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Costituzione

di Tommaso Edoardo Frosini

Definire la costituzione è esercizio complesso, ma una cosa voglio dirla subito: il concetto di costituzione cambia a seconda delle epoche storiche e delle concezioni degli interpreti delle costituzioni. Questo anche perché le costituzioni non sono realtà ideali statiche ma piuttosto organismi viventi, soggette quindi a continue evoluzioni. Si potrebbe dire, che lo studioso che tenti di ritrarre una costituzione vivente deve affrontare una grave difficoltà, e cioè che il soggetto del ritratto cambia continuamente.

La più antica definizione, e anche la più nota, è quella che si trova nella Politica di Aristotele: «La costituzione è l’ordine della città, di tutte le cariche e soprattutto dell’autorità sovrana, che ovunque è costruita dal governo della città, governo che è la stessa costituzione». Sebbene mantenga una sua attualità (e chiarezza), questa definizione va progressivamente aggiornata con la moderna idea di costituzione, come documento giuridico e legislativo. Ovvero, «qualcosa di stabilito» – letteralmente – e quindi un’idea di struttura essenziale propria di un organismo. Le moderne costituzioni vengono scritte per fissare limiti al potere di chi comanda, per definire le condizioni e i modi in cui l’autorità deve essere esercitata, e per fissare i diritti dei soggetti nei confronti dell’autorità, che non può legalmente violarli. Ho espresso qui una nozione di costituzione più articolata, di stampo liberale, che irrompe, come vedremo, con le due Rivoluzioni, francese e nordamericana; con quegli atti e fatti costituzionali, che inizialmente parevano muoversi come opposti sentieri del costituzionalismo ma che si ricongiungeranno nella sintesi della democrazia liberale.

Certo, gli antecedenti delle moderne costituzioni sono quegli atti costituzionali, come innanzitutto e soprattutto la Magna carta inglese (1215), che limitano il potere e garantiscono i diritti: un «patto», cioè, fra l’autorità sovrana e gruppi qualificati di soggetti, dove l’una rispetta e garantisce i diritti e gli altri riconoscono l’autorità. Si afferma l’idea di limitare il potere attraverso un documento giuridico, che si manifesta per il tramite di una sorta di «contratto» tra sovrano e sudditi.

Se si vuole però individuare un termine a quo sulla nascita del concetto moderno di costituzione, bisogna fissarlo alla fine del Settecento. Con le due Rivoluzioni, francese e nordamericana, prima ricordate. La domanda che risuonava in quel periodo storico e in quelle aree geografiche, stante le grandi trasformazioni sociali e politiche che animavano quei territori, era così riassumibile: come limitare e vincolare il potere al diritto e obbligarlo a garantire e rispettare i diritti degli individui, una volta divenuto chiaro che il diritto era creazione del potere medesimo e non di un’entità trascendente che i governanti, trovandola già predisposta, si limitavano ad applicare? La risposta fu: la costituzione.

Chiarissima, esemplare e fulminante l’affermazione che si trova all’art. 16 della «Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino» (Déclaration des droits de l’homme et du citoyen), approvata in Francia nel 1789: «Ogni Società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei Poteri determinata, non ha Costituzione». Formula che capiamo e ammiriamo meglio oggi più di quanto poté, volle e seppe fare il costituente francese di allora. Separazione dei poteri, nel 1789, era una generica parola d’ordine di stampo politico, come tale più che altro contrapposta alla trascorsa formula dello Stato assoluto: significava, pertanto, sottrazione definitiva del potere legislativo al monarca. E così la garanzia dei diritti, che passavano attraverso il ruolo dominante del legislatore e della volontà generale, piuttosto che separando i poteri in modo da subordinarli tutti – in condizione di equilibrio reciproco – alla supremazia della costituzione. L’articolo 16 della Dichiarazione va ben oltre lo spirito del tempo; si astrae e si decontestualizza territorialmente; si sgancia dal momento della scrittura, e si consegna alla storia. Quindi si viene a proiettare verso il futuro, quale monito per la posterità, gettando solidissime basi per l’idea di costituzione e per il costituzionalismo. Come dire: sappiate che ogniqualvolta si dovrà scrivere e approvare una costituzione, bisognerà innanzitutto e soprattutto assicurare la garanzia dei diritti e determinare la separazione dei poteri, altrimenti niente. Due elementi della società e dello Stato liberale furono così uniti l’uno all’altro, nel modo più stretto e per i tempi a venire.

Di qualche anno precedente è la Dichiarazione di indipendenza (1776) dei rappresentanti di quelle che erano state colonie inglesi nel Nordamerica, che si apriva con queste parole: «Noi riteniamo incontestabili ed evidenti per se stesse le seguenti verità: che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che tra questi diritti sono, in primo luogo, la vita la libertà e la ricerca della felicità. Che, per assicurare il godimento di questi diritti, gli uomini hanno stabilito tra loro dei governi di cui la giusta autorità emana dal consenso dei governati». I diritti prima del potere; l’individuo prima dell’autorità. Sebbene, quando dodici anni più tardi, il 17 settembre 1787, i rappresentanti degli Stati diedero vita, nella Convenzione di Filadelfia, alla Costituzione degli Stati Uniti d’America, questa si limitava soltanto a disciplinare i poteri della federazione e dei nuovi organi federali. Li disciplinava, ovvero li separava. Si dava forma e sostanza giuridica al principio secondo il quale le attività di elaborazione di norme, della loro applicazione e della definizione delle controversie riguardanti l’applicazione di tali norme dovrebbero essere affidate a organi e poteri diversi e tra loro in reciproco equilibrio. I diritti vennero a seguire: è del 1789 la delibera del primo Congresso dei primi dieci emendamenti alla costituzione, il Bill of Rights.

Con la Dichiarazione francese del 1789 e la Costituzione nordamericana del 1787 prende forma il costituzionalismo moderno, e si crea uno spartiacque fra il passato e il futuro. La costituzione diventa la Legge fondamentale di un Paese, una legge superiore (Higher Law) a tutte le altre leggi, che non può essere violata nemmeno dal legislatore. In tal senso, fondamentale è la sentenza della Corte Suprema U.S. nel caso Marbury v. Madison (1803), epifania del controllo di costituzionalità delle leggi. Si struttura così l’assetto delle fonti del diritto al cui vertice c’è la costituzione, che non può essere modificata, se non attraverso un procedimento complesso e aggravato, e che non può essere violata dalla legge, che potrà essere dichiarata incostituzionale ed espulsa dall’ordinamento per volere della giustizia costituzionale.

Ho saltato un passaggio teorico nella ricostruzione finora svolta; quello riferito a come nasce una costituzione. Non è stata una dimenticanza, perché la costituzione è, innanzitutto, insieme un sistema e una storia. In tal modo, il concetto di costituzione si sviluppa entro il processo storico del costituzionalismo, escludendolo dalle determinazioni di un potere costituente. Sebbene proprio di questo dovrò adesso parlare, ricordo come la Gran Bretagna, che ha una costituzione ma non scritta, fa propria l’idea e il concetto della costituzione come insieme un sistema e una storia.

Allora, il potere costituente, questo «terribile» potere. Si può citare l’abate Sièyes, per tornare nel clima della Francia del 1789: «In ogni sua parte, la Costituzione non è opera del potere costituito ma del potere costituente. Non esiste nessun potere delegato che possa mutare le condizioni della propria delega». Al concetto di potere costituente si ricollega un altro concetto fondante la costituzione (e il costituzionalismo), quello della sovranità popolare. Infatti, il potere costituente – il potere cioè di dare vita a una costituzione – deve essere legittimato democraticamente, e quindi voluto, eletto e delegato dal popolo sovrano. Certo, è un potere straordinario, il cui esercizio è consentito sulla base di un voto a esso finalizzato. Una volta completato il mandato a costituire, ovvero a creare una costituzione, il potere costituente si ritrae e lascia la scena al potere costituito. È quest’ultimo che può modificare la costituzione attraverso le regole che sono previste nella costituzione stessa. Salvo avere previsto dei limiti assoluti alla modificabilità del testo.

La vicenda italiana è, sul punto, emblematica: il popolo sovrano elesse, il 2 giugno 1946, un’Assemblea costituente, avente cioè mandato e potere a scrivere e approvare una costituzione, la quale dopo avere esaurito il proprio mandato, con l’approvazione finale della costituzione, si sciolse. Venne successivamente eletto il primo Parlamento repubblicano, che agisce all’interno delle regole costituzionali decise e volute in sede costituente. Laddove il Parlamento volesse modificare la Costituzione dovrebbe procedere seguendo un percorso obbligato e vincolato dall’art. 138 della Costituzione, che impone un procedimento aggravato e garantista per le modifiche costituzionali. L’art. 139 della Costituzione, inoltre, dispone il divieto a modificare «la forma repubblicana».

Si faccia attenzione, però: è vero che le modifiche formali, ovvero testuali, debbono passare attraverso una scelta qualificata del Parlamento, ma le costituzioni sono soggette a interpretazioni evoluzionistiche, che si danno attraverso la volontà delle forze politiche, le trasformazioni sociali e il contributo della giurisprudenza (costituzionale, specialmente). Anche qui, un altro esempio emblematico: la Costituzione nordamericana è rimasta quella del 1787, mai una modifica, mai una riforma (salvo gli emendamenti aggiuntivi). Come è possibile che trascorsi oltre due secoli, e a fronte di continui e ripetuti cambiamenti davvero radicali della società americana, non si è ritenuto necessario adeguare la costituzione? Perché è invalsa l’interpretazione costituzionale affidata prevalentemente, ma non esclusivamente, alla giurisprudenza della Corte suprema. Si parla, in tal caso, di costituzione vivente (Living Constitution). Rimane un problema non piccolo: come si può affidare a dei tecnici, quali sono i giudici costituzionali, per giunta privi di legittimazione democratica in quanto non eletti dal popolo, il compito di modellare volta per volta la costituzione e di dare una nuova lettura alle norme costituzionali? Non è questo, forse, un altro modo di esercitare un nuovo potere costituente?

A questo punto, occorre provare a classificare la costituzione. Sia sul piano dei contenuti, sia su quello della tipologia. È chiaro che è stata la dottrina a elaborare classificazioni, ma non mi proverò a fare l’elenco dettagliato dei singoli autori, stante anche la sinteticità di questo scritto, rinviando alla bibliografia finale per i testi dove agilmente si possono trovare le fonti dottrinali. Punto primo: le dottrine formalistiche hanno elaborato un concetto di costituzione inteso come norma sulla produzione di norme o «meta-norma suprema» dell’ordinamento, esterna a esso e da cui discende la validità meramente formale-procedimentale dello stesso. Punto secondo: la costituzione è ritenuta, secondo le dottrine volontaristico-decisioniste, la decisione politica fondamentale, ovvero imperativa, con cui le forze dominanti (costituenti) realizzano una particolare unità politica di un popolo. Punto terzo: le concezioni giusnaturalistiche ritengono che attraverso la costituzione si positivizzino giuridicamente la gran parte delle tradizionali istanze del diritto naturale.

Sul piano delle tipologie, si possono distinguere tre «tipi» di costituzione: a) «formale», e quindi le disposizioni normative scritte prodotte da un potere costituente: la costituzione, in questo caso, va applicata alla lettera, per ciò che in essa c’è scritto; b) «materiale», e quindi le disposizioni normative vanno interpretate secondo il periodo storico e per il tramite delle forze politiche dominanti: la costituzione, in questo caso, va attuata secondo la lettera ma in ragione dello spirito, e sulla base dei comportamenti concreti degli attori costituzionali; c) «vivente», e quindi le norme costituzionali sono soggette a interpretazione delle corti costituzionali, le quali nello svolgere un’attività ermeneutica-creativa riempiono di significati normativi – viventi, per l’appunto – le disposizioni scritte della costituzione.

Si tratta di classificazioni utili, che hanno una loro pregnanza nel dibattito odierno orientato alla ricerca della specificazione e della giustificazione di un certo funzionamento costituzionale. Certo, si tratta di mere classificazioni dottrinali; però, se usate in maniera avventata rischiano di inquinare il senso e il valore della costituzione. In particolare, l’espressione «costituzione materiale» è suscettibile di creare fraintendimenti e diffidenze perché – si dice – serve a legittimare i comportamenti dei protagonisti politici che si scostano dalla regola formale; ma è opinione miope, e ora dirò il perché.

Innanzitutto, la costituzione cosiddetta «materiale» non è un’altra costituzione, né tantomeno si pone come alternativa a quella cosiddetta «formale»; essa è piuttosto integrativa dell’una, ovvero completa e definisce al meglio – sulla base delle interpretazioni e delle scelte di indirizzo politico compiute dalle forze politiche – le norme costituzionali scritte generali, ovvero non analitiche, che devono essere riempite dalle scelte, dalle prassi, dalle convenzioni e consuetudini per essere concretamente applicate. Faccio un esempio fra i tanti: se la norma costituzionale, in tema di formazione del governo, afferma, come fa la Costituzione italiana all’art. 92, comma secondo, che «il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri»; è chiaro che questa norma deve essere riempita nella sua forma e nella sostanza, e quindi il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri tenendo conto del risultato delle elezioni, ovvero delle proposte che gli provengono dai rappresentanti delle forze politiche, ovvero dall’indicazione, laddove c’è, del corpo elettorale al momento del voto. Insomma, quella che appare come una norma costituzionale che concederebbe massima discrezionalità al Presidente della Repubblica nella scelta del Presidente del Consiglio è, invece, nella sua materialità una norma che deve tenere conto della prassi e delle convenzioni, che si sono introdotte nel tempo anche per volere delle forze politiche, e più in generale degli attori costituzionali.

L’uso, invece, della classificazione di costituzione «vivente» si applica all’attività ermeneutica giurisprudenziale, in particolare della giurisprudenza costituzionale. Anche qui si tratta di un’attività di carattere integrativo e non certo alternativo, con una differenza di non poco conto rispetto all’attività integrativa delle forze politiche, che va a incidere sulla materia dei poteri costituzionali. L’attività ermeneutica della giurisprudenza costituzionale interviene – prevalentemente – sui diritti fondamentali, estrapolando dalle norme costituzionali letterali nuove situazioni giuridiche soggettive da tutelare costituzionalmente. Anche qui faccio un esempio: il diritto all’ambiente, come diritto fondamentale del cittadino, non esiste, sulla carta scritta, nella Costituzione italiana; ebbene, esso gode certamente di tutela e garanzia costituzionale perché la Corte costituzionale lo ha riconosciuto per il tramite del «combinato disposto» fra l’art. 9 sulla tutela del paesaggio e l’art. 32 sulla tutela della salute. L’incrocio, la combinazione, la sintesi di questi due articoli – letti in «combinato disposto» fra loro – ha permesso alla giurisprudenza costituzionale di far assurgere a diritto costituzionale il diritto all’ambiente (e lo stesso dicasi per il diritto alla riservatezza, il diritto alla identità sessuale, il diritto all’abitazione, ecc.). Percorso irto di ostacoli e pericoli è quello che i glossatori della giurisprudenza costituzionale vorrebbe che essa prendesse, e cioè di far assurgere a valori le norme costituzionali che disciplinano principi supremi. Valori meta giuridici addirittura; il che vorrebbe dire affidare il disegno complessivo e pluralistico di una società – che passa attraverso il riconoscimento e l’affermazione dei valori – a dei giudici, peraltro privi di legittimazione democratica.

Un’altra classificazione che si usa fare per distinguere le costituzioni è quella riferita alla natura e alla forma della stessa: a) «rigida», ovvero modificabile per il tramite di un procedimento particolarmente complesso e aggravato (vedi per esempio l’art. 138 della Costituzione italiana) o b) «elastica», ovvero modificabile per il tramite della volontà della maggioranza parlamentare, al pari di una legge ordinaria (vedi per esempio il caso dello statuto albertino). Va detto, che la seconda forma, quella cosiddetta «elastica», oggi trova pochissimi riscontri nel panorama mondiale e, forse, nessuno nel panorama del costituzionalismo occidentale. Questo perché le costituzioni sono sempre più considerate «leggi superiori», che devono godere di stabilità in quanto devono dare certezza giuridica, sicurezza pubblica e pace sociale ai popoli.

Merita altresì citare un’ulteriore classificazione di costituzioni: a) «scritta», ovvero redatta sotto forma di articoli, pubblicata e promulgata per essere letta, recepita e osservata: la carta fondamentale di un popolo, come si dice; b) «non scritta», ovvero privata di letteralità e fondata solo sulla consuetudine e le convenzioni. È il caso della Gran Bretagna, che rappresenta davvero un unicum, tenuto conto che gli altri paesi di derivazione inglese (Canada, Nuova Zelanda, Australia), che appartengono cioè al Commonwealth, si sono dotati di forme scritte di atti costituzionali, che hanno una loro forza e validità di costituzione. Si faccia attenzione, però: che la Gran Bretagna non ha una costituzione scritta non vuol dire affatto che non ha una costituzione; vuol dire, piuttosto, che una costituzione c’è da sempre e tutti la conosco e la osservano, e che non c’è mai stato bisogno di scriverla. Sono regole – conventions – che si tramandano da secoli, secondo una tradizione caratterizzante il sistema di common law. Scriverle vorrebbe dire tradirle.

Per provare ad abbozzare una conclusione dei discorsi finora fatti, si potrebbe dire che le costituzioni sono dotate di una loro intrinseca duttilità. Che non deve essere tirata oltre modo altrimenti si spezza. Viceversa rimanere legati, anzi imprigionati, alla sola testualità delle norme costituzionali – ammesso e non concesso che sia concretamente possibile, anche perché applicare è già interpretare – rischia di soffocare l’evoluzione di un ordinamento costituzionale, la crescita e lo sviluppo di un popolo, che deve passare attraverso una aggiornata lettura della costituzione. Altrimenti, si provvede a modificarla di continuo, rendendola però una costituzione di carta, senza anima, senza sentimento, senza patriottismo costituzionale.

La costituzione diventa un mito se la si ritiene in grado di svolgere una sorta di onnipotenza regolativa, e invece non riesce a regolare tutti i fatti di vita né la totalità dei rapporti sociali e delle forze sociali. Certo, è anche un fattore di integrazione sociale; ma la sua missione liberale è quella soprattutto di limitare il potere e tutelare i diritti fondamentali dell’individuo. Nonché quello di creare i presupposti per un ordine democratico ben funzionante, nel quale i cittadini siano veramente in grado di autogovernarsi, in nome (e nei modi) di una sovranità appartenente al popolo.

Bibliografia

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Brano tratto dal "Dizionario del liberalismo italiano", edito da Rubbettino Editore. Clicca qui per acquistarlo con il 15% di sconto