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Chiesa-Stato

di Giovanni B. Varnier

L’«eresia liberale» e la ben regolata libertà

Da sempre (dunque anche nello Stato contemporaneo di modello liberal-democratico), le questioni dei rapporti della Chiesa cattolica con la società civile sono improntate in un’ottica tomista; questo anche nei periodi storici che precedettero la riproposizione da parte di Leone XIII del pensiero dell’Aquinate. Pertanto, per la dottrina cattolica la libertà sociale e politica appartiene a quel quadro di libertà che costituiscono la manifestazione d’indipendenza che l’uomo rivendica per le proprie azioni e, alla luce del tomismo, non manca chi sostiene che l’essenza del liberalismo è cristiana; questo perché le immediate applicazioni pratiche del principio di libertà sono le libertà politiche (individuali, di pensiero e di stampa, di insegnamento e di culto), che trovano la compiuta espressione nello Stato democratico, ossia in quello Stato che riconosce a tutti i cittadini il diritto di partecipare mediante rappresentanti al governo della cosa pubblica. In questo contesto la Chiesa colloca la libertas Ecclesiae come libertà di cui essa deve godere nell’ambito temporale affinché, senza impedimenti, possa svolgere la propria missione. Qui però incomincia il primo equivoco, perché, sebbene le caratteristiche fondamentali dell’ordinamento canonico siano consolidate e immutabili nella loro essenza (e per questo dovrebbero essere note), oggi si tende ad applicare alla Chiesa i modelli dello Stato democratico, mentre invece occorre sottolineare che essa si muove su di un piano diverso rispetto a quello della società civile e segue un percorso differente e riconducibile, per qualche tratto, all’ormai dimenticato Stato assoluto. La Chiesa agisce attraverso registri diversi rispetto a quelli della società civile e solo il ricorso all’assolutismo del principe può meglio aiutare a capire la suprema auctoritate Romani Pontificis. Quindi, se una persona intende essere fedele al magistero deve accettare il principio di autorità ecclesiastica nella sua struttura assoluta e, pertanto, applicare la norma canonica in sede civile (confrontandosi quindi con i diritti di libertà) vuol dire subordinare tutto al diritto divino, il quale ha valore immutabile nel perseguimento del fine supremo di un bene oltramondano, che consiste nella salus animarum.

La libertà è valida unicamente entro i limiti della verità, al di fuori di questa non si deve riconoscere spazio all’errore; ciò perché non è giusto attribuire gli stessi diritti al bene e al male. Ne consegue che lo Stato non solo ha l’obbligo di garantire la completa libertà delle manifestazioni religiose dei cittadini, ma di favorirne con i mezzi di sua competenza l’azione, quale fattore di elevazione spirituale delle singole persone e della nazione nel suo complesso. In considerazione poi del fatto che nell’ordinamento canonico non esiste il diritto di manifestare pubblicamente l’errore, i diritti spettano unicamente alla verità, che ovviamente non può che essere quella espressa dalla religione cattolica. Come si può leggere nell’Enciclopedia cattolica, alla voce Libertà politiche «Lo Stato non deve “ignorare”, con la scusa della libertà, la religione dei cittadini; anzi deve vigilare, nella legislazione e nel governo, a non far nulla che possa violare la loro coscienza, come avviene quando pretende di imporre il matrimonio civile quale vero matrimonio ai cattolici, mentre per essi è dogma di fede che vero matrimonio è solo il Sacramento» [vol. VII, col. 1293].

A questo punto è facile enucleare ciò che la Chiesa cattolica ebbe a definire come la «eresia liberale», originatasi già ad Anagni con l’infrangersi a opera di Filippo il Bello del disegno teocratico di Bonifacio VIII; evento da cui discesero una serie di mali che, attraverso Avignone, la Riforma luterana, il razionalismo protestante tedesco, il filosofismo francese, furono destinati a sfociare nella Rivoluzione del 1789. Dunque, il liberalismo, formula sotto la quale tutto può rientrare (indifferentismo in materia religiosa e ateismo, relativismo e sincretismo, socialismo e collettivismo, anarchia ed eclettismo), con la sostanziale parificazione della verità all’errore di cui si è detto, avrebbe alimentato una serie di principi erronei, fino al marxismo e al libertinismo, all’individualismo radicale e all’agnosticismo, come pure a un vago misticismo religioso.

Dunque la condanna del cattolicesimo liberale è legata al fatto che la libertà politica è rivoluzionaria e perciò tale da risultare sempre ostacolata dalla Chiesa. Fu la sfiducia nelle risorse dell’individuo (respingendo la concezione dell’autodeterminazione del singolo che superiorem non recognoscens e il primato della volontà della nazione e delle sue capacità di governarsi in modo autonomo) a portare alle condanne dei liberali, per i quali fu vicina l’assimilazione a quelli che la morale cattolica definisce i «liberi pensatori» (nome con i quali vennero indicati tutti coloro, che – rifiutando qualsiasi rivelazione o definizione di verità religiose o morali – rivendicano alle capacità razionali una assoluta emancipazione dalla Rivelazione divina).

Dall’età della Restaurazione al proto Risorgimento cristiano

Negli anni della Restaurazione la valutazione degli eventi rivoluzionari e, in particolare, il riconoscimento della sovranità nazionale divisero il pensiero cattolico tra intransigenti e cattolico liberali; ma se le istanze liberali e costituzionali furono destinate a essere la base delle rivoluzioni dell’800 e del moto di unificazione nazionale, in un primo momento prevalsero le correnti legittimiste, schierate in difesa di una società arcaica, precapitalistica e rurale, ostile all’urbanesimo e allo sviluppo industriale. Alimentata dal romanticismo fu viva la nostalgia di una «cristianità» protettrice della fede e volta alla restaurazione dell’autorità e alla ricerca di sicurezze dottrinali e di garanzie istituzionali; il principio gerarchico fu difeso contro l’egualitarismo giacobino e contro il laicismo si propugnò l’unione mistica del re con i sudditi. In un romanticismo dalle connotazioni pseudo-ascetiche, si prospettò il ritorno al messaggio cristiano, esaltando (in contrapposizione al frazionamento protestante) la comunità unita rappresentata dalla Chiesa cattolica e alla ragione si oppose la tradizione, sulla base di una gerarchia che trasmette l’autorità da Dio al sovrano.

Seguendo queste linee di pensiero, la prima condanna, espressa in modo netto da parte del magistero nei confronti delle libertà umane fondate sulle nuove ideologie filosofiche e politiche e volta a respingere l’affermazione della libertà religiosa e di coscienza e di culto, si può rinvenire nell’enciclica Mirari vos di Gregorio XVI del 15 agosto 1832. Sciogliendo il nodo dell’equivoco liberale, il pontefice, stigmatizzando con durezza i princìpi del liberalismo religioso e politico, perseguì l’intento di operare una integrale restaurazione delle libertà religiose e civili del papato: libertà e indipendenza da rivendicarsi sia di fronte alle residue sopraffazioni cesaropapiste delle monarchie di diritto divino, come nei riguardi delle insorgenti pretese giurisdizionalistiche del liberalismo illuministico e laicista.

Questo indirizzo non fu privo di risvolti concreti, perché (già dal primo indebolirsi della sovranità temporale) prese corpo il fenomeno del centralismo romano e dell’attaccamento dei fedeli alla figura del pontefice (si pensi a quella capillare, anche se più tarda, operazione finanziaria che fu la raccolta dell’obolo di San Pietro), che costituì una costante della politica curiale romana fino al Concilio Vaticano II.

Il costituzionalismo ottocentesco e le sfide che la democrazia pone alla Chiesa

La storia italiana è così intrecciata con quella della Chiesa e da essa condizionata, da potersi affermare che la storia contemporanea dei rapporti fra società civile e società religiosa costituisca una notevole parte della storia dello Stato italiano e, soprattutto, una parte che non è possibile ignorare senza perdere il senso dell’orientamento. Una storia che non si può capire escludendo le lacerazioni prodotte nel tessuto nazionale dalle vicende attraverso le quali si realizzò il moto unitario, cioè contro il potere del papato ma anche contro la religione degli italiani. Se liberale, inteso come generoso, individuò chi politicamente si contrappose all’autoritarismo napoleonico, con l’affermarsi del Risorgimento l’espressione assunse la connotazione di ostile alla Chiesa e nemico del potere temporale del pontefice, mentre la confusione tra dominio spirituale e dominio terreno fece sì che la maggior parte degli abitanti dello Stato della Chiesa videro nel Papa più il sovrano che la massimaautorità religiosa della cattolicità.

Come è noto gli anni tra il 1846 e il 1848 costituirono un laboratorio critico sia di pensiero che di azione tra sostenitori dell’antico regime e portatori di istanze innovatrici e se lo scontro vide la sconfitta dei tentativi di mediazione tra Chiesa cattolica e mondo moderno, anche ai nostalgici fu chiaro che la Rivoluzione del 1789 non avrebbe cessato di produrre una serie di ripercussioni a cui occorreva fare fronte. Dall’astratto universalismo razionalistico dell’età dei lumi, la predominanza del sentimento, propria dell’età del romanticismo, portò alla elaborazione dell’idea di nazione, con l’estensione delle libertà per gli uomini alla libertà per le nazioni: gli individui non possono essere liberi se la nazione non è libera e tra la libertà degli individui c’è anche quella religiosa sia individuale che collettiva (sebbene l’espansione dei diritti del soggetto vada a discapito della dimensione collettiva). Da ciò consegue che la libertà delle confessioni religiose si può esercitare solo nella sfera privata, questo in base al principio giacobino dello Stato come primo etico e unica realtà in cui la nazione deve identificarsi.Tuttavia tale visione si scontra con le teorie che vedono la Chiesa come ordinamento giuridico primario, ordinamento che pertanto dovrà essere combattuto e ricondotto nel privato.

Sappiamo che, con il superamento del principio cuius regio eius religio (che risale alla pace di Westfalia del 1648 e che si afferma con lo Stato assoluto, prosegue con lo Stato nazionale e arriva allo Stato etico, determinando anche il modello di Stato laico neutro) siamo alla svolta decisiva, per cui lo Stato agisce nella sfera pubblica e le Chiese in quella privata: questa è la sola possibilità per consentire a esse di essere libere all’interno dello Stato nazionale. Pertanto, già dal 1848, la classe dirigente sabauda, grazie alla flessibilità dello Statuto albertino, tentò di costruire un sistema di separazione, tale da relegare il principio confessionista, proclamato nello Statuto, in una posizione essenzialmente simbolica. Dunque, nell’età liberale lo Stato afferma di voler essere laico e di rispondere a un concetto monistico, opposto al dualismo cristiano, disconoscendo le formazioni sociali, tra cui le confessioni religiose. A tale scopo persegue una linea separatista ma in questo modo finisce col compiere una politica anticlericale, abolendo ogni riconoscimento all’ordinamento della Chiesa e alle sue istituzioni.

Venutosi a rovesciare il fondamento del potere sovrano (dalla «grazia di Dio» alla «volontà della Nazione»), contestualmente – poiché il potere religioso non è più necessario al potere civile – si innescò un processo di laicizzazione normativo volto a cancellare i privilegi ecclesiastici e a inquadrare le istituzioni della Chiesa nel diritto comune, mentre a seguito della nascita del concetto di nazione si affermò il principio che tutto le appartiene, compreso la vita dei cittadini e anche i beni ecclesiastici.

Volendo richiamare i momenti più significativi di questo processo (che per l’Italia prese avvio nel 1848 e si esaurì con la legge Crispi del 1890 sulle opere pie) si possono seguire le condanne della Chiesa che tesero a minare il fondamento stesso del potere statuale. Non ci fu quindi spazio per il cattolicesimo liberale, mentre il peso della Questione romana divise ulteriormente gli animi, tenendo lontani i cattolici dal voto politico. Quello italiano fu dunque un liberalismo dai tratti tendenzialmente statalista, che dovette scontrarsi con le pretese di esclusività di altri soggetti come la Chiesa e il separatismo, per realizzarsi in modo concreto ed eliminare l’influenza religiosa dalla sfera pubblica, finì con l’escludere ogni elemento che, in nome dei due principi di libertà e di eguaglianza, potesse frapporsi nel diretto rapporto tra Stato e cittadino. Contemporaneamente, la monarchia risorgimentale (prodotto della rivoluzione e frutto della fusione delle istanze unitarie con l’esigenza di salvare il trono e di radicarsi a Roma) avrebbe dovuto distruggere il papato. Quindi in Italia il separatismo non si è mai concretato (la cancellazione delle incapacità personali e reali per i culti tollerati si ebbe in modo completo solo a partire dal 20 settembre 1870, una data che le minoranze religiose non hanno mai festeggiato in questa dimensione); semmai ci furono momenti di indifferentismo religioso, uniti ad altri di autentico anticlericalismo, e le istanze separatiste si scontrarono nel tempo, prima con il neogiurisdizionalismo liberale, poi con la conciliazione nazionale dei poteri come esito della Grande guerra e, come terzo momento, con il principio costituzionale di collaborazione dello Stato con le confessioni religiose. In particolare, il cosiddetto giurisdizionalismo liberale o neogiurisdizionalismo italiano, anziché realizzare la libera Chiesa in libero Stato, attuò il sistema della Chiesa sorvegliata dallo Stato, anche perché, di fronte alla ripresa della vita religiosa dell’Ottocento, si reputò che la Chiesa fosse ancora troppo forte per una completa libertà.

Il cattolicesimo liberale e il fondamento cristiano della nazione: costruire lo Stato e riformare la Chiesa

Dunque, se dal secondo Ottocento il sostegno della Chiesa non può più essere di utilità nel governo dello Stato moderno, il cattolicesimo è inquadrato come un culto tutto interiore, che ha cessato di pretendere di animare la società e di essere la forma immanente che deve foggiare il popolo. Il mutamento di prospettiva attribuì al Risorgimento (che fu realizzato rifiutando la tradizione cattolica e costruito attorno al mito della terza Roma e del positivismo della scienza e della religione della Patria) un diverso percorso, il quale determinò la persecuzione religiosa del neoguelfismo, la messa al bando delle istanze federali e la lotta religiosa contro la democrazia liberale.

In quel quadro, di fronte alla crescente discrasia tra società civile e società religiosa, diversi fedeli commisero l’errore di voler riformare la Chiesa, mentre per quest’ultima è il mondo che deve essere riformato alla luce del messaggio cristiano. Infatti, da parte dei neoguelfi la prospettiva unitaria si legava all’ipotesi di un rinnovamento delle strutture ecclesiastiche in senso democratico e di un possibile superamento del dogma.

Come sappiamo, il cattolicesimo liberale, in base al principio: «cattolici con il Papa liberali con lo Statuto», si propose di conciliare fede e religione cattolica con gli esiti di un processo storico reputato irreversibile e di avvicinare la Santa Sede all’Italia per completare, alla luce delle libertà statutarie, l’unità politica con l’unità morale. Questo dopo che, con l’avvento della monarchia costituzionale basata sul liberalismo politico e il separatismo, si intravide la possibilità di esercitare da parte della Chiesa una influenza dal basso, agendo in una società libera dai vincoli imposti dai sistemi politici di antico regime. Così la formula: «libera Chiesa in libero Stato» o quella da altri affermata di: «libera Chiesa e libero Stato», promise alla Chiesa una libertà di cui non aveva mai goduto, assicurando il superamento dello schema illuministico della religione nemica del progresso.

In un contesto in cui i governanti traggono la loro legittimità dal suffragio popolare e non dall’investitura dei prìncipi e questi per essere tali si appellano alla volontà della nazione anziché alla grazia di Dio, assunse valore la nazione cristiana, nel presupposto che l’unità della fede costituisse una garanzia per il conseguimento dell’unità politica. Così per Silvio Pellico la libertà nazionale non fu questione di baionette ma di verità e qualora gli italiani avessero vissuto la verità sarebbero stati intimamente liberi e avrebbero potuto usare delle baionette senza timore di restare servi delle proprie armi. Ricordiamo poi il caso di Antonio Rosmini Serbati, che nella sua opera più nota Delle cinque piaghe della S. Chiesa, denunciò le contrapposizioni dovute a quell’intreccio tra realtà spirituali e potere temporale, che oscurava la missione della Chiesa e rendeva i fedeli laici lontani dalla vita reale della comunità cristiana. La nazione nasce prima dello Stato, la comunità di cultura e di destini si afferma in anticipo rispetto al processo unitario e l’equivoco di Vincenzo Gioberti scaturì dal fatto che mancando lo Stato, egli vide nel cattolicesimo il fondamento per realizzare l’unità. Equivoco di fondo che assume una valenza di ordine generale e risale alle parole del pontefice del 10 febbraio 1848: «Benedite, gran Dio, l’Italia», con la quale non si chiedeva di benedire l’Italia in quanto patria di tutti gli italiani – come l’intesero i neoguelfi – ma perché ospitava il cuore della cristianità.

Nella visione conciliatorista il separatismo liberale non fu niente altro che il logico sviluppo di quel dualismo agostiniano che aveva retto l’organizzazione politica medioevale; una distinzione tra le due civitas, che annullerebbe il potere temporale dei papi, la cui perdita sarebbe da considerare una fortuna per la Chiesa, che in tal modo avrebbe potuto tentare una conciliazione con la nuova Italia. Ma l’identità tra religione e nazione si ruppe quando Pio IX si avvide che se il papato si fosse fatto interprete dello spirito nazionale italiano e, assecondando il mito neoguelfo, si fosse posto alla guida del moto risorgimentale avrebbe perduto la propria universalità.

Resta da aggiungere che, riflettendo sulla validità della visione separatista nei rapporti tra Stato e Chiesa nel nostro ordinamento segnato da storiche anomalie, è necessario osservare che nelle opere di autori allora di primo piano nel dibattito politico e culturale come Rosmini e Gioberti, si ebbe in mente la realtà che detti autori conoscevano, piuttosto che il quadro italiano nell’intero complesso. Il nostro Paese fu piuttosto condizionato dal giurisdizionalismo e dal lascito di autori come Pietro Giannone, che lesse le vicende del regno di Napoli sotto il profilo della lotta tra Chiesa e Stato, come lotta tra oscurantismo e progresso, laddove la Chiesa cattolica come istituzione temporale, con i suoi organi e i suoi ministri deve essere sottoposta al potere statuale.

L’anticlericalismo al potere e la duttilità della Chiesa di Roma nel travaglio della modernità

Le vicende attraverso le quali si realizzò l’unità nazionale (con la lotta contro la Chiesa e contro il papato) dal punto di vista della vita religiosa risultano contraddistinte dal diffondersi dell’anticlericalismo e dal processo di distacco di settori della popolazione da quelle pratiche di culto che in antico regime furono obbligatorie anche civilmente. A differenza da quello settecentesco, l’anticlericalismo del XIX secolo si caratterizzò per essere indirizzato non tanto contro il fenomeno religioso (con forme di irreligiosità individuale e di empietà), ma contro la Chiesa dominante, che deve essere spogliata dei beni e devono essere repressi gli abusi dei ministri di culto. In particolare, con la frattura risorgimentale diventò incompatibile essere buoni cattolici e amare degnamente la Patria e l’anticlericalismo ebbe una duplice matrice: la prima intendeva combattere l’ingerenza della Chiesa cattolica nella sfera pubblica per liberare la società dai vincoli del passato, la seconda (di marca italiana) si propose di cancellare il potere temporale per realizzare l’Unità nazionale. Se la classe dirigente lottò contro la Chiesa cattolica con il tentativo di controllare gli interessi religiosi attraverso la laicizzazione degli istituti, la Chiesa, a sua volta, cercò di misconoscere le istituzioni civili, introducendo la distinzione tra Paese reale (sostenuto da una maggioranza cattolica) e Paese legale (espressione di una cultura liberale venata di laicismo e minoritaria). A ben guardare siamo in presenza di una visione che applica al sistema liberal democratico la distinzione canonistica della pars sanior; distinzione di non poco conto che permise alla Chiesa di delegittimare la classe dirigente risorgimentale, anche con autentici interventi teorici di contenuto eversivo.

La stessa condanna pontificia del voto politico (non expedit) segnò l’affermarsi di una classe di governo che fece dell’anticlericalismo il proprio agente di coagulo per conservare il potere. Così il laicismo politico, rispetto a quello ideologico, divenne bandiera di governo e spense tutti i filoni religiosi presenti nel Risorgimento, compreso quello intriso di religiosità mazziniana.

Anche in quelle circostanze la Chiesa – resasi necessariamente autonoma da sostegni esterni e trovando nelle libertà statutarie la fonte della propria legittimazione, pur tra condanne e proteste, seppe adattarsi ai tempi e al tramonto del potere temporale, prendendo atto dell’irreversibilità del 20 settembre 1870; presa d’atto che per taluni inizia già prima e per altri avviene solo a distanza di tempo dal fatto. L’intervento della Chiesa rispetto al processo di modernizzazione e alla lotta contro quel cosiddetto spirito dei tempi (che costituì una eresia da trattare in modo non differente dalle posizioni da assumere nei confronti degli eretici e degli infedeli), aggravato in Italia dal moto di unificazione nazionale, si manifestò nel diffondersi di una psicologia da stato d’assedio e nel tentativo di costruire una società religiosa alternativa a quella civile.

Questa fu l’anomalia italiana che vide i cattolici obbedienti non solo combattere l’ideologia e la prassi liberale, ma porsi su posizioni antistatuali e antinazionali di impronta eversiva: un contrasto quello tra Santa Sede e Stato liberale italiano che segnerà quasi mezzo secolo della nostra storia. Tutto fu sottoposto e condizionato al peso della Questione romana e della reale indipendenza del pontefice (presentato come prigioniero della rivoluzione), questione che alimentò l’anticlericalismo, producendo quell’enfasi del Risorgimento che condizionò in Italia la ricerca storica fino agli anni Cinquanta del Novecento. L’anticlericalismo diventò dunque una formula di governo e la Chiesa delegittimò i governi vietando ai cattolici di partecipare alla vita pubblica ponendo questi ultimi contro il mondo uscito dal Risorgimento.

Il pensiero intransigente, alimentatosi all’indomani del 1849 (specialmente con la verificata instabilità del potere temporale), intese la modernità come destinata a sconvolgere l’ordinato assetto di una società cristiana e come tale fu ripetutamente condannato; il che avvenne con una serie di pronunciamenti del magistero, ribaditi nelle proposizioni del Sillabo di Pio IX. Pubblicato con l’enciclica Quanta cura dell’8 dicembre 1864, costituisce la massima espressione del giudizio negativo della Chiesa sulla conformità della civiltà moderna ai valori cristiani (giudizio che sarà rivisto solo con la dichiarazione Dignitatis humanae del Concilio Vaticano II). Il documento, testo dottrinale riguardante la fede e la morale in se stessa e nei rapporti con le opinioni del XIX secolo, esprime il compendio delle tradizionali condanne e consiste in un elenco di 80 proposizioni riguardanti gli errori del tempo, raggruppati in 10 paragrafi, tra cui sono contenuti quelli sulla società civile considerata in se stessa e nei suoi rapporti con la Chiesa (proposizioni nn. 38-55). Tra quanto condannato troviamo anche il liberalismo (proposizioni nn. 77-80), cosa che provocò reazione e disappunto nei settori del liberalismo cattolico. In particolare, a proposito: De independentia potestatis Ecclesiae a civili, alla proposizione 63 si stigmatizza l’affermazione di chi sostiene «Legitimis principibus oboedientiam dectractare, immo et rebellare licet» e, ancora al numero 42: «In conflictu legem utriusque potestatis ius civile praevalet», mentre alla proposizione 80 si condanna l’affermazione: «Romanus Pontifex potest ac debet cum progressu, cum liberalismo et cum recenti civilitate sese reconciliare et componere».

Nella medesima linea si situa la costituzione Pastor aeternus,promulgata dal Concilio Vaticano I il 18 luglio 1870, che contiene la definizione del dogma dell’infallibilità del vicario di Cristo. La definizione dogmatica (dove si afferma tra l’altro: «Se qualcuno avesse la presunzione di contraddire a questa nostra definizione, sia scomunicato») fece rientrare nella sfera dell’infallibilità non soltanto le verità formalmente rivelate (credenda, cioè da credere) ma anche ogni verità che vi sia connessa (perciò tenenda, da ritenere).

Una spia delle ripercussioni di queste condanne si può agevolmente ritrovare anche nei testi dei sinodi diocesani italiani che con la fine del giurisdizionalismo ripresero a essere celebrati a partire dall’Unità d’Italia, proprio utilizzando le libertà statutarie.

Con il pontefice Leone XIII si registra un progressivo passaggio dalle condanne ecclesiastiche a caute aperture, che si manifestano prima nel campo, pur di connotazione intransigente, del cattolicesimo sociale, per poi estendersi in quello politico. In particolare, a partire da quel pontificato le riforme sociali diventano il veicolo per la comprensione della modernità e l’avvicinamento alla società, secondo la direttiva: «in necessaris unitas, in dubiis libertas, in omnibus charita».

Con l’enciclica Libertas del 20 giugno 1888, il pontefice, pur avendo enunciato i contrasti più stridenti tra la cattolica e alcune dottrine moderne (tra cui quanto affermato dai «seguaci del liberalismo [che] pretendono nella vita pratica non esservi potere divino, a cui debba obbedirsi, ma ognuno essere legge a se stesso»), lascia aperta la possibilità di leali accordi di fatto, in virtù della distinzione tra la tesi e l’ipotesi; mentre l’enciclica Immortale Dei,del 1 novembre 1885 sulla costituzione civile degli Stati può leggersi come un commento non restrittivo del Sillabo.

Ancora una volta la Chiesa di Roma si mostra in grado di piegarsi alle metamorfosi richieste dalla storia, adattandosi ai tempi e ai luoghi, restando nella dottrina poco disposta a concedere, soprattutto quando le novità presentano ai fedeli il pericolo di scivolare nell’eresia. Si tratta del rapporto con la modernità e, se osserviamo per lunghi periodi, scorgiamo che talvolta la Chiesa cammina col secolo e in qualche caso avanza al punto di sembrare di voler superare il presente, in altre circostanze retrocede di fronte a situazioni che la società ritiene ormai consolidate, mostrando in questo la capacità di fondere, nell’ossimoro ad altri impossibile, conservazione e progresso: un mistero che coniuga gerarchia e collegialità, ma anche res nova et vetera. Ci sono elementi continuamente miscelati tra loro e dalla civitas naturaliter christiana si passa alla città separata dal mondo (mondo considerato regno del male); con avanguardie che si attardano e retroguardie che si affrettano per consentire di ricompattare le truppe.

Dalle «parallele» giolittiane alla conciliazione dei poteri tra Grande guerra e fascismo

Per la Chiesa il trauma del Risorgimento iniziò ad essere sanato solo con la Grande guerra, ma anche con l’attenuarsi delle forme di controllo restrittivo dello Stato sul suo operato e il Novecento segna l’avvicinamento dei cattolici italiani alla vita politica e, attraverso il ralliement, si assiste all’accettazione di ogni forma politica e, quindi, al superamento della pretesa della residua potestas indirecta in temporalibus.

Lo sbocco del cattolicesimo liberale italiano sarà il moderatismo gentiloniano (1913), questo per la incapacità di elaborare una proposta politica originale, idonea ad uscire dagli schemi della tradizione liberal-moderata, affrontando una riflessione di natura religiosa (così come proposto dai modernisti) e attenta a non porre la fede in contrasto con la scienza, il progresso e la cultura moderna. Una linea, perseguita con il patto Gentiloni e volta, attraverso il clero e il laicato più preparato, ad aggregare con finalità religioso-sociali le masse cattoliche e gettare le premesse per una apertura nei confronti della democrazia parlamentare, superando il collegamento verticistico e coinvolgendo i fedeli laici nella salvaguardia dei diritti di libertà religiosa, ai quali si affida, nella duplice veste di fedeli e cittadini, di essere protagonisti come membri attivi della società religiosa e della società civile.

Solo più tardi la minaccia comune del socialismo sovversivo favorì una più estesa convergenza di interessi, portando a forme di modus vivendi che spianarono la strada alla conciliazione. Ultimo esito di quella linea politica fu l’Università Cattolica del S. Cuore di Milano, che fu voluta come cattolica e non pontificia ed esordì come frutto del separatismo liberale, segnando, con l’abbandono dello statualismo, l’inizio di un parziale accoglimento del pluralismo scolastico e la concreta espressione della cultura cattolica, che realizza nel campo dell’alta formazione l’ideale della libertà.

I tempi erano intanto maturi per la sottoscrizione di quegli accordi di garanzia tra Chiesa e Stato, noti come i Patti del Laterano del 1929; evento nuovo, anche se ci fu chi lo lesse come il completamento della politica cavouriana di cercare nella libertà un accordo con la Chiesa di Roma. Più in generale dopo i Patti del Laterano, non a caso definiti conciliazione, in Italia si creò di fatto un clima di neoconfessionismo sostanziale in alcuni campi (con il dominio assoluto della gerarchia ecclesiastica sul matrimonio) e confessionismo formale e borghese in altri ambiti, come quello della moralità pubblica e della vita culturale.

Tra nostalgie dello Stato cattolico e l’opzione della Chiesa per la democrazia degli Stati

Continue anche nel Novecento sono le sfide che la democrazia pone alla Chiesa, la quale non è e non può essere una società democratica e che al proprio interno e nella propria struttura e funzionamento non ne può recepire l’esperienza. In particolare, con le trasformazioni della società civile e la sconfitta del totalitarismo, lo Stato riscopre la dimensione sociale e comunitaria e la Chiesa rende definitiva la propria opzione per la democrazia politica. Fu un processo lento, che taluni fanno risalire addirittura a Pio IX (che di fronte al crollo del potere temporale, rimasti inascoltati i suoi appelli ai sovrani affermò: «Se i monarchi abbandonano il papa, i popoli rimangono a lui fedeli»), ma che si consolida con la difesa della persona umana nel magistero di Pio XI e Pio XII.

Dei due totalitarismi condannati da Pio XI, il successore ebbe a lottare contro la guerra come conseguenza del nazismo e contro la diffusione post-bellica del comunismo. In proposito si ricorda il radiomessaggio di Pio XII in occasione del Natale del 1944, in cui troviamo chiare espressioni contro l’assolutismo di Stato e l’invito ai cittadini a partecipare alla costruzione di ordinamenti veramente democratici.

Continuando a osservare il contesto italiano, fu tra la fine degli anni Quaranta e per tutti gli anni Cinquanta che iniziarono a emergere divergenze tra la dottrina tradizionale della Chiesa cattolica in tema di libertà religiosa e la corrispondente disciplina giuridica sancita al riguardo dallo Stato italiano nel suo nuovo diritto positivo, a seguito dei principi contenuti nella Costituzione. Per molti, nostalgici di modelli confessionali, dovere di uno Stato cattolico sarebbe stato di assicurare condizioni di libertà soltanto alla Chiesa cattolica e ai suoi appartenenti, in quanto unici depositari della vera religione, mantenendo i seguaci delle altre confessioni religiose in un mero regime di tolleranza civile.

Il riposizionamento del magistero ecclesiastico a seguito del Vaticano II

Il Concilio ecumenico Vaticano II (1962-1965) rappresenta il riposizionamento della dottrina cattolica in relazione alla modernità e, attraverso le decisioni conciliari, la Chiesa ha recepito alcuni principi scaturiti dalla società moderna. Tuttavia, secondo molti quello non fu un radicale mutamento di passo, perché il magistero non avrebbe fatto altro che canonizzare norme liberali e riproporle adattate a tutta la società. Indubbiamente con l’assise conciliare si ebbe una evoluzione della tradizionale dottrina canonistica in tema di libertà religiosa, quale si trovava fissata da secoli, sebbene, sempre seguendo una visione restrittiva, c’è chi afferma che il documento sulla libertà religiosa del Vaticano II si limita a estendere il principio della libertà religiosa individuale (da sempre accettata dalla Chiesa) al diritto di manifestare pubblicamente le proprie credenze religiose nell’ambito dello Stato, ovviamente la libertà di non manifestare la fede cattolica non esiste nell’ambito della Chiesa.

Soprattutto, c’è da osservare che già il convocare un’assise universale fu un evento di notevole significato nella vita della Chiesa, specialmente quando, dopo che il Concilio Vaticano I (1869-1870) aveva proclamato la infallibilità pontificia, sembrò a molti che di concili non ci fosse più necessità e bastasse l’esercizio del magistero del pontefice; adunare un concilio dopo le contrapposizioni del passato volle dire comprensione e dialogo con la società moderna e con una modernità, non più intesa come un complotto diabolico che ebbe le radici nella ribellione di Lutero.

In sintesi, il magistero del Vaticano II si fonda su tre principi informatori: a) il principio teologico-dogmatico della libertà della fede; b) il principio morale-giuridico del rispetto e della tutela della persona umana; c) il principio politico-giuridico dell’incompetenza dello Stato in tema di opzioni religiose. In particolare il n. 43 della Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo moderno [Gaudium et spes] proclama che spetta alla coscienza dei laici convenientemente formata di iscrivere la legge divina nella vita della città terrena; norma a cui fece seguito il canone 227 del Codice di diritto canonico del 1983, che afferma che il laico è titolare del diritto di realizzare scelte autonome nell’ordine temporale.

Nella concezione liberal-democratica, fondamentali sono con il Vaticano II quei diritti che tutelano in modo particolare l’individuo e la sua dignità, il diritto alla vita e all’integrità morale e fisica della persona, la libertà di fede e di coscienza, che la Chiesa ha recepito, pur rivendicando il diritto di esprimere un giudizio sulle realtà temporali e insistendo [al paragrafo 76 della Gaudium et spes]sul concetto di collaborazione tra Chiesa e comunità politica, il che vuol dire collaborazione anche extra concordataria. Ovviamente come si è detto le aperture riguardano il temporale, perché nello spirituale la religione non può accettare la democrazia; infatti il can. 331 del Codice del 1983, stabilisce che: «Il Vescovo della Chiesa di Roma […] in forza del suo ufficio, egli gode pertanto nella Chiesa di una potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale, che può esercitare sempre liberamente».

Il post ’68 e la contestazione ecclesiale del modello di società borghese

Come sappiamo nella società italiana il decennio ’70-’80 fu pervaso dal clima del ’68, fortemente critico verso ciò che deriva dalla tradizione e avverso al principio di autorità, e nella Democrazia cristiana (dopo l’apertura a sinistra) e nel mondo culturale cattolico si affermò il dominio, tanto imposto da diventare assoluto, della cultura di sinistra e personalità di valore lontane da questi orientamenti furono emarginate. In particolare, la Chiesa visse il delicato periodo post conciliare e i cattolici del dissenso animarono le proteste, con istanze volte a perseguire una falsa povertà ecclesiastica, questo mentre i liberal-democratici sia cattolici che laici erano definiti in modo spregiativo «borghesi» e i sistemi ispirati al marxismo-leninismo vennero ritenuti un modello di governo superiore a ogni altro. Questo mentre sul piano delle opzioni politiche i cattolici, in linea con le direttive della gerarchia, rimasero ancorati all’esperienza unitaria della Democrazia cristiana, che espresse governi in cui erano spente le componenti cattolico-liberali.

Quindi, rispetto a quegli anni, è dubbio che si possa parlare di cattolicesimo liberale; anzi per tutto il Novecento italiano, dall’età del modernismo alla contestazione, si afferma un clero che, a differenza dei preti liberali del Risorgimento, è l’antitesi sia della politica che di un cattolicesimo di matrice liberale. Più in generale, all’interrogativo di fondo se ancora si possa parlare di cattolicesimo liberale la risposta positiva non è così scontata, anche se ormai sono talmente tante le rivisitazioni di fronte alle moderne libertà da dover considerare i cattolicesimi al plurale.

Dalla revisione pattizia del 1984 ai nuovi confini e parametri di confronto

Negli anni Settanta l’avanzare delle istanze di libertà civili determinarono un nuovo clima anche nella disciplina concordataria e si fecero concrete le richieste di revisione del testo dell’accordo del 1929. Da parte sua la Chiesa del Vaticano II ritenne superata l’epoca dei concordati che ebbero per oggetto lo scambio di concessioni e privilegi, orientando l’alleanza con la società civile verso accordi definiti di libertà. Nel 1984 si giunse così alla revisione concordataria, in cui prevalse l’impegno dello Stato e della Chiesa per il perseguimento del bene comune e la collaborazione sul terreno sociale, ma anche il consociativismo politico. La Chiesa ormai prende in considerazione come interlocutore lo Stato laico, cioè quel modello in cui la normativa non è improntata alla morale religiosa, ma dove tuttavia si darà rilevanza nell’ordine civile alle attività e insegnamenti religiosi e alle richieste delle confessioni. Tra gli ulteriori elementi dell’accordo c’è il riconoscimento pubblico di un nuovo soggetto: la Conferenza episcopale italiana (Cei), a cui è affidato un ruolo crescente nei rapporti con la società politica. Circa i risvolti del patto, merita di essere segnalato il fatto che all’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi non riuscì, a seguito di quell’evento, l’intento di coagulare attorno al proprio partito il favore della gerarchia ecclesiastica, che rimase impegnata oltre ogni limite a sostenere l’unità partitica dei cattolici italiani.

Oggi il fattore religioso, pur politicamente secondario rispetto all’Ottocento, è oggetto di interesse diffuso con manifestazioni in ambiti differenti da quelli delle religioni tradizionali, pur tuttavia risulta continua la tentazione vaticana di appellarsi alla pars sanior del Paese, ma gli esiti sono sempre negativi sia che si affidi alla mediazione del partito cristiano sia che si ripercorra nuovamente la strada delle garanzie di carta sottoscritte con i governi laici. La società plurale in luogo della società religiosamente omogenea impone di ricomporre in un quadro d’insieme le diverse istanze etico-culturali e trovare le regole comuni tra identità e nuove libertà, evitando il pericolo di creare comunità parallele, che segnino il prevalere della fedeltà al modello di appartenenza particolare a discapito dello Stato.

Partendo dal riconoscimento del valore sociale e pubblico delle religioni e dalla promozione del bene comune (con la conseguente ingerenza dello spirituale nel temporale), la Chiesa indirizza a tutti, governati e governanti, il proprio messaggio, senza presupporne l’appartenenza ad una comunità di fede; riservandosi, quindi, ancora una volta, la funzione di giudicare le leggi. In tal modo tutte le res finiscono con l’essere miste e sullo stesso oggetto si creano sistemi di valutazione che possono risultare concorrenti e che alimentano il pericolo del venire meno della distinzione tra l’ambito politico e quello religioso. Ovviamente il confessionismo è finito, anche se permangono dei residui, ma il cammino della libertà religiosa in Italia è bloccato da anni e le minoranze religiose, dopo aver rivendicato il diritto all’eguaglianza, rivendicano quello alla diversità, con una situazione di confessioni con intesa che risultano maggiormente garantite, rispetto a tutte le altre.

Cogliendo le prospettive relative al tema dei rapporti tra Chiesa e Stato, in relazione a fattispecie diverse rispetto al passato anche recente e al nuovo protagonismo delle istituzioni religiose in genere e della Chiesa cattolica in particolare, viene in evidenza che gli stessi termini del rapporto non sono più quelli del tempo in cui l’autorità civile e quella religiosa si incontravano per comporre le rispettive competenze e definire gli ambiti di azione in un eguale stato di sovranità e nella medesima condizione di ordinamenti giuridici primari. Se da un lato a livello individuale la religione è essenziale per l’esistenza dell’uomo, non è così necessaria per il vivere sociale, dall’altro la nostra storia rappresenta la più macroscopica delle irrisolte commistioni tra lo spirituale e il temporale e la realtà serenamente considerata mostra la sconfitta delle visioni statualiste sia di destra che di sinistra e la necessità di una cultura autenticamente liberale, necessaria per ricostruire sulle macerie del materialismo e per riformare le istituzioni. È però da vedere quanto questa esigenza sia condivisa da un clero, connotato da linee più terzomondiali che occidentali, e, in particolare, dalla Conferenza episcopale, organismo nei fatti scarsamente collegiale, ma che ha oggi la maggiore responsabilità nella conduzione dei rapporti politici ed economici (finanziamenti pubblici) con la società civile.

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Brano tratto dal "Dizionario del liberalismo italiano", edito da Rubbettino Editore. Clicca qui per acquistarlo con il 15% di sconto