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Codificazione

di Pier Giuseppe Monateri

L’idea di Codice

L’idea moderna di Codice nasce come ideale del potere assoluto. I primi progetti risalgono al XVIII secolo e furono quelli prussiano e austriaco. Come tale l’idea della codificazione moderna deve quindi essere inquadrata nell’utopismo politico della seconda metà del ’700 come ideale della messa in ordine razionale della società civile in tutti i suoi rapporti. La vicenda successiva della Rivoluzione francese con la nascita del Code Napoleon come fenomeno di immensa rilevanza mondiale deve anch’essa venire inquadrata in tal modo per evitare che oscuri e falsi la nostra prospettiva di senso storico.

 In tal modo la codificazione ci si presenta come l’escarnazione dello Stato nel campo della società civile, che viene però nel contempo creato come tale, cioè come separato dalla società politica. Il movimento è allora duplice: il costituirsi e il concentrarsi della dimensione politica nella sovranità assoluta si escarna anche nella creazione di una corrispondente società civile come società universale sopra un determinato territorio di potestà politica, contro ogni particolarismo di luogo o di ceto, e contro ogni sopravvivenza di un passato in cui i rapporti privati e pubblici rimanevano commisti e inestricabili.

 La codificazione è un’opera di chiarezza e di costruttivismo cartesiano, sia essa voluta dal potere assoluto o da quello rivoluzionario. L’elemento utopico della codificazione consiste proprio nella distruzione programmata dei rapporti concreti preesistenti e consistenti nelle autonomie e nella forza dei ceti, delle municipalità, delle diverse regioni a diritto consuetudinario o a diritto scritto, a favore di una ri-creazione politica generale e sovrana mediante la quale si procede alla determinazione della società civile a sfera personale della potestà dello Stato, nel momento stesso in cui però le si concedono diritti e autonomie dallo Stato stesso.

La vicenda della codificazione rappresenta quindi una fase culminante della chiusura politica di un popolo su un determinato territorio reso omogeneo. Ma rappresenta anche una variegata e ambigua scissione interna di tale popolo, laddove il dominio della società civile, in quanto separata da quella politica, diviene al tempo stesso garantito dallo Stato, ma anche campo della sua legislazione.

 In questo senso le formulazioni giuridiche consuete secondo cui la legge è la dichiarazione della volontà dello Stato, e la circostanza formale per cui i codici sono una legge, assumono le loro caratteristiche concrete, rispetto a un’epoca anteriore in cui raramente il diritto era espressione di una volontà, e in particolare di una volontà statale, e hanno trasformato il concetto stesso di legge, da quello di norma generale costitutiva del mondo, a quello di atto politico di sovranità interna. Una ulteriore ambivalenza originaria della codificazione moderna deriva dal fatto che in pratica nessuno dei progetti si astenne dal recepire le proprie categorie, e la gran parte delle proprie regole, dal preesistente diritto romano anche se i codici dovevano rappresentare una nuova era del diritto.

 Tali caratteristiche aurorali della codificazione ne determinano le ambiguità e il destino. I codici, infatti, non sono riusciti a segnare una reale cesura nella tradizione giuridica, hanno potuto essere sia liberali che socialisti, e sono entrati in crisi con la fine del cosiddetto «territorio giacobino», che è in realtà il territorio della reale sovranità politica spazialmente delimitata.

 

La vicenda moderna della codificazione

La vicenda moderna della codificazione si apre con lo sforzo di Federico Guglielmo I per la unificazione organizzativa e legislativa dei territori brandeburghesi mediante l’Editto del 1713. La direzione dell’impresa fu affidata al Thomasius e poi assunta direttamente da Federico il Grande, quasi a comportarsi da scolaro di Voltaire e di Montesquieu, con la collaborazione determinante del suo Cancelliere Samuel Cocceij, il quale concepì un intero Corpus Iuris Fridericianum prendendo a modello la legislazione di Giustiniano. Nel 1787 il progetto fu portato a conoscenza del pubblico tedesco e di tutta Europa, sollecitando vari suggerimenti, che giunsero dalle maggiori personalità dell’epoca, ivi compreso Goethe, alcuni dei quali di natura palesemente utopistica: si pensi alla proposta di introdurre la poligamia per salvaguardare la donna dal danno delle troppe gravidanze.

Le reazioni politiche e teologiche furono però anche notevolmente critiche, specie contro il concetto che si voleva introdurre di «ceto dei cittadini» che in qualche modo anticipava formule della rivoluzione e che tendeva a distruggere gli ordinamenti concreti allora vigenti. Federico Guglielmo II rinviò sine die l’entrata in vigore del progetto, e nel 1794 fu introdotto solo l’ordinamento territoriale delle terre prussiane che rimase in vigore fino al 1900 (Allgemeine Landrecht, noto con la sigla Alr).

 L’elemento chiave di questo ordinamento legislativo fu invero la proibizione di ogni sorta di rielaborazione interpretativa, onde il chiarimento dei dubbi ermeneutici doveva essere affidato a una «Commissione legislativa» e non ai giudici. Per quanto riguarda i contenuti, il sistema del Landrecht prevedeva soprattutto un insieme di norme sul patrimonio privato e sui modi di trasferimento della proprietà e includeva però anche i diritti dei diversi ceti nello Stato e i doveri dello Stato nei confronti dei cittadini, ciò che oggi sarebbe materia di diritto costituzionale e di diritto amministrativo. La debolezza del progetto si palesa nel fatto che l’Alr si rivelava il codice di una società né borghese rivoluzionaria, né aristocratico restaurativa, e come tale fu immediatamente superato dagli eventi storici, e fu bollato come un insuccesso dalla Scuola storica d’inizio ’800 di von Savigny.

 Nel medesimo volgere di tempo uno sviluppo in qualche modo analogo si ebbe in Austria ad iniziativa della stessa Maria Teresa e poi di Giuseppe II, mirante a tenere insieme per via legislativa una congerie di Paesi e di popoli che s’era venuta costituendo in modo affatto arbitrario. Con Leopoldo II i lavori proseguirono sotto la guida di un grande giusnaturalista Carl Anton von Martini, ma non furono brevi, a testimonianza dell’impegno e delle discussioni che sorsero. Il suo progetto fu, infine, ripreso dal von Zeiller, scolaro dell’etica formale kantiana della libertà, e fu portato a compimento, dopo essere stato respinto per tre volte, solo con la promulgazione del 1 giugno 1811, ricevendo il nome di Codice civile generale per i territori ereditari di lingua tedesca (Abgb), successivamente esteso agli altri territori, e tutt’ora in vigore in Austria.

 Rispetto all’Alr il codice austriaco rinunciò fin da principio a includere norme di diritto pubblico per essere un codice semplicemente «civile» (Buergerliches) composto da 1.502 paragrafi divisi in tre parti: Diritti delle persone; diritti di proprietà; norme sulla creazione, modificazione ed estinzione dei diritti. Il codice si caratterizza soprattutto per l’esclusione rigorosa delle norme consuetudinarie e rappresenta quindi la legificazione completa dell’ambito delle relazioni private. La sua possibile influenza internazionale, e quindi anche il suo posto nella storia, fu però sopravanzato dal successo avuto in tutto il mondo dal Code civil francese.

 Uno dei fini più importanti perseguiti dalla Rivoluzione fu, infatti, fin dagli inizi l’unificazione del diritto. La stessa Assemblea costituente aveva proclamato: «sarà fatto un codice delle leggi civili comuni a tutto il regno». Un primo progetto fu terminato nel 1793 a opera di Cambaceres e articolato in 697 articoli. Il progetto fu respinto perché troppo vasto e complicato e non sufficientemente «filosofico». L’anno successivo Cambaceres presentò un progetto in 297 articoli, che fu rigettato perché troppo laconico e lapidario. Le discussioni sul terzo progetto furono interrotte dalla presa di potere di Napoleone Bonaparte. Il Primo console riprese l’idea della codificazione da sottoporre a un Tribunato di cui faceva parte anche Benjamin Constant. Quest’organo rifiutò di approvarlo. Il progetto fu ritirato ma i Tribuni vennero epurati e Constant fuggì in esilio. Quando Napoleone chiese nuovamente l’approvazione nel 1803 non vi fu più alcuna resistenza. La sua partecipazione, d’altronde, fu attiva e determinante: delle 102 sedute di discussione di fronte al Consiglio di Stato, 57 furono da lui stesso presiedute, e la legge finale del 31 marzo 1804 promulgò così il Code civil des francais.

 Il diritto del codice francese è compiutamente antifeudale. La tipicità e assolutezza dei diritti di proprietà sono concepiti in modo antitetico alle concessioni feudali. Il diritto di famiglia è teso a spezzare i grandi patrimoni: parità ereditaria, divieto di maggiorasco, dei patti successori e dei fedecommessi, riconoscimento delle pretese dei figli naturali.

 Certe caratteristiche del Codice si spiegano solo con l’azione politica dello Stato: basti pensare alla folla di disposizioni che si occupano della nascita, della morte e del domicilio delle persone: lì si vede una logica politica che cerca di imporre lo Stato civile contro il vecchio monopolio ecclesiastico delle registrazioni relative alle persone fisiche.

 Il diritto francese è un diritto contro: è la logica politica più che la logica astratta che lo tiene insieme. Anche il favore accordato al debitore, nella sostanza come nella procedura, recepita ancora dai codici italiani attuali, deriva dal fatto che il «ceto» dei possibili debitori era in realtà costituito dai piccoli proprietari, ossatura dell’influenza politica dei napoleonidi contro il capitale finanziario orleanista, o i grandi proprietari di fedeltà borbonica. Nondimeno il codice francese per la plasticità dei suoi principi, e l’afflato liberale che lo anima, è stato imitato in società diversissime, dall’Italia alla Spagna, dal Sudamerica all’Est Europa, dal Medio oriente al Nordafrica e al Sud Est Asiatico. Come tale è il codice di maggior successo, e i Paesi che in qualche modo si reggono sul suo sistema costituiscono ancor oggi la stragrande maggioranza delle nazioni del mondo.

 

Il rifiuto della codificazione e gli sviluppi tedeschi

 Il codice francese è stato però anche rifiutato. Ciò è avvenuto, non senza discussioni pro o contro, sia in Inghilterra, a favore delle vecchie strutture del Common Law, sia in Germania, a favore di sviluppi del tutto nuovi e importanti.

 In questa vicenda è importante notare anche quanto accadde in America. Infatti l’ideale repubblicano, e l’aiuto concreto concesso dalla Francia alla guerra di indipendenza, avevano fatto prevalere in modo naturale un sentimento favorevole alla codificazione. La Louisiana adottò nel 1808 un codice a modello francese ancor oggi in vigore. Nel 1811, Bentham offrì i propri servigi al presidente Madison per donare un codice agli Stati Uniti. La Commissione legislativa del Massachussettes chiese nel 1836 l’adozione di un codice; la stessa Costituzione dello Stato di New York del 1846 prevede la promulgazione di un codice scritto e sistematico, e così via, tant’è che nel 1856 sir Henry Maine previde il fatale inglobamento degli Stati Uniti nella famiglia giuridica romanista. Tutto ciò poi non avvenne: l’ondata codificazionista si estinse, e gli Stati Uniti rimasero un paese di Common Law; la Corte suprema federale assunse un ruolo guida, e si sviluppò un insegnamento universitario del diritto in forme e modi indipendenti da quelli europei. Oggi, in numerosi Stati esistono dei Codici, ma con questo termine si designa la raccolta in più volumi delle leggi principali. A livello federale si registra la fondamentale importanza dello Uniform Commercial Code, ma il suo stile e la sua tecnica non hanno nulla a che fare con il modello della codificazione europea.

 Ricordiamo che il movimento della codificazione partiva da basi utopiche e territoriali al tempo stesso: unificare legislativamente un determinato spazio politico in quanto territorio giuridicamente organizzato (un vero e proprio Nomos), sulla base della possibilità di porre in ordine razionale, mediante la legge, i rapporti intersoggettivi inerenti a tale spazio. A volte ciò è stato realizzato dal potere sovrano, altre volte da quello rivoluzionario, anch’esso però riorganizzato in forte potere sovrano imperiale, in funzione antifeudale e anti teologica. Il capitolo della codificazione fa quindi compiutamente parte del capitolo della secolarizzazione e della modernizzazione che hanno investito l’Europa, ed è un capitolo realizzato in gran parte nell’800 ma che trae la propria linfa dalle idee del ’700. Rispetto a ciò occorre però pur notare che la terra europea più investita dalla modernizzazione capitalista, l’Inghilterra, rimase invece legata al Common Law, cioè in sostanza alle strutture giuridiche dell’Ancien Regime: giudici di nomina regia, marginalizzazione della legge parlamentare, assenza di sistematica delle leggi civili, in distinzione tra diritto privato e diritto amministrativo, sviluppo del diritto sulla base dei precedenti e delle rationes indipendenti del ceto dei giuristi. Fa parte della contingenza della storia che proprio tale diritto abbia saputo adattarsi alle strutture americane, che ovviamente all’inizio guardavano con simpatia a quelle utopico-continentali. Tutto ciò che qui possiamo notare è che modernizzazione capitalista e codificazione non vanno necessariamente insieme, anzi possono ben vivere destini separati.

 Di grande rilevanza è stato, inoltre, il rifiuto della codificazione francese avvenuto in Germania. Ciò ha comportato una visione completamente alternativa del diritto, che si è sviluppata a partire dal dibattito di inizio Ottocento fra Thibaut (favorevole alla codificazione) e Savigny (contrario). Infatti, il rifiuto della codificazione alla francese, ma si potrebbe altrettanto dire alla austriaca, portò Savigny a elaborare una teoria del diritto come ordine spontaneo storico, cioè come ordine concreto che il legislatore non crea ma trova già di fronte a sé formato, non in quanto fondato su valori universali, ma in quanto plasmato nell’esperienza storica che in quanto tale è unica, localizzata e irripetibile. Il diritto in qualche misura è simile al linguaggio: si forma ed evolve senza che un singolo gruppo di menti possa progettarlo o dirigerlo nella sua interezza, varia da luogo a luogo e non corrisponde mai compiutamente alla logica astratta.

 Tale teorica del Savigny è di estrema rilevanza in quanto fu ripresa dagli stessi ideologi inglesi del Common Law, ed è stata ripresa come teoria generale in ambito liberale da Frederich von Hayek, con importanti implicazioni dal punto di vista liberale sui limiti alla legislazione e all’intervento statale nel diritto, onde lo Stato stesso più che il creatore e il custode del diritto appare una delle singole organizzazioni umane, al pari delle società per azioni, che si muovono all’interno dell’ordine generale del diritto, che è quindi un modello culturale da cui siamo governati più di quanto noi stessi siamo in grado di dirigere e governare.

 Rispetto alla codificazione il liberalismo ha quindi prodotto i due maggiori costrutti opposti: tanto l’idea stessa di codificazione come messa in ordine di chiarezza dei diritti, del loro contenuto, e delle loro modalità di disposizione, quanto l’idea contraria dei limiti della legislazione e della stessa manipolabilità del diritto.

 Una tale ideologia del diritto privato come ordine generale della società, che depassa il legislativo, necessita di essere indagata anche nei suoi sviluppi che prescindono dal liberalismo politico. Infatti se il diritto non è nella sua interezza progettabile razionalmente dal legislatore ciò significa che in qualche modo esso vive nello Spirito dell’esistenza storica in quanto condizione di esistenza sospesa tra annichilimento ed autoaffermazione, secondo moduli di convivenza che si basano sulla differenziazione delle civilità. Evidentemente questo Volksgeist deve trovare un qualche interprete che cerchi di verbalizzarlo per rivelarne il contenuto in sé comunque sempre sfuggente, nel senso che nel suo fondo sfugge a un tentativo compiuto di formulazione verbale esaustiva.

 In sostanza non solo tra la norma e la sua applicazione si spalanca un abisso impassabile (Carl Schmitt) ma la stessa norma emerge come alcunché di preverbale mai compiutamente verbalizzato, rispetto alla quale si può semplicemente cercare di rimanere nell’ascolto. Il diritto riposa quindi sull’abissalità stessa dell’esistenza storica in quanto sia compiutamente politica, cioè legata alle condizioni dell’annichilimento e dell’affermazione, ovvero sul rapporto amico/nemico, ben al di là della riduzione della politica al management razionale delle decisioni esplicite sull’uso alternativo delle risorse pubbliche.

 Tutto ciò non dischiude solo una teoria del diritto, ma una ontologia del diritto, almeno finché l’esistenza si trovi nelle condizioni della storia in quanto al tempo stesso contingenza, localizzazione e struttura dell’essere. Dal mero punto di vista della storia delle idee si deve quindi registrare come a un liberalismo della codificazione si sia contrapposto un liberalismo della non codificazione, che contiente un lato esoterico, che supera compiutamente l’orizzonte meramente liberale, specie in quanto questo venga poi oggi a esaurirsi in quello che per Hayek ne è l’opposto, cioè il costruttivismo razionalista.

 Dal punto di vista della storia giuridica concreta va poi ricordato anche quanto segue. Savigny trovò l’interprete del Volksgeist nel Professoriat dei giuristi tedeschi, dando origine a uno Juristenrecht che si sviluppò come teoria scientifica raffinata per tutto l’800 procedendo a una rielaborazione dei concetti romani fino all’emanazione a sua volta di un Codice civile il Buergerliches Gesetzbuch Bgb del 1900. Ciò implicò una visione dell’attività accademica come attività collettiva del Professoriat quale organo della nazione tedesca indirizzato alla stessa produzione normativa, ben al di là della semplicistica distinzione tra giudici e legislatore nel campo delle fonti di produzione del diritto. In modo del tutto sorprendente il giurista accademico romanista tedesco divenne l’interprete dello spirito popolare, nell’edificazione di un diritto volutamente locale e particolare, che si esprime però attraverso concetti scientifici che pretendono una validità sistematica universale. Un costrutto teorico talmente singolare per cui si può dire che con esso neanche oggi si è ancora riusciti a fare compiutamente i conti. Si tratta di una costruzione teorica talmente influente che l’intera Teoria pura del diritto di Kelsen non ha cercato di essere altro che una rivolta contro di essa. Cioè l’edificazione della stessa teoria generale del diritto a modello europeo non è stata altro, storicamente, che una delle ultime reazioni al dibattito suscitato dalla grande novità della codificazione moderna.

 Fa, ovviamente, parte del lato incredibile della storia delle idee che la stragrande maggioranza dei giuristi italiani ed europei abbia accettato nel contempo tanto l’impostazione di Savigny quanto il positivismo giuridico di Kelsen.

 

Bibliografia

David R., Jauffret-Spinosi C., Les grands systèemes de droit contemporains, Dalloz, Paris 1992; Gambaro A., Codice civile,in Digesto Italiano, Utet, Torino 1988; Irti N., L’età della decodificazione, Giuffré, Milano 1989; Tarello G., Codificazione, in Digesto Italiano, Utet, Torino 1988; Id., Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e codificazione del diritto, il Mulino, Bologna 1998; Van den Berg P., The Politics of European Codification, Europa Law Publishing, Groningen 2007; Wiacker F., Storia del Diritto privato moderno, Giuffré, Milano 1980.

Brano tratto dal "Dizionario del liberalismo italiano", edito da Rubbettino Editore. Clicca qui per acquistarlo con il 15% di sconto