella vita parlamentare, ma condizioneranno il formarsi di cartelli elettorali con i liberali progressisti e/o con i socialisti e i repubblicani («blocchi popolari») e conquisteranno seggi e ruoli di responsabilità nei Consigli comunali e provinciali. Mentre emergeva un nuovo tipo di notabile democratico, il movimento che, agli esordi, si era presentato essenzialmente nella dimensione parlamentare, stava assumendo le caratteristiche del partito a diffusione di massa entro alcuni contesti territoriali, come per esempio in Romagna.

Il vero turning point nella storia del radicalismo italianocoincise con il varo del Patto di Roma nel 1890. Redatto da Cavallotti sullo sfondo della polemica anticrispina, il programma rendeva definitivamente riconoscibile il «partito della democrazia» rispetto agli altri schieramenti allora presenti sulla scena italiana. Depennato ogni riferimento all’ipotesi di una Costituente di derivazione mazziniana, e respinta con altrettanta fermezza l’impostazione classista, il Patto enumerava una serie di riforme politiche e sociali, incisive e strutturali, ma compatibili con il sistema e con la cultura liberale, all’insegna della laicità, del progresso civile, dello sviluppo economico, e nell’ottica di una genuina moralizzazione della politica. In definitiva, i radicali proponevano un programma di alternativa di governo per modernizzare il Paese. Il progetto riscosse ampi consensi nell’opinione pubblica, ma non tali da consentire il raddoppio della rappresentanza parlamentare in occasione delle elezioni politiche del 1890, come Cavallotti aveva auspicato.

Negli anni Novanta i radicali attenuarono l’impegno nel campo associativo e si concentrarono soprattutto sull’attività parlamentare, contrastati e avversati da socialisti e repubblicani, a loro volta alla ricerca di una specifica fisionomia ideologica e programmatica, nonostante fossero entrati a far parte a pieno titolo dell’Estrema sinistra. Peraltro, nel 1894 furono proprio i radicali a rilanciare la combinazione piazza-Parlamento. La Lega per la difesa della libertà, costituita per iniziativa di Cavallotti, consentì la convergenza di tutta l’opposizione di sinistra contro la politica autoritaria e aggressiva di Crispi.

La morte di Cavallotti in duello, nel 1898, chiuse la prima stagione del radicalismo. Il nuovo secolo vedrà salire alla ribalta personaggi della generazione post-risorgimentale, da Ettore Sacchi a Francesco Saverio Nitti a Luigi Credaro, decisi a segnare una discontinuità rispetto all’esperienza ottocentesca. Nel 1904 la nascita del Partito radicale, che contemplava un graduale espandersidelle istituzioni liberali nel segno dei diritti, di una più equa distribuzione delle risorse economiche e della laicità, aprì nuove prospettive. Infatti, prese forma, con successo, il disegno giolittiano che contemplava di dividere al suo interno l’Estrema sinistra, per staccare i radicali dai socialisti e dai repubblicani e accoglierli nell’area di governo.

Per i radicali dell’Ottocento la memoria del Risorgimento costituì il fondamento della legittimazione, mentre il garibaldinismo, inteso soprattutto come forma mentis, in una mutevole mescolanza di umori rivoluzionari e di moderazione, di utopie e di realismo, ne rappresentò il prevalente tratto identitario. La cultura politica dei radicali ottocentechi si alimentò di vari apporti, anche straneri. Sul piano delle idee i contributi più rilevanti vennero da Cattaneo, daJohn Stuart Mill e, per certi versi, da Pierre Proudhon, mentre sul terreno della comunicazione politica le suggestioni più forti vennero recepite dal radicalismo francese e dal liberalismo popolare inglese, senza dimenticare l’influsso della Massoneria, che ne sostenne soprattutto il credo laico.

Sul finire del secolo, rimasti attardati nell’adottare adeguate strategie di integrazione sociale e di rappresentanza degli interessi dei ceti emergenti, in una società che si andava massificando, i radicali soffrirono la concorrenza dei repubblicani e soprattutto dei socialisti. Tuttavia, ponendosi come avamposti dei movimenti in difesa dei diritti e insistendo nell’allargare gli spazi di libertà e di democrazia in Italia, offrirono un contributo assai rilevante al processo di Nation building.

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Brano tratto dal "Dizionario del liberalismo italiano", edito da Rubbettino Editore. Clicca qui per acquistarlo con il 15% di sconto