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Cattolicesimo liberale

di Dario Antiseri

È stato Sergio Cotta a porre in evidenza il fatto che esiste un legame interiore tra cristianesimo e pensiero liberale consistente nell’idea stessa di libertà [Cotta in Aa. Vv. 2000, p. 71]. Ed è su tale legame che vertono le indagini dei cattolici liberali italiani del XIX e del XX secolo. I primi hanno operato in una situazione in cui preminente era il problema dell’unificazione dell’Italia con la connessa, e scottante soprattutto per il mondo cattolico, «questione romana» che Gioberti, Rosmini, Ventura e Lambruschini pensavano potesse essere risolto attraverso una federazione con a capo il Papa.

Ancor più difficili sono state le condizioni politiche e sociali in cui vissero, pensarono e operarono i secondi: la Prima guerra mondiale, l’avvento del fascismo, il secondo conflitto mondiale, una sostanziale egemonia della cultura marxista negli anni della Guerra fredda. E se non vanno dimenticati, per i primi anni del XIX secolo, né il movimento di Romolo Murri né la dura condanna del modernismo da parte della Chiesa, va tenuta presente una più lunga e diffusa ostilità di gran parte del mondo cattolico nei confronti di un liberalismo anticlericale e in odore di massoneria e, in nome di una spesso malintesa concezione della «solidarietà», nei confronti di una economia di mercato vista come sinonimo di egoismo quando non di rapina e di sfruttamento.

Quella che va innanzitutto notata è la diversità delle prospettive filosofiche del liberalismo cattolico italiano. È nel Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto,del 1840-1843 – sul fatto, e cioè sulla natura e la coscienza dell’uomo –, che Luigi Taparelli d’Azeglio (1793-1862) elabora la sua prospettiva tomista. Tomista convinto e insieme ammiratore del pensiero di de Bonald è Gioacchino Ventura (1792-1861), autore de Il potere pubblico. Le leggi naturali dell’ordine sociale, del 1860, e deciso avversario del razionalismo illuminista. Contrario, invece, alle «misere disputazioni delle scuole» è Raffaello Lambruschini (1788-1873). Avverso a quel razionalismo che riduce tutta l’esperienza al «fatto fisico» e che troverebbe la sua scaturigine in Cartesio, Lambruschini non ha fiducia alcuna nella metafisica [Lambruschini 1939]. Per lui, infatti, con i più sofisticati e sottili argomenti metafisici «non si è mai convertito un incredulo». Si tratta di una concezione filosofica che la «Civiltà Cattolica» definì eterodossa e che altri considerarono sostanzialmente luterana: «Luterino» venne definito il Lambruschini dal Guerrazzi.

In uno «spiritualismo oggettivo» consiste, d’altro canto, l’influente prospettiva filosofica di Antonio Rosmini (1797-1855), con la sua attenzione a scrutare i tratti del divino nell’uomo. Evidente nelle opere letterarie e in quelle di carattere storiografico o morale di Alessandro Manzoni (1785-1873) è l’influsso di Rosmini. Per Manzoni, «l’idea […] della moralità, quale l’ha rivelata il Vangelo, è tale che nessun sistema di morale venuto dopo […] non ha potuto lasciar di prenderne qualcosa» [cfr. Manzoni (1819) 1976]. E, a suo avviso, e stato osservato che «è sempre il dictamen interiore della coscienza che deve portare il credente ad accettare la legge cristiana che, d’altra parte, si inserisce nell’ordine della grazia e della carità» [cfr. Passerin d’Entrèves in Aa.Vv. 1976, p. 100].

In una direzione diversa si sviluppa il pensiero di Vincenzo Gioberti (1801-1852). La sua «filosofia dell’essere reale» è una chiara forma di ontologismo. D’accordo con de Bonald e col tradizionalismo francese, Gioberti è persuaso che Dio si riveli alla mente umana e che la filosofia, pertanto, sia «figlia primigenia della religione», riflessione sulla originaria rivelazione di Dio. La sua Introduzione allo studio della filosofia,del 1839-1840, volle essere un attacco contro lo psicologismo che si rivelerebbe in quella decadenza soggettivistica che arriva fino a Kant, che impronta lo stesso sistema di Hegel, e che ha origine nel primato attribuito da Cartesio al soggetto e nel libero esame difeso da Lutero. E alla trappola del soggettivismo non sfuggirebbe neppure il Rosmini il quale sarebbe perciò caduto nello «scetticismo e nel nullismo». Contro Rosmini polemizzò anche Matteo Liberatore (1810-1892), rilevandone sia l’incompatibilità col tomismo, sia la sottovalutazione dei pericoli dell’ontologismo. E se Carlo M. Curci (1810-1891) nel saggio Fatti e argomenti in risposta alle molte parole di Vincenzo Gioberti intorno ai gesuiti,del 1845, replicò all’attacco di Gioberti ai gesuiti; il maestro di Curci e di Liberatore: Taparelli, fu un sincero ammiratore dell’opera filosofica del Rosmini e non solo non partecipò alla campagna antirosminiana culminante più tardi nella condanna delle «XL proposizioni», ma la disapprovò.

Se è la differenza a caratterizzare le concezioni filosofiche dei cattolici liberali, l’idea di persona libera e responsabile attraversa, sempre in maniera decisiva, il pensiero di tutti loro «illuminato» dal messaggio cristiano. E intorno a essa ruotano e sgorgano le loro proposte politiche. Così, contro i difensori delle pretese dell’«ente collettivo», Taparelli afferma che «il Cattolicesimo […], riguardando l’ente collettivo quale mezzo e la persona qual fine, prima vuole salvo il fine, la persona, poi le procaccia il sussidio quanto può maggiore, perfezionando anche l’ente sociale»; «il principio cattolico dice: rispetto della persona; l’eterodosso dice: idolatria dello Stato». Da qui la sua più netta presa di distanza dai monopoli pubblici e privati che riducono gli individui in servitù e la difesa della proprietà privata e della libertà economica regolata dal diritto e «connessa con l’ordine morale» [Taparelli d’Azeglio 1860, pp. 428, 430 e 438].

Da parte sua, Ventura, difensore di quella «società naturale» che è la famiglia, e convinto della funzione primaria della proprietà (una donazione «consacrata» dal Vangelo, ma «a titolo oneroso»), attribuisce allo Stato solo il potere militare e giudiziario ma insiste sui limiti di quello legislativo poiché lo Stato non ha il diritto di intervenire su quelle società naturali, a cominciare dalla famiglia, che sono i «corpi intermedi»: «famiglie sviluppate». Contrario al razionalismo illuminista ignaro della funzione e della forza delle tradizioni, e avverso alla politica centralista della Francia postrivoluzionaria, Ventura vede un nesso inscindibile tra libertà e autonomia dei poteri decentrati e la considera come «la sola rivoluzione giusta, la sola legittima, la sola cristiana e la sola potente per terminare l’era funesta delle rivoluzioni» [Ventura di Raulica (1859) 1860, p. 465]. Da qui anche la sua difesa della libertà di insegnamento e la proposta di una confederazione di Stati italiani sotto la presidenza del Sommo Pontefice.

Rilevanza rivestono le considerazioni di Lambruschini sul rapporto tra autorità e libertà e sulla loro necessarietà in vista della piena realizzazione delle potenzialità umane e del loro corretto uso. Le istituzioni, pertanto, non vanno né deificate né adorate: è l’uomo che costruisce le istituzioni e non viceversa. In breve: «le istituzioni politiche sono un mezzo, non un fine» [«Il Conciliatore», 29 aprile 1849] e servono alla realizzazione dei fini individuali. Alla luce di ciò vanno intese anche le sue considerazioni di schietta natura liberale sulla proprietà privata, sulla politica finanziaria, su un’economia di mercato «regolata», e sul sistema elettorale. Quel che gli sta a cuore è quindi l’idea di un consorzio umano in cui la libertà sia limitata dal rispetto della libertà altrui [«La Patria», 16 luglio 1847], perché la libertà è inseparabile dalla moralità; e la moralità trova la sua base più sicura in quella fede religiosa che ci vuole tutti fratelli.

Considerato come l’iniziatore del liberalismo cattolico italiano – ma anche, come scriverà nel 1843 a Rosmini, «laico in tutti i sensi» – sia nelle opere letterarie, sia in quelle storiografiche e morali, Manzoni assume come unico criterio per interpretare e valutare eventi storici e istituzioni politiche le sofferenze, le gioie e le scelte di coscienza dei singoli individui. Interpretazioni deterministiche della storia e dei comportamenti umani, difesa della ragione di Stato, l’esaltazione dei «geni politici» e della guerra, la sostituzione del prìncipe con princìpi dogmatici dalle conseguenze tragiche, l’idolatria del potere, la giustificazione utopistica di sacrifici certi della generazione presente in nome di ipotetici paradisi per le generazioni future, sono tutte idee respinte dal Manzoni. Rifiutate esattamente in nome di una concezione della persona umana responsabile, illuminata e fortificata dalla fede della Provvidenza [Manzoni (1819) 1976, cap. VII].

Se spunti di liberalismo sono rinvenibili nel pensiero di Gioberti – si pensi al suo rifiuto «della forza dei despoti», alla necessità della contrapposizione e della disputa tra partiti politici, alla libertà di stampa, alla necessità e urgenza dell’istruzione gratuita in vista di una consapevole partecipazione alla vita politica – la più consistente elaborazione della prospettiva liberale da parte di un cattolico nel secolo XIX la si trova nell’opera di Rosmini, la cui filosofia politica consiste in un articolato sforzo teso a delimitare l’area del «politico» in relazione alla libertà di azione delle singole persone. Da tale prospettiva, per Rosmini, risulta fondamentale la questione della proprietà che «costituisce una sfera intorno alla persona, di cui la persona è il centro: nella qual sfera niun altro può entrare», e che è uno strumento di difesa dall’invadenza dello Stato [Rosmini (1841-’43) 1976, pp. 158-191]. Infatti, «le persone sono principio e fine dello Stato. Sono esse che costituiscono, che assegnano lo scopo e i limiti, per cui lo Stato e tutti gli organi statali sono dei semplici mezzi per le persone che ne sono realmente il fine». Di conseguenza, ben si comprende che «il governo civile opera contro il suo mandato, quand’egli si mette in concorrenza co’ cittadini, o colle società ch’essi stringono insieme per ottenere qualche utilità speciale: molto più quando, vietando tali imprese agli individui o alle loro società, ne riserva a sé il monopolio. Le società civili per lo contrario s’avvicinano al loro ideale più che esse si scaricano di tali imprese, abbandonandole all’attività privata ch’esse debbono tutelare e promuovere; e si può con sicurezza asserire che […] fece maggiori progressi nell’incivilimento quel governo che ottenne più di ben pubblico mediante l’opera spontanea d’individui e di società private da lui protette, e meno si mette alla testa di tali imprese» [ivi, p. 1478]. È questa una limpida formulazione di quel principio di sussidiarietà che sta a fondamento della concezione liberale e che è costantemente sottolineato in documenti ufficiali della Chiesa cattolica come la Quadragesimo Anno, del 1931, la Pacem in terris,del 1963, la Centesimus Annus,del 1991, e la Caritas in veritate, del 2009.

Ma anche se principio e fine dello Stato, sono le persone, a essere responsabili di quanto accade nella vita associata degli uomini e di «tutto ciò che nasce nelle nazioni, sopra una scala più grande e con altre proporzioni, preesiste in germe nella mente degli individui che le compongono». Ma poiché la persona è fallibile e la società non è mai perfetta, Rosmini avversa quel «perfettismo» che crede possibile il perfetto nelle cose umane, che sacrifica i beni presenti alla immaginata futura perfezione perché in definitiva consiste «in un baldanzoso pregiudizio, pel quale si giudica dell’umana natura troppo favorevolmente […] e con mancanza assoluta di riflessione dei limiti naturali delle cose». Il perfettista infatti non si rende conto che la società non è composta da «angeli confermati in grazia» ma da «uomini fallibili», e neanche che ogni governo «è composto di persone che, essendo uomini, sono tutti fallibili». Il perfettismo, teoria decisamente anticristiana abbracciata da tutti gli utopisti comporta – come Rosmini scrive nel Saggio sul comunismo e socialismo,del 1849 – l’immediata e «totale distruzione della umana libertà» e, con la promessa di «felicitare la terra», «recide la radice di tutti i doveri, e perciò anche di tutti i diritti dell’uomo, e asciuga la fonte di tutti i suoi beni individuali e sociali: la libertà» [Rosmini 1975, IV, pp. 295 e ss.].

Su questo argomento, come anche su altri, Rosmini troverà un convinto seguace in Gustavo di Cavour (1806-1864), fratello di Camillo, il quale in Des idées communistes et des moyens d’en combattre le développement, del 1846, sosteneva che il comunismo non doveva venir represso ma combattuto sul piano ideale, morale e culturale, attraverso la diffusione di sani princìpi, di ordine metafisico ed economico, tra le classi dirigenti e quelle popolari.

Ma anche se critica il «perfettismo» perché non riesce a capire che la realtà sociale, istituzioni e avvenimenti non sono e non saranno mai totalmente nelle nostre mani e poiché non riconosce quell’«eterno principio ontologico» stando al quale «l’esistenza di un bene impedisce talora di necessità quella di un altro maggiore», Rosmini ribadisce che non intende «negare la perfettibilità dell’uomo e della società. Che l’uomo sia continuamente perfettibile fin che dimora nella presente vita, egli è un vero prezioso, è un dogma del Cristianesimo». Antiperfettista anche perché fallibilista, Rosmini si affida a quella che egli chiama «lunga, pubblica, libera discussione» [Rosmini 1975, II, p. 746].

Critico dell’astrattismo antistorico di quei «razionalisti» che, sotto il segno dello Stato onnipotente e perfettamente razionale, avrebbero voluto negare la tradizione, secoli di storia, e cancellare istituzioni e «corpi intermedi» frutto di una lunga e non sempre intenzionale evoluzione, Rosmini, sempre preoccupato della libertà e della dignità della persona umana (come quando critica gli effetti liberticidi del monopolio statale dell’istruzione e denuncia i danni prodotti dall’assistenzialismo statale) propone così una filosofia attenta alle concrete situazioni umane e sociali.

Dunque, non di rado contrastanti, diverse furono le connessioni filosofiche dei rappresentanti di maggior spicco del cattolicesimo liberale dell’Ottocento. E differenti lo sono state in quelli del Novecento. Difatti, se tradizionale fu la formazione filosofica di Luigi Sturzo (1871-1959); nell’orizzonte del pensiero empirista di tipo anglosassone si articolano le riflessioni filosofiche di Luigi Einaudi (1874-1961); mentre su basi soprattutto di teoria ermeneutica si collocano le argomentazioni «politiche» di Angelo Tosato (1938-1999).

Una trattazione del liberalismo teorizzato dai pensatori cattolici nel XX secolo non può ignorare il contributo di pensiero e di azione di quel liberale cattolico che fu Einaudi. Tuttavia vale qui la pena far notare che i presupposti filosofici del suo liberalismo non si trovano in una di quelle concezioni filosofiche che – come, per esempio, il tomismo, lo spiritualismo o l’ontologismo – interessano la storia delle «filosofie cristiane». Il nucleo teorico centrale che informa la riflessione economica, politica e sociale di Einaudi è la tesi gnoseologica della umana fallibilità. Solo la rinuncia alla pretesa di essere in possesso della verità assoluta è la prima garanzia della libertà. Difatti, chi, come il totalitario di destra o di sinistra, è convinto di essere il possessore o l’interprete di verità assolute, di fondamenti incontestabili o incontrovertibili della propria verità, sarà anche divorato dallo zelo di imporre agli altri, magari con lacrime e sangue, questa presunta verità. Ed ecco, invece, che il liberalismo, afferma Einaudi, è «il metodo di libertà» – un metodo che «riconosce sin dal principio il potere di versare nell’errore e auspica che altri tenti di dimostrare l’errore e di scoprire la via buona alla verità». E la via buona alla verità è quella di chi «sa che, solo attraverso l’errore, si giunge, per tentativi sempre ripresi e mai conchiusi, alla verità. Nella vita politica la libertà non è garantita dai sistemi elettorali, dal voto universale o ristretto, dalla proporzionale o dal prevalere della maggioranza nel collegio uninominale. Essa esiste purché esista la possibilità di discussione, della critica. Trial and error; possibilità di tentare e di sbagliare, libertà di critica e di opposizione; ecco le caratteristiche dei regimi liberi» [Einaudi 1959, p. 60]. E in un regime libero la libertà è indivisa, vale a dire che le libertà politiche senza la libertà economica sono illusioni. Da qui l’avversione di Einaudi nei confronti delle «assurde teorie» economiche e politiche del socialismo, ma anche la sua polemica con Benedetto Croce, per il quale il liberalismo non avrebbe «un legame di piena solidarietà col capitalismo o col liberismo economico o col sistema economico della libera concorrenza» [Croce-Einaudi 1988, pp. 14-15].

Tale posizione è, ad avviso di Einaudi, del tutto inconsistente in quanto una società senza economia di mercato sarebbe oppressa da «una forza unica – dicasi burocrazia comunista od oligarchia capitalistica – capace di sovrapporsi alle altre forze sociali», con la conseguenza «ad uniformizzare e conformizzare le azioni, le deliberazioni, il pensiero degli uomini». Qui Einaudi confessa di aver provato «un vero restringimento al cuore» davanti a «un tanto pensatore» il quale sostiene che protezionismo, comunismo, regolamentarismo e razionalizzamento economico possono, a seconda delle circostanze storiche, diventare mezzi «di elevamento morale e di libera spontanea creatività umana». E tutto ciò quando è constatabile che ipertrofia dello Stato e dei monopoli sono storicamente nemici della libertà. La realtà è che monopolismo e collettivismo sono «ambedue fatali alla libertà» [ivi, p. 135], in quanto eseguono la centralizzazione dei mezzi di produzione ed è chiaro – come sintetizzerà Hayek – che chi possiede tutti i mezzi stabilisce tutti i fini. Di conseguenza, tra i principali compiti dello Stato liberale vi è la lotta ai monopoli, a cominciare dal monopolio dell’istruzione. Solo all’interno di precisi limiti, cioè all’interno delle regole dello Stato di diritto, economia di mercato e libera concorrenza possono funzionare da fattori di progresso. Lo Stato di diritto equivale alla Rule of Law, e l’impero della legge è condizione per un’anarchia degli spiriti in cui il cittadino deve prestare obbidienza alla legge e a nient’altro che ad essa.

Dunque: uguaglianza giuridica di tutti i cittadini davanti alla legge; e, dalla prospettiva sociale, uguaglianza delle opportunità sulla base del principio che «in una società sana l’uomo dovrebbe poter contare sul minimo necessario per la vita», un minimo che sia «non un punto di arrivo, ma di partenza; una assicurazione data a tutti gli uomini perché tutti possano sviluppare le loro attitudini» [Einaudi (1949) 1977, p. 80]. Netta appare, quindi, la differenza tra la concezione del liberale e quella del socialista, nonostante che l’uno o l’altro siano animati dallo stesso ideale di elevamento materiale e morale dei cittadini: «l’uomo liberale vuole porre norme, osservando le quali risparmiatori, proprietari, imprenditori, lavoratori possano liberamente operare, laddove l’uomo socialista vuole soprattutto dare un indirizzo, una direttiva all’opera dei risparmiatori, proprietari, imprenditori, lavoratori anzidetti. Il liberale pone la cornice, traccia i limiti dell’operare economico, il socialista indica o ordina le maniere dell’operare» [Einaudi 1959, p. 222]. Per tutto ciò, fa presente Einaudi, è «una grossolana favola» l’idea stando alla quale il liberalismo sarebbe assenza dello Stato o assoluto lasciar fare o lasciar passare: «che i liberali siano fautori dello Stato assente, che Adam Smith sia il campione assoluto del lasciar fare e lasciar passare sono bugie che nessuno studioso ricorda; ma, per essere grosse, sono ripetute dalla più parte dei politici, abituati a dire “superata” l’idea liberale; non hanno letto mai nessuno dei libri sacri del liberalismo e non sanno in che cosa esso consista» [ivi, p. 217].

Liberale-cattolico Einaudi, cattolico-liberale Sturzo. Alunno nei seminari di Acireale e successivamente di Noto e di Caltagirone; studente poi alla Gregoriana, dove si laurea nel 1898, Sturzo riceve una formazione filosofica di tipo tradizionale, cioè sostanzialmente tomista. Definirà Gaetano Sanseverino, Taparelli e Liberatore come «i tre più grandi e geniali rappresentanti [del neotomismo], i quali vollero riallacciare le spente tradizioni della scolastica pura dei secoli XIII e XIV, cercando di seguire i passi della filosofia moderna» [Sturzo 1974, p. 105]. Professore nel seminario di Caltagirone, nel 1900, commenta i Principi di economia politica del Liberatore, che erano stati pubblicati l’anno avanti, e sin da allora egli aveva abbracciato l’idea per cui senza capitali cesserebbe quasi del tutto ogni produzione di ricchezza e i popoli continuerebbero a rimanere schiavi della miseria.

Persuaso della bontà del movimento di Romolo Murri, nel 1902 Sturzo inizia l’attività politica guidando i cattolici di Caltagirone nelle elezioni amministrative. Nel 1906 pubblica Sintesi sociali, un insieme di saggi che si rifanno alle concezioni di Giuseppe Toniolo. Favorevole alla guerra di Libia, nel 1915 viene eletto vicepresidente dell’Associazione nazionale dei comuni italiani e nel 1919 diffonde l’appello A tutti i liberi e forti, con il quale nasceva il Partito popolare italiano.

Ma se la sua costituzione fu vista come un evento di grande importanza e significato da Antonio Gramsci per via della sua aspirazione all’associazionismo e alla solidarietà, ben diverso è il giudizio di un liberale cattolico come il padovano Novello Papafava (1899-1973), il quale in uno scritto dal titolo Popolari e liberali,del 1922, afferma che «con l’abolizione del non expedit, la Chiesa dimostrava di rassegnarsi allo stato liberale; autorizzando la costituzione del partito popolare, essa invece lo ha riconosciuto e accettato. Questa è la grande importanza storica del Ppi. La Chiesa, immobile nella lettura si è dimostrata ancora una volta agile nello spirito poiché essa non si è opposta alla formazione di un partito che concreta nella pratica i postulati vitali della democrazia cristiana. Il Ppi si dichiara democratico, parlamentarista, e fautore della libertà della scuola. Quale programma potrebbe essere più liberale di questo?».

Ostile a Giolitti, Sturzo non si unì con i socialisti; e così il fascismo trovò un ostacolo in meno nella sua avanzata nella conquista del potere. Le prime persecuzioni e gli ammonimenti ecclesiastici a non creare difficoltà alla Santa Sede lo indussero, dopo le elezioni del 1924, a lasciare l’Italia. Il suo esilio dura ventidue anni: prima a Parigi, poi a Londra e infine a New York, sino alla fine dell’agosto del 1946, quando rientrerà in Italia. Nel 1952 viene nominato senatore a vita e si iscrive al gruppo misto, continuando, fino alla morte nel 1959, a ribadire le sue scomode posizioni e a lottare per le sue idee polemizzando con La Pira e quei cattolici che ormai vedevano nello Stato e nell’economia pianificata il propulsore del benessere sociale, anche a scapito della compressione delle libertà e di quella d’insegnamento in particolare.

A Londra Gaetano Salvemini incontra Sturzo, la cui amicizia egli considererà come «uno dei più begli acquisti» della sua vita. E nel libro Dei ricordi di un fuoriuscito 1922-1923 scriverà che don Sturzo «è un liberale. Il clericale domanda la libertà per sé in nome del principio liberale, salvo a sopprimerla negli altri, non appena gli sia possibile, in nome del principio clericale. Don Sturzo non è un clericale. Ha fede nella libertà per tutti e sempre». E se Antonio Rosmini è il riferimento maggiormente consistente del cattolicesimo liberale italiano dell’Ottocento, don Luigi Sturzo lo è per il Novecento.

Tosato, sacerdote cattolico, esegeta di ottimo livello, rappresenta una figura di primo piano nella tradizione del liberalismo cattolico. Nato a Venezia nel 1938, compiuti gli studi liceali a Roma, Tosato si laurea in giurisprudenza presso l’Università «La Sapienza» di Roma e in filosofia e teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Significativi per la sua formazione sono stati, alla Gregoriana, i corsi e i seminari di Bernard Lonergan e, all’Istituto biblico, gli insegnamenti di docenti come Alonso-Schökel, De la Lotterie, Lyonnet e Martini. Docente presso l’Università Lateranense, la Gregoriana e successivamente presso l’Istituto biblico, Tosato è autore di importanti ricerche riguardanti soprattutto la storia di antiche istituzioni giuridiche e delle prime istituzioni cristiane – familiari, politiche ed economiche. Relativamente alle istituzioni familiari vanno segnalati i suoi studi sul matrimonio nel giudaismo antico e nel Nuovo testamento; e relativamente alle istituzioni politiche, i suoi scritti su Gesù e gli zeloti, sulla teocrazia nell’antico Israele, sul problema del potere politico degli israeliti al tempo di Gesù. Quanto alle istituzioni economiche, i più importanti studi di Tosato sono stati raccolti nel volume Vangelo e ricchezza. Nuove prospettive esegetiche, del 2002. Tosato si è spento in Roma il 30 aprile del 1999.

Nel primo capitolo della seconda parte di questo volume, Tosato rievoca la lettura ingenua, acritica, astorica e ascientifica dei testi sacri, nella quale si perpetua l’opinione circa la condanna evangelica della ricchezza e dei detentori della ricchezza, e circa l’esaltazione dei poveri e l’esortazione ad abbracciare lo stato di povertà. E proprio dinanzi al quadro che viene fuori dalla versione vulgata sull’insegnamento evangelico relativo alla ricchezza, Tosato reagisce affermando che si tratta di una prospettiva dannosa e inattendibile.

Dannosa sul piano teorico e sul piano pratico, l’opinione diffusa relativamente all’insegnamento evangelico circa la ricchezza è anche inattendibile in quanto contraria al più elementare buon senso e in quanto largamente contraddetta dalla prassi e combattuta dalla dottrina ufficiale della Chiesa. Dannosa e inattendibile, tale opinione è per Tosato anche falsa. Si tratta di «una congerie di luoghi comuni» [Tosato 2002, p. 326], che vanno smascherati tramite un attento studio esegetico. La lettura esegetica dei testi evangelici, condotta con esemplare acutezza e rigore, lo porta a concludere che il Vangelo non condanna come demoniaca la ricchezza terrena, ma denuncia piuttosto il fatto che essa sia caduta nelle mani del Demonio e dei suoi servitori; che il Vangelo non condanna i ricchi in quanto tali, né impone loro di sbarazzarsi della loro ricchezza, ma esalta il tradizionale loro dovere di fare elemosine. Così, l’aut aut (si pensi al detto evangelico «Non si può servire a due padroni […] non potete servire Dio e mammona») non sta – secondo Tosato – «tra Dio e ricchezza»; sta invece tra il «servire» (douléuein) a Dio e il «servire» (douléuein) alla Ricchezza. Soltanto in questo secondo caso sussiste l’incompatibilità, e per questo «appare del tutto arbitrario leggere il detto in esame come una condanna radicale del perseguimento della ricchezza, quasi che la ricchezza sia di per sé demoniaca. Quel che il detto condanna è che il fedele proceda, lui, a modificare la natura della ricchezza, trasformandola in anti-Dio, rendendola demoniaca, Demonio» [ivi, pp. 340-341].

La critica nei riguardi dell’interpretazione ingenua, falsa, dannosa e diffusa dei testi sacri relativi alla problematica della ricchezza e il denaro rappresenta un contributo di fondamentale importanza delle ricerche esegetiche di Tosato. Gli esiti da lui ottenuti lo hanno avvicinato al pensiero di Michael Novak. Presentandone l’opera Lo spirito del capitalismo democratico e il cristianesimo, Tosatoscrive che «dal confronto tra i socialismi reali (anche i più “liberalizzati”) e i capitalismi reali (anche i meno “socializzati”) emerge un’indicazione univoca: la strada che più e meglio conduce i popoli al benessere, elevandone maggiormente il tenore di vita, non è il sistema economico socialistico, ma quello capitalistico». E aggiungeva: «l’anticapitalismo e il filosocialismo, che fino a ieri potevano venire ostentati come distintivi di elevatezza di mente e di nobiltà d’anima, appaiono oggi non di rado come indizio di arretratezza culturale e di asservimento a interessi di parte» [ivi, pp. 460-461]. Certo, Tosato non ritiene che il sistema capitalistico riproduca l’Eden né tanto meno che rappresenti il Regno di Dio, ma, come Novak, egli sostiene che, in ogni caso, esso «è quanto di meno peggio si sia riusciti finora ad attuare» [ivi, p. 426].

Se i risultati del lavoro esegetico hanno avvicinato Tosato alla prospettiva cattolico-liberale di Novak, questi stessi risultati ne hanno sicuramente arricchito e ampliato, l’orizzonte e, soprattutto con la demolizione della lettura ingenua dell’insegnamento evangelico circa la ricchezza e i ricchi, hanno strappato dalle mani degli avversari degli aderenti alla tradizione del cattolicesimo liberale l’arma più insidiosa. «Il Vangelo annunciato da Gesù a Israele, e affidato alla comunità cristiana per l’annuncio a tutte le genti è “il vangelo della grazia di Dio”. Della “grazia” e non della “disgrazia”. Questa “grazia” divina presuppone la bontà della natura umana e la perfeziona, non la distrugge; segna un nuovo inizio della storia umana, non la sua fine; promuove ogni tipo di ricchezza, combatte ogni tipo di povertà» [ivi, p. 347].

Bibliografia

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Brano tratto dal "Dizionario del liberalismo italiano", edito da Rubbettino Editore. Clicca qui per acquistarlo con il 15% di sconto