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Corte dei conti

di Enrico Gustapane

La Corte dei conti italiana deriva dalla Corte dei conti del Regno di Sardegna, che era stata istituita con la legge 30 ottobre 1859, n. 3706 sul modello di quella belga, con il compito di eseguire il controllo preventivo sugli atti amministrativi e l’esame dei conti e di esercitare la giurisdizione sugli agenti contabili. Il relativo disegno di legge fu presentato dall’allora ministro delle Finanze, Cavour, il quale, nella relazione illustrativa, affermò per giustificare l’utilità del nuovo istituto: «è assoluta necessità di concentrare il controllo preventivo e consuntivo in un magistrato inamovibile».

Dopo la proclamazione del Regno d’Italia (legge 17 marzo 1861, n. 4671), rimasero provvisoriamente in funzione le istituzioni di controllo degli Stati preunitari, finché fu istituita la «Corte dei conti del Regno d’Italia», con la legge 14 agosto 1862, n. 800. La Corte iniziò a funzionare in Torino, allora capitale del Regno, il 1 ottobre 1862; il discorso inaugurale fu pronunziato da Quintino Sella, allora ministro delle Finanze, che disse: «Io considero quindi la istituzione di questa Corte come una delle più provvide e sapienti deliberazioni che la Nazione debba al suo Parlamento» e proseguì, rivolgendosi ai magistrati, «È vostro compito il vegliare a che il Potere esecutivo non mai violi la legge; ed ove un fatto avvenga il quale al vostro alto discernimento paia ad essa contrario, è vostro debito di darne contezza al Parlamento».

La Corte fu poi trasferita a Firenze nel 1864, con il passaggio della Capitale in quella Città e, definitivamente, a Roma nel 1871.

La Corte dei conti esercitava il controllo preventivo di legittimità sui decreti reali e sui decreti dei ministri che comportavano impegni di spesa sul bilancio statale; vistava preventivamente tutti gli ordini di pagamento emessi dalle amministrazioni statali; vigilava sulla riscossione delle entrate e sui conti degli agenti pubblici. Il «visto» della Corte era condizione necessaria per l’esecuzione dei decreti reali e ministeriali e degli ordini di pagamento. Il rifiuto del «visto» impediva l’attuazione dei provvedimenti amministrativi e anche dei decretilegge e dei decreti legislativi, anch’essi soggetti al controllo preventivo della Corte poiché emanati con decreto reale. Quella conseguenza poteva però essere evitata, la legge prevedeva, infatti, che qualora il governo ritenesse che un atto dovesse essere eseguito, poteva chiedere alla Corte la «registrazione con riserva» del medesimo. La Corte, eseguita la registrazione, doveva però trasmettere, ogni quindici giorni, al Parlamento l’elenco dei provvedimenti registrati con riserva, indicando i motivi del rifiuto del visto.

Al termine dell’anno finanziario, la Corte, a Sezioni riunite in udienza pubblica, accertava la regolarità del rendiconto generale dello Stato, compilato dal Ministro delle Finanze, e ne dichiarava la regolarità. Alla deliberazione sul rendiconto, la Corte allegava una relazione diretta al Parlamento nella quale esponeva le sue osservazioni sul modo con il quale le varie Amministrazioni applicavano le norme legislative e regolamentari e indicava le riforme e le variazioni che riteneva opportune per il perfezionamento delle leggi e dei regolamenti sull’Amministrazione e sui conti del denaro pubblico. La deliberazione di «parifica» del rendiconto dello Stato e la relazione allegata erano trasmesse al Ministro delle Finanze che le presentava al Parlamento, con il disegno di legge per l’approvazione del rendiconto. La Corte giudicava, in sede giurisdizionale, sui conti degli agenti incaricati di maneggiare il denaro pubblico. Aveva, infine, il compito amministrativo di liquidare le pensioni a carico dello Stato e di giudicare sui ricorsi degli impiegati nella materia delle pensioni.

Le attribuzioni di controllo della Corte la ponevano perciò in rapporto necessario e diretto con il Parlamento, che era il destinatario finale delle sue relazioni, che erano il mezzo per il controllo sull’attività del governo e sul funzionamento di tutte le amministrazioni dello Stato. La magistratura della Corte era composta, secondo la legge istitutiva, da un presidente, due presidenti di Sezione, dodici consiglieri, un procuratore generale, rappresentante il Pubblico ministero, incaricato di promuovere i giudizi a carico dei contabili, un segretario generale, incaricato della gestione dell’Istituto, e da venti ragionieri, incaricati della revisione dei conti, i ragionieri furono poi denominati referendari (legge 28 dicembre 1902, n. 533, tabella allegata).

I magistrati della Corte, fino al grado di consigliere, erano nominati con decreto reale, su proposta del Ministro delle Finanze, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, Il Governo aveva la più ampia discrezionalità nella scelta delle persone da nominare, tuttavia, per garantire l’indipendenza nei confronti del potere esecutivo, la legge stabilì che, dopo la nomina, i magistrati a iniziare da quelli con la qualifica di consigliere, godevano della piena inamovibilità, infatti, non potevano essere revocati, né collocati a riposo d’ufficio, né allontanati in «qualsiasi altro modo, se non per decreto reale, col parere conforme di una Commissione composta dai presidenti e vice-presidenti del Senato e della Camera dei deputati» [art. 4 legge n. 800/1862]. Fu così garantita l’autonomia della Corte, ponendo l’accento, allo stesso tempo, sul legame dell’Istituto con il Parlamento.

Durante il periodo liberale, appartennero alla magistratura della Corte dei conti alcuni eminenti esponenti della politica e della cultura, fra i quali, Antonio Scialoja protagonista delle lotte risorgimentali, economista, ministro delle Finanze e della Pubblica istruzione, Francesco Ferrara, fondatore della scienza economica italiana, e Giovanni Giolitti, che fu segretario generale dell’Istituto dal 1877 al 1882. Giolitti ricordò nelle Memorie della mia vita l’esperienza presso la Corte dei conti, scrivendo:

Alla Corte mi occupai particolarmente del controllo, esaminando i decreti che venivano dai vari ministeri e riferendone al Presidente. Intervenivo come segretario alle sezioni del controllo e alle sezioni riunite; e in questioni di controllo stendevo io le decisioni motivate. Quel lungo lavoro, col controllo di tutti i decreti, è stato per me una educazione amministrativa efficacissima, mettendomi a conoscenza di tutto il meccanismo dello Stato; ciò che mi riuscì assai utile quando quel meccanismo dovetti muoverlo io stesso [Giolitti (1922) 1982].

I maggiori esponenti della classe dirigente liberale, da Cavour, a Sella e a Giolitti, considerarono la Corte dei conti un istituto fondamentale dello Stato unitario; tuttavia, il suo funzionamento non corrispose, nel rapporto fra la Corte e il Parlamento, al modello disegnato dalla legge. La Corte era, secondo la legge, lo strumento messo a disposizione del Parlamento per esercitare il controllo sul governo e sul funzionamento dell’amministrazione pubblica, ma il Parlamento riservò scarsa considerazione alle relazioni della Corte e non risulta che, durante il periodo liberale, vi siano stati casi d’interventi parlamentari nei confronti del governo sulla base delle segnalazioni della Corte dei conti. La Corte fu perciò di fatto attratta dall’Amministrazione e l’esercizio dei suoi controlli divenne formalistico e poco incisivo. Il declassamento dell’azione dell’Istituto coincise con il mutamento della costituzione materiale dello Stato italiano, che avvenne verso la fine del secolo XIX, con il progressivo affermarsi della supremazia del governo sul Parlamento.

Durante i primi anni del periodo fascista, la Corte dei conti continuò ad esercitare le sue funzioni con equilibrio e imparzialità. La svolta in senso autoritario della situazione politica influì però su un aspetto rilevante del controllo preventivo. La Corte esercitava il controllo preventivo sui decreti – legge, poiché emanati con decreto reale. Sin dalla proclamazione del Regno, i Governi avevano adottato, in casi eccezionali di necessità e urgenza, decretilegge, benché non previsti dallo Statuto alberino; i decretilegge dovevano, in ogni caso, essere convertiti in legge dal Parlamento. Nel periodo liberale, la Corte dei conti rifiutò, fra l’altro, il «visto» al decretolegge 22 giugno 1899, che limitava la libertà di stampa e i diritti dei cittadini e lo registrò «con riserva» su richiesta del governo.

Il governo fascista, appena insediato, adottò numerosi decretilegge per avviare la trasformazione dello Stato in senso autoritario, la Corte negò a tutti quegli atti il «visto», così motivando il rifiuto «considerato che il provvedimento eccezionale, com’è definito dallo stesso Governo, determinato da ragione politica, esce dai confini della legge scritta, dalla quale non trae norma». Il governo fascista impose la «registrazione con riserva», ma, allo stesso tempo, per superare il conflitto con la Corte, promosse l’approvazione della legge 31 gennaio 1926, n. 100 che previde, fra l’altro la facoltà del governo di adottare decretilegge e riservò al Parlamento il controllo sulla necessità e l’urgenza dei medesimi. L’adozione dei decretilegge fu così prevista dalla legge e, in tal modo, furono superate le obiezioni della Corte.

Negli anni Trenta, l’ordinamento della Corte fu notevolmente migliorato dalla legge 3 aprile 1933, n. 255 che disciplinò il procedimento del controllo preventivo, attribuì all’Istituto il potere di disporre accertamenti diretti sui contabili e di applicare penalità ai funzionari che, senza giustificato motivo, ritardavano la presentazione dei conti, rafforzò il potere istruttorio del Procuratore generale e disciplinò l’attività giurisdizionale attribuendo i giudizi di conto e di responsabilità a una delle due Sezioni giurisdizionale e riservando all’altra i giudizi sui ricorsi per le pensioni degli impiegati pubblici. Allo stesso tempo, la competenza a liquidare le pensioni fu trasferita all’Amministrazione. La legge comunale e provinciale 3 marzo 1934, n, 383 attribuì poi alla Corte la competenza a giudicare sugli appelli contro le decisioni dei Consigli di prefettura in materia di responsabilità degli amministratori degli enti locali.

La legge n. 255/1933 delegò anche il governo a emanare le norme per i giudizi dinanzi alla Corte e a «raccogliere, riordinare e pubblicare in Testo unico tutte le norme di legge riguardanti l’ordinamento della Corte dei conti». La delega fu attuata con l’emanazione del r.d. 13 agosto 1933, n. 1038, recante il regolamento di procedura per i giudizi innanzi alla Corte dei conti e con l’emanazione del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, recante il Testo unico delle leggi sull’ordinamento dell’Istituto; le due leggi delegate sono tuttora vigenti, benché ampiamente modificate.

La legge n. 255/1933 modificò però la posizione costituzionale della Corte, poiché indebolì il legame fra la Corte e il Parlamento, disponendo che la decisione delle Sezioni riunite sul rendiconto generale dello Stato e la relazione annuale sul funzionamento dell’Amministrazione, oltre che al Parlamento, fossero presentate da una delegazione della Corte al Capo del governo, che divenne così l’interlocutore privilegiato dell’Istituto, inoltre, il r. d. 5 febbraio 1930, n. 21 stabilì che il Presidente della Corte doveva riferire al Capo del governo sull’andamento dei lavori dell’Istituto. La Corte divenne così, di fatto, «una direzione generale della Presidenza del Consiglio», come la definì nel 1946 Gustavo Ingrosso, allora presidente reggente dell’Istituto.

Dopo la caduta del fascismo, alla vigilia delle elezioni dell’Assemblea costituente, il Presidente reggente convocò le Sezioni riunite della Corte che, nell’adunanza del 12 marzo 1946, deliberarono, all’unanimità, una risoluzione nella quale affermarono la necessità che «il popolo italiano, sulla soglia di una nuova era della sua storia, sia reso sempre più consapevole e, alla fiamma delle rinate libertà, ritempri e consolidi – nei nuovi ordinamenti che starà per darsi – la Magistratura del suo controllo, inserendone l’istituto e le funzioni nella Carta costituzionale».

La risoluzione precisò poi che le funzioni essenziali della Corte, da inserire nella Costituzione, dovevano fondarsi «sulla base immutabile del controllo preventivo e consuntivo, come quello che solo assicura la perfetta garanzia di legalità del provvedimento amministrativo e di regolarità della spesa».

L’iniziativa delle Sezioni riunite, sostenuta dalla considerazione per l’attività imparziale svolta dall’Istituto anche durante il regime fascista, convinse l’Assemblea costituente a inserire la Corte dei conti nella Costituzione del 1948, garantendo l’esercizio delle sue funzioni fondamentali: il controllo preventivo e successivo e la giurisdizione per l’accertamento della responsabilità degli amministratori e funzionari per i danni causati all’amministrazione pubblica.

La Costituzione dedica alla Corte due articoli: l’art. 100, «La Corte dei conti esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato. Partecipa, nei casi e nelle forme stabiliti dalla legge, al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Riferisce direttamente alle Camere sul risultato del riscontro eseguito». E l’art. 103, «La Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge».

La Costituzione confermò la struttura e le attribuzioni esercitate dalla Corte sin dalla sua istituzione, con alcune importanti innovazioni. L’articolo 100, che prevede il controllo, fu inserito nel Titolo III dedicato al governo, nella Sezione III che comprende gli «Organi ausiliari». La Corte perciò è chiamata, con gli altri «organi ausiliari», Consiglio di Stato e Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, ad aiutare il Governo per garantire l’efficiente organizzazione e il buon funzionamento dell’Amministrazione pubblica. Lo stesso articolo 100 stabilisce però che la Corte riferisce direttamente al Parlamento sui risultati del controllo eseguito, ripristinando il rapporto diretto fra l’Istituto e il Parlamento, interrotto durante il periodo fascista.

L’articolo 103, riguardante le funzioni giurisdizionali della Corte, fu inserito nel Titolo IV, dedicato alla magistratura, stabilendo così che, nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, riguardanti le materie di contabilità pubblica e il contenzioso sulle pensioni dei dipendenti pubblici, la Corte ha le stesse garanzie d’indipendenza e di autonomia spettanti all’ordine giudiziario e le sue decisioni hanno la stessa efficacia delle sentenze del giudice ordinario.

Nei primi anni successivi all’entrata in vigore della Costituzione, la Corte continuò a esercitare le sue funzioni secondo il Testo unico del 1934, tuttavia, quell’ordinamento fu interpretato secondo i nuovi principi costituzionali. La prima legge che attuò, per la Corte, una previsione costituzionale fu la legge 21 marzo 1958, n. 259 che disciplinò, secondo il dettato dell’articolo 100 della Costituzione, la «partecipazione della Corte dei conti al controllo sulla gestione finanziaria degli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria». La legge istituì un’apposita Sezione di controllo e previde che la Corte dovesse riferire annualmente al Parlamento sulla gestione finanziaria degli enti controllati, oltre alla relazione annuale, la legge attribuì alla Corte il potere di formulare al Ministero del Tesoro e al Ministero vigilante, rilievi sulla gestione degli enti, qualora accertasse irregolarità nel corso della gestione. Il controllo della Corte fu così esteso al settore degli enti pubblici, il cui numero era in continuo aumento, tuttavia, il nuovo controllo non corrispose alle attese sia per il ritardo con il quale la Corte inviò le sue relazioni al Parlamento, sia soprattutto per il disinteresse dimostrato dalle Camere nel dare seguito alle osservazioni della Corte.

L’organizzazione dell’amministrazione pubblica si adeguava lentamente, negli anni Sessanta, al principio costituzionale del decentramento (art. 5 Costituzione), le modifiche riguardarono anche la Corte dei conti, collegata all’amministrazione per l’esercizio delle sue funzioni. La legge 20 dicembre 1961, n. 1345 istituì perciò le Delegazioni regionali della Corte dei conti con sede nel capoluogo di ciascuna regione, con il compito di esercitare il controllo sulle amministrazioni statali decentrate. La legge n. 1345/1961 riorganizzò anche il contenzioso per le pensioni di guerra, che continuava ad assorbire la maggior parte dei magistrati e degli impiegati dell’Istituto. Infine, determinò le funzioni e la carriera dei magistrati, secondo il principio costituzionale della distinzione dei magistrati secondo le funzioni esercitate e non secondo criteri gerarchici (articolo 107, comma 3°, Costituzione).

La legge n. 1345/1961 previde anche la composizione del Consiglio di presidenza della Corte, competente a deliberare le nomine e le promozioni dei magistrati, tale composizione è stata modificata dalla legge 13 aprile 1988, n. 17, articolo 10, che ha previsto oltre ai membri di diritto (Presidente, Procuratore generale, Presidente di sezione più anziano nel ruolo), dieci magistrati eletti da tutti i magistrati e quattro componenti scelti dai Presidenti delle Camere, la nuova composizione è ispirata a quella prevista dall’articolo 104 della Costituzione per il Consiglio superiore della magistratura, allo scopo di assicurare l’indipendenza dei magistrati della Corte e del pubblico ministero presso di essa, come prevede l’articolo 108, comma 2°, della Costituzione.

L’attuazione dell’articolo 103 della Costituzione, che attribuisce alla Corte dei conti la giurisdizione «nelle materie di contabilità pubblica», non avvenne, invece, per opera del Parlamento, ma per l’intervento della Corte costituzionale, seguito dalla giurisprudenza della Corte di cassazione e della stessa Corte dei conti.

La Corte costituzionale dichiarò, con la sentenza 3 giugno 1966, n. 55, l’incostituzionalità dei Consigli di prefettura, che giudicavano in primo grado sulla responsabilità amministrativa e contabile degli amministratori e dei dipendenti dei Comuni e delle Province. La Corte dei conti, a sua volta, affermò, con la sentenza 22 agosto 1966, n. 1, che dopo la soppressione del Consiglio di prefettura, derivante dalla sentenza della Corte costituzionale, spettava alla Corte dei conti, quale giudice generale nelle materie di contabilità pubblica, la competenza a decidere sulla responsabilità degli amministratori e dipendenti comunali e provinciali; la giurisprudenza della Corte dei conti fu confermata dalle Sezioni unite della Corte di cassazione che affermarono, con la sentenza 20 luglio 1968, n. 2616:

Dichiarata l’illegittimità costituzionale dei Consigli di prefettura in sede di giurisdizione contabile (sent. Corte cost. n. 55 del 1966), delle controversie, già devolute a tali Consigli, deve conoscere, secondo l’attuale ordinamento, la Corte dei conti quale giudice di primo grado, con appello, avverso le sue decisioni, alle Sezioni riunite della Corte medesima.

L’attribuzione formale alla Corte dei conti della giurisdizione sulla responsabilità amministrativa e contabile degli amministratori e dei dipendenti degli enti locali fu disposta soltanto con la legge 8 giugno 1990, n. 142 (articolo 58), che estese a essi le disposizioni vigenti in materia di responsabilità degli impiegati civili dello Stato.

L’istituzione delle Regioni a statuto ordinario nel 1970 e l’ampio decentramento amministrativo, attuato con il d. p. r. 24 luglio 1977, n. 616 avevano inciso profondamente sull’amministrazione pubblica e imponevano profonde riforme.

Di questi problemi si fece carico l’allora ministro per la funzione pubblica M.S. Giannini che inviò alle Camere, il 16 novembre 1979, un Rapporto sui principali problemi dell’Amministrazione dello Stato, nel quale erano individuati i problemi e proposte le soluzioni ritenute necessarie per l’ammodernamento dell’Amministrazione.

Il Rapporto esaminò anche il sistema dei controlli, affidato dalla Costituzione alla Corte dei conti, osservando che esso era ancora impostato «sull’antiquata figura del controllo preventivo di legittimità», che doveva invece essere limitato ad alcuni atti di particolare importanza, ed essere sostituito dal controllo successivo sulla gestione dell’amministrazione. Il Rapporto segnalava, al riguardo, che la stessa Corte dei conti aveva sollecitato la revisione dei controlli.

Le indicazioni contenute nel «Rapporto Giannini» suscitarono un ampio dibattito, ma ottennero scarsi risultati poiché il Parlamento non le tradusse in testi legislativi. Le profonde trasformazioni della società italiana avvenute negli anni ’80 del Novecento, indussero tuttavia il Governo e il Parlamento a occuparsi della riforma dell’amministrazione pubblica. Il governo approvò perciò alla fine del 1989 un disegno di legge sulla riforma dei controlli della Corte dei conti sul quale l’Istituto diede il parere prescritto dal r. d. l. 9 febbraio 1939, n. 273. Nel parere, la Corte, dopo avere osservato che «un disegno riformatore che voglia adeguare il controllo alle esigenze di una moderna finanza pubblica (anche in connessione alle profonde trasformazioni che sono intervenute nella regolamentazione del bilancio e della gestione) abbia la strada obbligata del capovolgimento degli stessi schemi ideologici sui quali regge l’attuale assetto normativo del controllo che risale, come si sa, nella sostanza, alla seconda metà del secolo scorso», riconosceva che il controllo non doveva più privilegiare l’accertamento della legittimità formale del singolo atto, ma doveva essere indirizzato alla «verificazione dell’attività gestoria e dei suoi risultati in termini di regolarità e quindi di efficacia, di efficienza, di economicità; espressioni tutte che si ricollegano al canone del buon andamento previsto in Costituzione» (Corte dei conti, Sezioni riunite, Adunanze del 19 dicembre 1989-4 maggio 1990, parere n. 279/D).

La Corte, nel parere citato, si pronunziò perciò decisamente a favore della drastica limitazione del controllo preventivo di legittimità e a sostegno dell’introduzione del controllo successivo sulla gestione dell’amministrazione, capovolgendo l’impostazione della legge istitutiva del 1862, basata sul controllo preventivo di legittimità.

Il parere delle Sezioni riunite sollecitò il Parlamento a riformare, in modo organico, il controllo e la giurisdizione della Corte dei conti con le leggi n. 19 e 20 del 14 gennaio 1994. La legge n. 20 ha riformato l’esercizio della funzione di controllo, limitando il controllo preventivo di legittimità agli atti fondamentali della pubblica amministrazione ed estendendo il controllo successivo sulla gestione a tutte le amministrazioni, comprese le Regioni. La legge n. 19 ha decentrato la funzione giurisdizionale con l’istituzione di Sezioni giurisdizionali in ogni capoluogo di Regione con competenza nelle materie di contabilità pubblica e sulle pensioni dei dipendenti pubblici. Presso ciascuna Sezione è stato istituito un Procuratore regionale. La legge ha poi istituito al centro due Sezioni centrali con funzioni di giudici d’appello contro le sentenze emesse dalle Sezioni regionali.

Le leggi n. 19 e 20 del 1994 hanno esteso dunque il controllo della Corte alle Regioni e agli enti locali e hanno decentrato l’esercizio della giurisdizione, istituendo le Sezioni giurisdizionali in ciascun capoluogo di Regione. L’applicazione della legislazione citata ha incrementato l’attività giurisdizionale della Corte, dando a essa ampio risalto nell’opinione, pubblica. L’esercizio del controllo ha avuto anch’esso notevole impulso, tuttavia, non ha ottenuto i risultati previsti, poiché il Parlamento, nonostante i regolamenti della Camera (artt. 149 e 150) e del Senato (artt. 131 e 132) prevedano i procedimenti per l’esame delle relazioni, ha continuato a dimostrare scarso interesse per le relazioni della Corte dei conti che, come avveniva nel periodo liberale, non hanno avuto seguito con provvedimenti atti a eliminare le disfunzioni segnalate. Lo stesso disinteresse hanno dimostrato anche i consigli regionali, provinciali e comunali. Il Parlamento, in particolare, continua a sanare, con la legge di approvazione del rendiconto generale dello Stato, le eccedenze rilevate dalla Corte su diversi capitoli di spesa, senza accertare le eventuali responsabilità ministeriali.

La Corte dei conti fu istituita nel 1862 quale espressione del regime parlamentare, nel quale è connaturato il potere delle Camere elettive di controllare l’attività del governo. Le trasformazioni della costituzione materiale hanno profondamente modificato, nei fatti, il rapporto Corte-Parlamento poiché, indipendentemente dalle relazioni della Corte, si è affievolita la funzione parlamentare del controllo sul Governo. Leggi recenti (legge n. 244/2007 – legge finanziaria 2008) hanno introdotto disposizioni che attribuiscono alla Corte l’obbligo di riferire annualmente alle Camere «per il coordinamento della finanza pubblica», la relazione della Corte si estende perciò all’intera finanza pubblica: non solo il bilancio dello Stato, ma anche quello delle Regioni e degli enti locali, enti previdenziali e società partecipate. Le recenti disposizioni aprono nuovi orizzonti nel rapporto Corte-Parlamento, a condizione però che le Camere dedichino un’attenzione rinnovata alle segnalazioni della Corte.

Bibliografia

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Brano tratto dal "Dizionario del liberalismo italiano", edito da Rubbettino Editore. Clicca qui per acquistarlo con il 15% di sconto