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Camera dei deputati

di Antonio Casu

Le origini

«Adunatasi la Camera verso un’ora pomeridiana in una sala al piano terra del Palazzo Carignano, non trovandosi ancora preparato il locale destinato alle sue sedute, il decano di età avv. Vitt. Fraschini occupa il seggio della Presidenza». Con queste parole, che ci restituiscono l’atmosfera ancora approssimativa ma già solenne che ne accompagnava la nascita, apriva i suoi lavori, nella tornata dell’8 maggio 1848, la Camera dei deputati.

Introdotta nell’ordinamento costituzionale degli Stati italiani preunitari con la Costituzione del Regno di Napoli del 10 febbraio 1848, la Camera dei deputati compare subito dopo nello Statuto albertino del 4 marzo 1848, e rappresenta, nel modello bicamerale sancito dall’art. 3, la Camera elettiva, cioè la Camera bassa di precedenti esperienze europee, destinata ad affiancare la Camera alta, di nomina regia, il Senato.

Le fonti di ispirazione di tale modello erano state, in particolare, le costituzioni francesi dell’epoca della Restaurazione, del 1814 (art. 14) e del 1830 (art. 15), e quella belga del 1831 (art.26). Il carattere rappresentativo del modello statutario, che guardava all’esperienza della Camera dei Comuni inglese, era rafforzato dal divieto di mandato imperativo (art. 41) che – formalmente taciuto dalle suddette Carte del 1814 e del 1830, ancorché mantenuto in via di prassi – si richiamava all’art. 7 della Cost. francese del 1791, confermato dall’art. 42 della Cost. del 1795, ed espressamente ribadito dall’art. 32 della Cost. belga del 1831. Anche la durata quinquennale del mandato (art. 42) era una eredità della Cost. del 1814, che aveva ridotto il termine più ampio stabilito con l’Atto settennale del 1716.

Lo Statuto è una Costituzione ottriata, come d’altronde tutte quelle coeve, tranne lo Statuto del Regno di Sicilia del 1848 e la Costituzione della Repubblica romana del 1849. Sin dalle sue origini, il carattere liberale della Carta fu quindi interpretato diversamente dagli ambienti vicini alla Corona, che ne ribadivano la natura octroyée, come ribadito nel Consiglio di Conferenza del 3 febbraio 1848, e dai riformatori, che lo ritenevano un patto tra la monarchia e la nazione, i cui diritti preesistevano alla concessione.

La divisione dei poteri era ancora tendenziale. Il potere legislativo, a norma dell’art. 8, era affidato al Re e al Parlamento (a differenza della Carta francese del 1814) delineando dunque un modello di iniziativa legislativa concorrente, mentre l’art. 7 riservava al Re il potere di sanzionare e promulgare le leggi, conferendogli un ruolo di garanzia generale dell’ordinamento, che in epoca repubblicana sarebbe stato ereditato dal Presidente della Repubblica e, con specifico riferimento al sindacato di costituzionalità sulle leggi, dalla Corte costituzionale.

Il potere esecutivo, a norma dell’art. 5, era conferito interamente alla Corona. La sanzione regia nella funzione legislativa e l’interferenza governativa nell’ordinamento giudiziario (al potere giudiziario non era garantita l’indipendenza dall’esecutivo) rendevano i pubblici poteri interdipendenti e sottoposti alla volontà sovrana del Re. Lo Statuto delineava quindi una forma di monarchia costituzionale pura, che rimetteva al sovrano la titolarità del potere esecutivo attraverso personale politico di sua fiducia. Conseguentemente, alla Camera elettiva, più che a quella di nomina regia, spettava la funzione di controllo sull’attività del governo.

La trasformazione della monarchia costituzionale pura in parlamentare-rappresentativa fu un processo graduale. Non prevista espressamente dallo Statuto (il quale anzi recita all’art. 66 che «il re nomina e revoca i suoi ministri»), tale trasformazione fu dunque affidata in particolare al consolidarsi della prassi del rapporto di fiducia tra Parlamento e governo e alla scelta del Re di conformarsi alla volontà delle Camere in ordine alla scelta dei ministri.

Un processo, questo, che si era avviato in Inghilterra nel 1741 con le dimissioni di Walpole per voto contrario della sua maggioranza, precedente dal quale dunque può datarsi l’istituto del premierato; che si era consolidato nel 1782, allorché Lord North rassegnò le sue dimissioni al sovrano con l’esplicita motivazione di non poter restare al suo posto senza la fiducia della maggioranza parlamentare; e che poteva dirsi concluso nel 1834 con il fallimento del tentativo in favore dei conservatori da parte di Guglielmo IV; mentre in Italia si ritiene generalmente che ciò sia avvenuto, grazie anche al carattere flessibile della Carta del 1848, solo con Cavour e Vittorio Emanuele II.

Il modello bicamerale

Nel modello parlamentare, il rapporto tra i due rami del Parlamento è stato originariamente improntato a un bicameralismo di ispirazione anglosassone, che assegnava alla Camera elettiva la rappresentanza politica della collettività nazionale, e alla Camera di nomina regia, i cui membri non avevano alcun limite numerico ed erano individuati nell’ambito di ventuno categorie ben determinate, la funzione di garanzia degli interessi della Corona.

In sostanza, secondo le impostazioni politiche vicine alla Corona, mentre la Camera incarnava il progetto del parlamentarismo, inteso come forma costituzionale del riconoscimento del ruolo di governo del Paese nei confronti della classe dirigente liberale, il Senato avrebbe dovuto rappresentarne in qualche misura l’antidoto alla paventata rottura del monopolio monarchico della decisione politica. Tuttavia, il disegno costituzionale statutario attribuiva alla sola Camera la facoltà di ricorrere al voto di fiducia e, sul piano delle competenze legislative, prevedeva che le leggi finanziarie e di bilancio venissero presentate ed esaminate in prima lettura presso la Camera.

Le ricorrenti tensioni tra i due rami del Parlamento sull’estensione e sull’interpretazione degli ambiti di applicazione di quest’ultima previsione statutaria, ed ancor di più sui limiti al potere emendativo del Senato su tali leggi, trovarono componimento, se non sul piano formale, in una prassi che spesso configurava l’opposizione del Senato sui provvedimenti approvati in prima lettura dalla Camera come una sorta di veto sospensivo, che non veniva reiterato dopo la seconda approvazione.

Si trattava ovviamente di una soluzione essenzialmente politica, di indole compromissoria, destinata ad affievolirsi nei casi di irriducibile conflittualità politica, come dimostrò ampiamente il dibattito sull’abolizione della tassa sul macinato, che portò alle dimissioni del primo governo Depretis e, dopo due tentativi infruttuosamente esperiti da Cairoli, allo scioglimento anticipato della XIII legislatura. La questione del rapporto tra i poteri delle due Camere, irrisolto sul piano formale, in quell’occasione trovò soluzione in virtù del responso elettorale, che consentì alla Camera di approvare la legge nella formulazione originaria.

Il precedente testé richiamato sembra prefigurare una costante del sistema politico: il ricorso a soluzioni politiche per affrontare nodi istituzionali irrisolti sul piano formale, che di fatto rinvia la soluzione dei problemi ai rapporti di forza tra gli schieramenti contrapposti. Una costante che, come si vedrà più oltre, si riscontra anche nel processo di riforma costituzionale avviato con alterne fortune in epoca repubblicana.

Un altro elemento fondamentale del rapporto tra le due Camere, che si rifletteva anche sulla differente operatività delle stesse, ineriva alla rispettiva composizione, che rifletteva ceti e interessi differenti. La Camera, rispetto al Senato, esprimeva una più chiara rappresentatività dei ceti medi produttivi, sebbene si trattasse di una rappresentanza ristretta e censitaria.

Una spinta verso una più marcata rappresentatività della Camera venne dunque dal processo di unificazione nazionale, compiuto in settant’anni, che rese necessario selezionare e formare una classe dirigente nazionale che da una parte doveva progressivamente rappresentare non più solo l’aristocrazia, ma anche l’emergente borghesia produttiva, e dall’altra estendersi oltre i confini dell’antico Regno di Sardegna, amalgamandosi, con alterni risultati, con i ceti dirigenti locali.

In realtà, l’unificazione sotto un unico regime politico e giuridico di realtà socio-economiche anche molto eterogenee, se da un lato fu il tentativo della dirigenza liberale di sfuggire all’alternativa radicale tra mazziniani e cattolici, dall’altro non fu esente da forzature, provocando, specialmente nelle regioni meridionali, una violenta e complessa reazione legittimista, il «brigantaggio». Un decisivo fattore di rappresentatività derivò, in particolare nei primi due decenni del Novecento, dalla progressiva apertura dell’arco politico ai nuovi movimenti politici che sul finire dell’Ottocento si affacciarono sulla scena nazionale, in particolare socialisti e cattolici.

L’avvento della Costituzione repubblicana portò a interrompere definitivamente questa differenza di ruoli tra le due Camere, che era venuta meno solo durante la parentesi della Camera dei fasci e delle corporazioni, non più elettiva ma di nomina governativa. Il Titolo I della parte seconda della Costituzione disegna un bicameralismo perfetto, che non risulta minimamente indebolito dalla differente modalità di elezione (a suffragio universale diretto, per la Camera, e su base regionale, per il Senato). Anche l’originaria differenza relativa alla durata del mandato, cinque anni per la Camera e sei per il Senato, non essendosi inverata nella prassi, è stata abolita con la legge costituzionale 9 febbraio 1963, n. 2, uniformando il termine del Senato a quello della Camera.

In ogni caso, il Costituente ha esperito una soluzione di salvaguardia dei rischi potenzialmente incombenti sul bicameralismo a motivo della differente composizione politica delle due Camere: il Parlamento in seduta comune. Proprio per questa sua natura, si tratta di un organo assolutamente definito: sia nelle funzioni, del massimo rilievo istituzionale e tassativamente individuate; sia nella composizione, che risulta dall’insieme di deputati e senatori; sia nella Presidenza, quella della Camera (in virtù della sua maggiore rappresentatività e a compensazione del ruolo vicario conferito al Presidente del Senato nei confronti del Presidente della Repubblica); sia nelle norme che lo reggono, il regolamento della Camera. Si discute in dottrina se si tratti di un mero seggio elettorale, risultante dalla giustapposizione dei due collegi elettorali, o invece di un collegio perfetto, come viene argomentato sulla base di una norma, peraltro significativamente presente nel solo regolamento del Senato (art. 65), che prevede per tale organo la possibilità di stabilire norme diverse.

La Costituzione prevede un’ulteriore possibilità di compensazione tra i due rami del Parlamento: la Commissione bicamerale per le questioni regionali, con funzioni consultive nel procedimento di scioglimento dei consigli regionali. La prassi repubblicana ha poi incentivato l’utilizzo delle Commissioni bicamerali, che hanno di fatto ritagliato uno spazio politico ulteriore (la «terza Camera») rispetto a quello proprio dei due rami, con prevalenti attività consultive ma anche di inchiesta e di indagine. In tale ambito si colloca anche il Comitato parlamentare per i procedimenti di accusa, istituito dalla legge costituzionale n. 1 del 1989.

Nel corso del tempo, la parità di funzioni tra le due Camere è stata ritenuta una delle con-cause della lentezza della decisione politica rispetto all’impetuoso emergere della domanda sociale di tempestività e semplificazione della formazione statale dei rapporti economici e sociali, ed è stata quindi oggetto di numerosi progetti di riforma costituzionale, tesi a differenziarne le funzioni.

Questo processo è sfociato, allo stato, nel disegno di legge di revisione della parte II della Costituzione approvato dalle due Camere nel 2007, ma non promulgato a seguito di richiesta di sottoposizione a referendum popolare, che ha poi dato esito non favorevole all’approvazione della legge costituzionale. Tale progetto segna il superamento del bicameralismo perfetto a favore di un tendenziale monocameralismo, in virtù dell’attribuzione alla Camera della funzione legislativa esclusiva e al Senato, riconfigurato come Camera federale, della determinazione dei principi fondamentali nelle materie di competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni. Un secondo punto fondamentale è il riequilibrio del rapporto Parlamento-governo a vantaggio di quest’ultimo, nel quale si rafforza la figura del Primo ministro, nominato dal presidente della Repubblica sulla base dei risultati elettorali della Camera, e il cui governo riceve la fiducia della sola Camera.

Linee evolutive dell’elettorato attivo e passivo

Data la stretta relazione esistente tra l’avvio dell’esperienza costituzionale italiana e il processo risorgimentale di unificazione nazionale, il carattere rappresentativo della Camera si accrebbe progressivamente, sia per l’annessione di nuovi Stati sia per la crescente partecipazione dei ceti borghesi produttivi alla decisione politica. L’ampliamento dei confini dello Stato unitario implicava pertanto la necessità di continui adeguamenti del numero dei deputati e della legislazione elettorale, sia attiva che passiva. Nel secolo di vigenza dello Statuto, il numero dei deputati è passato dagli originari 204 del Regno di Sardegna nel 1848 ai 443 del nuovo Regno d’Italia nel 1860, fino ai 535 del 1921, all’indomani del primo conflitto mondiale, per passare da 574 a 630 in epoca repubblicana.

Questo profondo cambiamento si è naturalmente riverberato sull’elettorato attivo, accompagnando il trapasso dalla democrazia liberale allo Stato democratico di massa. L’allargamento della base popolare del costituzionalismo italiano, e in definitiva la transizione dallo Stato aristocratico a quello borghese, fu un processo lento e graduale, ben diverso da quello di altre realtà nazionali mature, che avevano conseguito questo risultato ben prima, a partire da quella inglese che sin dal 1832, con il Reform Bill, aveva quasi triplicato il numero degli aventi diritto al voto (da 160 mila a 450 mila).

Nonostante l’art. 39 dello Statuto non ponesse espressamente limiti al riguardo, rinviando alla legge di attuazione (sull’esempio dell’art. 40 della Carta francese del 1814), il diritto di voto fu originariamente limitato agli elettori di sesso maschile, di età non inferiore ai 25 anni. Dopo essere stato più volte modificato su base culturale e censitaria, solo nel 1919 il voto venne riconosciuto a tutti gli elettori maschi, fissando il limite di età a 21 anni.

Solo nel 1948, in base all’art. 48 della nuova Costituzione, l’elettorato attivo è stato esteso alle donne. In base a tale articolo, che garantisce il diritto di voto ai cittadini che hanno raggiunto la maggiore età, la legge ha fissato il limite di età in 21 anni per la Camera, poi portati a 18 nel 1975, e in 25 anni per il Senato.

Quanto all’elettorato passivo, l’elezione dei deputati è avvenuta fino al 1882 in collegi uninominali, dal 1882 al 1891 con il sistema del voto limitato, dal 1891 al 1919 ancora con i collegi uninominali, sostituiti dal sistema proporzionale a liste concorrenti dal 1919 fino al 1923, l’anno della legge Acerbo che prelude alle due legislature con lista unica e alla parentesi della Camera dei fasci e delle corporazioni. A partire dal 1946, sin dalle elezioni dell’Assemblea costituente, il sistema elettorale adottato dall’Italia repubblicana, sia pure con progressivi aggiustamenti, è stato quello proporzionale a liste concorrenti in collegi plurinominali (a eccezione della Val d’Aosta).

Un sistema, questo, che poggiava sul ruolo dei partiti, che avevano costituito l’ossatura del nuovo sistema politico dopo la caduta del regime totalitario. Tale sistema si è mantenuto per molti decenni, con la temporanea eccezione costituita dal premio di maggioranza, introdotto nel 1953 (con la cosiddetta «legge truffa») e abolito l’anno seguente, dopo che le elezioni del 1953 non avevano sortito i frutti sperati dai proponenti. Questo sistema è entrato in crisi negli anni Novanta per ragioni di ordine internazionale e nazionale.

L’evoluzione delle relazioni internazionali conseguente alla caduta del Muro di Berlino e all’esaurimento de facto della divisione del mondo seguita agli accordi stipulati dalle potenze alleate a Yalta, sul piano esterno, e la crisi di delegittimazione politica che si è manifestata durante la undicesima e la dodicesima legislatura repubblicana, a seguito della cosiddetta «operazione mani pulite», su quello interno, hanno comportato il declino dei partiti storici, aggregati sulla base delle rispettive ideologie, e l’avvio di una fase politica nuova, contrassegnata da un bipolarismo di coalizione e dal passaggio dal sistema proporzionale a quello maggioritario, alla stregua di quanto avveniva anche, in larga prevalenza, per le elezioni amministrative.

La riconversione del sistema elettorale al maggioritario è stata caratterizzata da un andamento tutt’altro che lineare. Dopo due tornate referendarie che introdussero la preferenza unica, nel 1991, e l’adozione per il Senato di un nuovo sistema elettorale maggioritario di collegio, con recupero proporzionale di un quarto dei seggi, nel 1993, si dette infatti corso alla revisione del sistema elettorale delle due Camere.

Alla Camera, la legge n. 277 del 1993, la cosiddetta «legge Mattarella», prevedeva il voto su due distinte schede elettorali, secondo meccanismi differenti. Il primo voto, ispirato al principio maggioritario, consentiva l’assegnazione del 75 per cento dei seggi al candidato che avesse riportato il maggior numero di voti; mentre il secondo serviva all’attribuzione del restante 25 per cento dei seggi, su base proporzionale, alle liste che avessero oltrepassato a livello nazionale la soglia di sbarramento del 4 per cento.

La riforma prevedeva anche un meccanismo di raccordo tra le due espressioni di voto, cioè il cosiddetto «scorporo»: i seggi della quota proporzionale venivano assegnati alle varie liste sottraendo dai voti ottenuti quelli conseguiti nei collegi uninominali dai candidati vincenti collegati alle liste stesse. Poiché tale meccanismo comportava il rischio di una dispersione dei voti eccedenti quelli necessari ad aggiudicarsi il collegio, nelle elezioni del 2001 si ricorse a un escamotage: il collegamento di molti candidati non con le liste di appartenenza ma con le cosiddette «liste civetta», che non avrebbero avuto successo sulla quota proporzionale. L’eccessivo ricorso a questo espediente ha prodotto un risultato negativo: l’impossibilità di procedere al ripescaggio dei candidati risultati non eletti nel collegio uninominale per l’assegnazione dei seggi da attribuire al partito Forza Italia al quale, in base al meccanismo elettorale, spettavano più seggi di quanti fossero i candidati al proporzionale.

Si rese così necessario procedere a una ulteriore revisione della legge elettorale, a seguito della quale, con la legge n. 270 del 2005, si è tornati al sistema proporzionale, ma con premio di maggioranza, da attribuire al partito che abbia conseguito la maggioranza relativa senza raggiungere la quota del 55 per cento dei voti. Per raggiungere la quota di 340 seggi alla Camera, tale premio ha dunque, in dipendenza dell’esito elettorale, una consistenza variabile, ed è assegnato su base nazionale, mentre per il Senato su base regionale.

Un altro elemento degno di nota è il riconoscimento ai candidati della possibilità di presentarsi in tutte le circoscrizioni (le cosiddette candidature «plurime»). Una scelta, questa, che ha determinato non poche critiche, e anche una proposta di referendum abrogativo, sulla base dell’assunto che in tal modo non si consente all’elettore di conoscere in anticipo i suoi rappresentanti, ciò che avviene, dopo le elezioni, una volta esercitato il diritto di opzione.

In sintesi, la riforma del 2005 sembra avere oggettivamente rafforzato il bipolarismo e la logica di coalizione, nonché il ruolo delle leadership delle coalizioni stesse; ma non sembra aver risolto i problemi concernenti l’effettiva rappresentatività degli eletti in ordine sia all’assegnazione ai segretari dei partiti della responsabilità esclusiva della compilazione delle liste elettorali sia alla corrispondenza tra il voto espresso e il candidato effettivamente eletto.

Il sistema delle garanzie

L’esigenza di garantire l’indipendenza del potere legislativo rispetto agli altri poteri, e più in generale di tutelare la funzione parlamentare, ha comportato il progressivo consolidarsi di un sistema di garanzie a favore del Parlamento.

Di tale sistema – oltre al divieto di mandato imperativo, mantenuto dall’art. 67 Cost. in continuità con la previsione dell’art. 41 dello Statuto – sono corollari indefettibili, come efficacemente ribadito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 231 del 1975: il potere di auto-normarsi, la competenza alla convalida dei suoi membri e la previsione di fondamentali immunità.

La Costituzione repubblicana ha infatti ripristinato il sistema di garanzie affermate dallo Statuto, vulnerato nel 1926 con la dichiarazione di decadenza a danno dei deputati «Aventiniani». Garanzie che, correttamente intese, sono da riferire allo status di parlamentare solo a titolo derivato, perché connesse innanzitutto all’esercizio della funzione parlamentare.

Il potere di autonormarsi si invera nell’autonomia normativa e organizzativa, di cui l’art. 64 Cost. fa espressa riserva a favore di ciascuna Camera, e che si realizza innanzitutto mediante il riconoscimento ai regolamenti parlamentari del rango di fonti primarie, al pari della legge ordinaria, subordinate solo alla Costituzione. Tali regolamenti disciplinano le attività parlamentari e costituiscono il fondamento del corpo di norme interne che regolano l’attività amministrativa.

La competenza di ciascuna Camera di giudicare i titoli di ammissione dei suoi componenti, consolidata dall’art. 66 Cost., consiste nell’autonoma capacità di autocertificazione della regolarità dell’esito della tornata elettorale. La proclamazione dei deputati eletti, che diviene definitiva dopo la cosiddetta verifica dei poteri, si concreta in definitiva in una deliberazione di legittimità che ha per oggetto la sussistenza dei requisiti personali e la regolarità delle operazioni elettorali. Tale potere si estende ovviamente anche alle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità, ed è esercitato in via istruttoria mediante un organo ad hoc, la Giunta delle elezioni.

Il paradigma delle immunità è rappresentato, ancorché non esaurito, nell’art. 68. La norma disciplina due fondamentali immunità: l’insindacabilità e l’inviolabilità personale.

L’insindacabilità per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio della funzione parlamentare, sancita per la prima volta dall’art. 9 del Bill of Rights del 1689, costituisce la garanzia a favore del diritto di espressione dei rappresentanti del popolo. L’inviolabilità della persona, cioè l’impossibilità per il parlamentare di essere sottoposto a procedimento penale, ad arresto o a detenzione senza la preventiva autorizzazione della Camera di appartenenza, riecheggia gli artt. 7 e 8 della Costituzione francese del 1791 e rappresenta l’attribuzione al Parlamento di una prerogativa in precedenza riservata soltanto al sovrano.

La legge costituzionale n. 3 del 29 ottobre 1993, nel quadro di una rilevante tensione tra il potere legislativo e quello giurisdizionale, ha modificato l’originaria formulazione dell’art. 68 della Costituzione nel senso di escludere la necessità dell’autorizzazione parlamentare – istruita da un organo apposito, la Giunta per le autorizzazioni a procedere, e deliberata a titolo definitivo dall’Assemblea – per l’esercizio dell’azione penale e lo svolgimento delle indagini nei confronti dei parlamentari, necessità che permane nei confronti di una richiesta di arresto. Alla modifica ha corrisposto, nella prassi successiva, un’interpretazione estensiva dell’insindacabilità nei confronti dell’azione giurisdizionale e anche una maggiore invocazione del fumus persecutionis cosiddetto soggettivo, riferito cioè non alla fondatezza dell’azione penale, ma alla scelta dei tempi e delle relative modalità.

Il sistema delle garanzie è completato da altri istituti posti a tutela dell’indipendenza dei parlamentari. Sotto il regime dello Statuto, in presenza di un ceto politico ristretto e censitario, l’attività parlamentare era svolta a titolo gratuito, ed era in origine prevista solo una diaria, successivamente affiancata anche da un’indennità. Compiuta la transizione al sistema democratico di massa, che ha comportato la nascita di un ceto politico professionale, la Costituzione riconosce ai parlamentari anche un’indennità (art. 69), non quantificata per legge, la cui progressione è agganciata a quella dei presidenti di sezione della Corte di cassazione. L’indennità e la diaria sono dunque disciplinate dagli organi di autoamministrazione delle due Camere, gli Uffici di presidenza.

Di natura consuetudinaria è poi l’immunità di sede, che discende dalla King’s peace, consistente nel potere delle Camere di non consentire l’accesso alle proprie sedi, e di mantenere autonoma giurisdizione sull’ordine pubblico interno, valendosi sia di personale interno sia di personale delle forze dell’ordine, carabinieri e polizia, posti dalle rispettive amministrazioni alle dipendenze funzionali dei due Presidenti di assemblea. Quantunque formalizzato di recente dal regolamento della Camera, all’articolo 12, comma 3 (ma non da quello del Senato), non sfugge che l’effettiva vigenza di tale prerogativa dipenda da un decreto ministeriale delle amministrazioni di appartenenza. L’immunità delle sedi parlamentari, baluardo storico dell’indipendenza dall’esecutivo, è dunque assicurata da un atto di quest’ultimo.

Le funzioni

Le profonde trasformazioni economiche, politiche e sociali che hanno caratterizzato oltre centosessanta anni di storia italiana, e che hanno trovato nell’evoluzione dell’istituto della rappresentanza politica la loro paradigmatica espressione, rendono obsolete le tradizionali classificazioni delle funzioni parlamentari, elaborate da Bagehot in poi, che mantengono una relativa validità sistematica soprattutto a fini didattici.

Ciò è dovuto in particolare a cinque ordini di fattori: il trapasso relativamente repentino da una società prevalentemente agricola a una industriale a una post-industriale; la transizione da un piccolo Stato regionale a uno nazionale con spiccate autonomie regionali; la tensione tra i processi di integrazione sovrannazionale e il riaffermarsi delle istanze localistiche; la sostituzione dei processi migratori verso l’estero con flussi migratori dall’estero; l’evoluzione delle scienze e delle tecnologie, con conseguente trasformazione delle condizioni di vita e dei rapporti di lavoro.

Un simile quadro di trasformazione epocale ha fatto esplodere lo schema ottocentesco della legge come strumento generale di regolazione degli interessi e di risoluzione dei conflitti sociali. La domanda di tutela dei diritti e delle relazioni sociali ha richiesto progressivamente tempi e modalità di intervento sempre più snelli ed efficaci, inducendo per certi versi, dati i tempi delle relative procedure parlamentari, un arretramento della domanda di legificazione, a vantaggio di forme di regolamentazione non legislativa.

Si spiegano così fenomeni quali la contrazione della attività legislativa del Parlamento a vantaggio di quella del governo, la proliferazione di strumenti di natura regolamentare rispetto a quelli legislativi, e la conseguente espansione delle altre funzioni parlamentari, specialmente quelle che interagiscono in modo più diretto con le attività dell’esecutivo, in particolare la funzione di indirizzo politico, connessa al rapporto fiduciario, ma anche quelle di controllo, conoscitive e informative. Su un altro versante, il Parlamento ha gradualmente svolto anche una crescente funzione di coordinamento tra le istituzioni sovrannazionali e il sistema delle autonomie, anche a fronte del ridimensionamento della legislazione nazionale nei confronti della normativa comunitaria, da un lato, e di quella regionale, dall’altro.

È stato conseguentemente indispensabile incrementare gli strumenti di governo della complessità istituzionale. Data la riserva costituzionale a favore dell’autonomia normativa delle Camere, sono stati i regolamenti parlamentari il terreno nel quale il corpo politico si è fatto carico di questa esigenza, in particolare in direzione di una maggiore trasparenza e responsabilità (con la riforma del voto segreto), di una più marcata produttività (con l’introduzione di istituti quali la programmazione dei lavori, il contingentamento dei tempi di esame e della durata degli interventi), di una effettiva sostenibilità finanziaria dei provvedimenti di spesa (attraverso l’esperimento di procedure tipizzate per l’esame delle leggi finanziarie e di bilancio, così da garantire l’attuazione del disposto dell’art. 81 Cost.).

L’organizzazione

L’organizzazione della Camera, funzionale all’espletamento della sua funzione principale, quella legislativa, si era inizialmente fondata sul sistema degli Uffici, nei quali venivano ripartiti, all’inizio di ogni sessione, i deputati.

Gli Uffici, un istituto mutuato dall’esperienza costituzionale francese, erano composti di deputati scelti mediante sorteggio in seduta pubblica. Erano fissati originariamente nel numero di sette e poi nove alla Camera, e cinque al Senato. Ciascun Ufficio esaminava i progetti di legge senza procedure prefissate e, al termine dell’esame, nominava uno o due commissari. L’insieme dei commissari formava una commissione, l’Ufficio centrale, che dopo un ulteriore esame designava uno o più relatori incaricati di riferire all’Assemblea sul progetto in esame.

Sorteggio e breve durata miravano ad assicurare l’indipendenza degli eletti, ma escludevano di fatto, sull’altare di una concezione generalistica della rappresentanza, il principio di competenza, ed erano anche il segno di un sistema politico che non intendeva incoraggiare il ruolo dei partiti. Proprio quest’ultima ragione non favorì il consolidamento del sistema detto dei Comitati, maturato infatti nel contesto inglese, che fu sperimentato senza successo nel solo quinquennio 1868-1873, dopo il quale si ritornò al sistema degli Uffici.

Fu soltanto nel 1920-1922 che tale metodo fu abolito, non a caso contestualmente alla costituzione di gruppi parlamentari, in favore della costituzione di Commissioni permanenti competenti per materia, composte da deputati designati proprio dai gruppi proporzionalmente alla rispettiva consistenza. Il nuovo sistema, che riconosceva tardivamente la funzione dei partiti organizzati, fu abrogato dopo le elezioni politiche del 1924, e significativamente ripristinato, insieme all’impianto generale del regolamento parlamentare prefascista, nel nuovo Stato democratico, edificato proprio sul riconoscimento della funzione storica dei partiti di massa.

L’organizzazione della Camera imperniata sul sistema delle Commissioni permanenti, in epoca repubblicana, si è mantenuta sostanzialmente inalterata.

Al di là del numero (attualmente sono quattordici) e delle competenze (riformate l’ultima volta con la riforma regolamentare del 1° agosto 1996), la loro funzione ha acquisito importanza fondamentale con il riconoscimento della possibilità di completare l’iter legislativo con l’approvazione delle leggi (sede legislativa), non limitandosi solo all’esame del progetto e al conferimento al relatore del mandato a riferire all’Assemblea (sede referente), in un procedimento decentrato rispetto a quello ordinario.

Una possibilità subordinata tuttavia alla verifica di un triplice livello di consenso: Il primo consenso, esterno rispetto alla Commissione, deve provenire dal governo. Il secondo, ancora esterno ma endoparlamentare, è quello delle cosiddette Commissioni-filtro, e segnatamente delle Commissioni: affari costituzionali, per gli aspetti di legittimità costituzionale; bilancio, per i progetti implicanti spese o diminuzione delle entrate; lavoro, per gli aspetti concernenti il pubblico impiego; e altre ancora, qualora il progetto di legge investa in maniera rilevante le loro competenze. Infine, il terzo livello di consenso deve maturare all’interno della Commissione, e non può essere inferiore ai quattro quinti della stessa. In questo sistema di garanzie, che devono essere accertate sia prima dell’assegnazione sia durante l’esame, pena la rimessione all’Assemblea, si evidenzia l’esigenza di unitarietà dell’indirizzo politico e del continuum tra maggioranza ed esecutivo.

La scelta di ripristinare l’impianto organizzativo prefascista, puntando sul modello delle Commissioni permanenti, ha reso conseguentemente residuale il ruolo delle Commissioni speciali, alle quali il secondo comma dell’art. 72 Cost. ipotizzava il deferimento di competenze legislative.

Il modello organizzativo è completato dalle Giunte. Si tratta di organi caratterizzati da una natura esclusivamente strumentale rispetto alle attività parlamentari, da una composizione ristretta, e da una differente modalità di scelta dei componenti, non designati dai Gruppi parlamentari ma nominati dal Presidente, peraltro sulla base di indicazioni dei Gruppi stessi. Oltre alla Giunta delle elezioni e alla Giunta per le autorizzazioni a procedere, di cui si è detto, svolge una funzione di grande rilievo la Giunta per il regolamento, competente per l’esame delle proposte di riforma regolamentare.

Quest’ultima Giunta è presieduta dal Presidente di assemblea, garante del buon andamento dei lavori della Camera e massimo responsabile dell’organizzazione interna, dotato di poteri particolarmente rilevanti in materia di programmazione dei lavori (coadiuvato dalla Conferenza dei Presidenti dei gruppi parlamentari), di interpretazione del regolamento, di tutela dell’ordine dei lavori, di coordinamento dell’attività dei soggetti operanti all’interno della Camera, nonché di una rilevante proiezione esterna, anche internazionale (la cosiddetta «diplomazia parlamentare»).

Sul piano politico-istituzionale, la Presidenza ha avuto differenti interpretazioni. Espressione della maggioranza di governo sotto il regime dello Statuto, dalla settima all’undicesima legislatura repubblicana al più alto scranno di Montecitorio è stato eletto un esponente del maggior partito di opposizione. Successivamente, l’incarico è tornato a essere attribuito a un esponente della maggioranza e anzi, nelle legislature XIII, XIV e XV, al leader di un partito minore della maggioranza. La stretta connessione delle personalità prescelte con le differenti fasi politiche fanno propendere per un’interpretazione eminentemente politica del ruolo del Presidente, che non può ricondursi a un ruolo meramente notarile o anche di garanzia.

Sul piano interno, al Presidente è riconosciuta anche la direzione amministrativa della Camera. È una responsabilità per la quale è affiancato dall’Ufficio di presidenza, organo elettivo di autogoverno composto da quattro vicepresidenti, da tre deputati Questori e da alcuni Segretari, il cui numero, variabile nel tempo, risulta dal contemperamento del principio di rappresentatività dei Gruppi parlamentari (un Segretario per ciascun Gruppo) con quello di proporzionalità (un Segretario in più per i Gruppi maggiori).

L’amministrazione parlamentare

Dall’autonomia normativa delle Camere, di cui all’art. 64 Cost., deriva la rispettiva potestà di auto-organizzazione, che si traduce in autonomia amministrativa, contabile, giurisdizionale. Un corollario di tale autonomia è stato la graduale formazione di una vera e propria amministrazione parlamentare.

All’indomani della sua costituzione, la nuova Camera, in sintonia con il modello liberale e risorgimentale, si avvalse, per l’espletamento delle attività amministrative, di collaboratori, peraltro di alto profilo professionale, selezionati in base a uno stretto rapporto fiduciario che si fondava sull’appartenenza alla stessa classe dirigente dell’epoca.

Tuttavia, la crisi del modello liberale e l’ampliamento progressivo degli interessi del ceto politico, chiamato in pochi decenni a misurarsi con crescenti problemi e nuove realtà, rese inevitabile una trasformazione delle funzioni di supporto di quelle parlamentari, al fine di assicurare alla decisione politica un flusso di conoscenze e di competenze sempre più strutturato e qualificato.

Tale processo di trasformazione, dopo alcune oscillazioni e un primo abbozzo di riforma nel 1891, segnò una tappa fondamentale con il regolamento parlamentare del 1907, al quale va ascritta la nascita della prima amministrazione parlamentare in senso moderno. L’articolo 18, in particolare, fa per la prima volta menzione dei «funzionari parlamentari», di cui disciplina in modo dettagliato ruolo e competenze.

Con la riforma che ne seguì, l’amministrazione, alla quale fu riconosciuto un alto grado di autonomia funzionale, fu organizzata in quattro grandi aree, coordinate dal Segretario generale, nelle quali furono distribuiti i vari servizi, retti da altrettante figure apicali: il Segretariato generale (segreteria e archivio; revisione e stenografia; statistica legislativa; retto direttamente dal Segretario generale); la redazione dei processi verbali delle sedute (a cura dell’Estensore); gli uffici di Questura (retti da un Direttore) e la Biblioteca, competente anche per la ricerche e la documentazione (retta dal Bibliotecario).

Sia pure con vari assestamenti, il modello di un’amministrazione parlamentare professionalmente qualificata e dotata di forte autonomia si perpetuò fino all’avvento del regime fascista, e fu anzi oggetto di rilevanti tentativi di pressione anche dopo l’instaurazione del regime totalitario.

In epoca repubblicana è stata contrassegnata da una profonda evoluzione che ha portato a una significativa riorganizzazione delle funzioni di supporto dell’attività legislativa in particolare, negli anni Settanta, sul piano della documentazione e, nei lustri successivi, sul piano amministrativo.

L’amministrazione parlamentare è retta da una serie di regolamenti amministrativi interni, deliberati dall’Ufficio di Presidenza, e diretta da un Segretario generale, che risponde al Presidente, a norma dell’art.67 del reg. Camera (corrispondente all’art. 166 reg. Senato). Una ulteriore manifestazione dell’autonomia giurisdizionale delle Camere è la giurisdizione domestica («autodichia») sulle controversie di lavoro dei dipendenti, affidate a organi e procedimenti interni. Sul piano organizzativo, l’amministrazione si articola in Servizi e Uffici, e svolge molteplici funzioni di supporto del Parlamento in tutti i campi nei quali esso opera, dalla consulenza procedurale alla segreteria tecnica degli organi parlamentari, dalla documentazione alla verifica della qualità della legislazione.

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