Totalitarismo

di Domenico Fisichella

Se vale l’equazione che fissa in almeno cinque millenni la ricorrenza in molte aree del globo e il costante riproporsi di forme (e teorie) politiche totalitarie, ne viene che assai difficilmente il totalitarismo potrebbe essere considerato una novità del XX secolo. Tale modalità di organizzazione del potere politico potrebbe ben essersi presentata anche in detto secolo, ma non ne costituirebbe una sua specificità o tipicità, men che meno una sua esclusiva. È così? Esperienza «nuova», in definitiva, oppure no? Si può cominciare a rispondere vedendo quando nascono, cioè quando si presentano sulla scena, la parola e il relativo concetto.

Questo ha la sua genesi in riferimento alle vicende politico-culturali del fascismo italiano. Salvo prova contraria, l’attributo «totalitario» è registrato per la prima volta in un articolo di Giovanni Amendola nel giornale «Il Mondo» del 12 maggio 1923, ove si parla del fascismo come «sistema totalitario», mentre il primo uso del sostantivo «totalitarismo» risale a un articolo di Lelio Basso nella rivista «La rivoluzione liberale» del 2 gennaio 1925, sempre in riferimento al fascismo, il cui duce Benito Mussolini il 22 giugno dello stesso anno parla di «volontà totalitaria» del suo movimento. Al contrario dei due casi prima citati, qui siamo evidentemente di fronte a un uso apprezzativo della parola, uso protrattosi a lungo, entro e anche fuori l’ambito politico e l’ambiente fascista. In generale, comunque, i concetti di Stato totalitario, partito totalitario e potere totalitario sono presenti nelle culture fascista, nazionalsocialista e falangista, seppure con accenti spesso assai diversi sia tra ciascuna di tali culture sia entro ciascuna di esse, a seconda delle correnti dottrinali.

Il primo richiamo al mondo comunista in chiave di totalitarismo si può leggere, salvo errore, in un articolo del quotidiano «The Times» di Londra nel novembre 1929, ove si fa cenno a una reazione, propria allo stesso tempo del fascismo e del comunismo, contro il parlamentarismo e in favore di uno Stato «totalitario o unitario». Cinque anni dopo, precisamente alla voce Stato della edizione 1934 della Encyclopaedia of the social sciences (la quale, va notato, non comprendeva la voce Totalitarismo), si definiscono totalitari i sistemi politici a partito unico, inclusa l’Unione Sovietica. Gli studiosi di quest’ultimo paese, per converso, classificano come totalitari – a partire dal 1940, secondo il Dizionario dell’Accademia sovietica – i regimi fascista e nazionalsocialista.

Tale breve rassegna genetica consente di mettere in evidenza due cose. In primo luogo, che all’inizio tanto coloro i quali hanno fatto un uso apprezzativo del concetto e delle parole relative, quanto coloro i quali ne hanno fatto un uso non apprezzativo, intendevano comunque sottolineare che totalitarismo sta per l’insieme delle seguenti caratteristiche: assenza di strutture e controlli parlamentari, presenza di un partito unico, rifiuto del pluralismo liberale a favore dell’unitarismo e dell’onnicomprensività. In secondo luogo, che il fenomeno totalitario si iscrive esplicitamente nel contesto del XX secolo e delle sue connotazioni politiche.

Tuttavia, per un verso abbiamo detto che, a partire dal secondo dopoguerra, vi è stato un impiego estensivo e tendenzialmente indiscriminato del concetto di totalitarismo, applicato a forme politiche che vanno – come si è visto – dall’Egitto di cinque millenni or sono alla società industriale avanzata. Per un altro verso, connotare il totalitarismo come un tipo di regime politico caratterizzato da assenza di strutture e controlli parlamentari, presenza di un partito unico, rifiuto del pluralismo liberale non ci fornisce ancora una definizione puntuale, e quindi un adeguato criterio di comparazione tra regime totalitario e altri tipi di regime politico. Tale connotazione, insomma, è un passaggio forse necessario (comunque storicamente presentatosi nella fase genetica del concetto), ma certo non sufficiente. Occorre perciò approfondire e precisare.

Se sviluppiamo la nostra analisi prendendo le mosse dal primo dato di realtà richiamato dalla delimitazione storico-genetica del concetto, vale a dire la presenza di un partito unico, va subito detto che in proposito merita recuperare la distinzione tra regime e movimento: una cosa è il movimento fascista, cosa diversa è il regime fascista (il «ventennio»). Tra l’altro, quello precede questo. In generale, storicamente molti grandi partiti unici sono stati all’inizio partiti di opposizione operanti in contesti competitivi e rappresentativi, pur utilizzando anche modalità di lotta politica non coerenti con le «regole del gioco» del pluralismo competitivo e rappresentativo.

Il criterio del monopartitismo è empiricamente e concettualmente selettivo perché esclude dall’area del totalitarismo sia tutti i regimi politici senza partiti – il grosso, nel corso della storia umana (gruppi, persone e fazioni in lotta per il potere, sempre esistiti, non configurano partiti e non danno luogo a sistemi partitici, che esigono ulteriori condizioni) – sia tutti i regimi politici che hanno più partiti, vuoi in un contesto competitivo (liberal-democratico), vuoi in un contesto non competitivo (sistemi a partito egemone).

Tuttavia, la proprietà monopartitica – che comunque lega in un nesso, peraltro ancora da approfondire, i concetti di movimento e di regime, pure distinti – apre subito un nuovo fronte di interrogativi. Perché i regimi a partito unico presentano caratteri strutturali, funzionali, sistemici, culturali e comportamentali che ne fanno realtà tra loro diversificate? In particolare dove sta, sub specie di monopartitismo, il tratto peculiare del regime totalitario? Per rispondere ai quesiti, occorre evocare il concetto di rivoluzione.

Nella storia delle idee politiche, giuridiche, sociali, vi è un uso (almeno) bivalente della parola «rivoluzione». Talvolta sta per nuovo orientamento dello spirito, come ad esempio nel passaggio dal politeismo al monoteismo. Ma la parola può avere un secondo significato, che è quello rilevante ai nostri fini: in questo caso per rivoluzione si intende l’abbattimento per via interna e in forme illegittime e violente di un regime politico e del relativo ordinamento giuridico, e l’instaurazione di un nuovo regime politico-giuridico. In breve, mentre nel primo caso si configura un mutamento pacifico (o che comunque può essere tale: si pensi, per citare ancora un esempio, alla rivoluzione industriale), nel secondo caso si configura un mutamento sempre e comunque violento.

Orbene, l’instaurazione di un regime totalitario è sempre preceduta e «prodotta» da una guerra civile. Tuttavia nella storia umana la stragrande parte delle guerre civili non è sfociata in regimi totalitari. Parimenti, numerose sono le rivoluzioni che non hanno dato luogo a una forma totalitaria di potere.

Se muoviamo da questa seconda constatazione, è possibile osservare che un proprio, specifico principio di risoluzione pacifica dei conflitti interni esiste in ogni regime. In breve, per quanto diversi sotto il profilo della legittimità, della struttura e «allocazione» potestative, delle tecniche di controllo sociale, dei costi in termini di libertà e uguaglianza, i regimi politici – democratici, aristocratici, autocratici – rispondono sempre a (e comunque si prefiggono) una logica di mantenimento, instaurazione o ripristino della pace sociale e dell’ordine civile.

Solitamente, la conclusione che la condizione di pace è il fine di qualsiasi politica, vale anche per i regimi emersi da un moto rivoluzionario. In questo senso, abbattuto il vecchio regime se ne costruisce uno nuovo. A posteriori, dunque, l’evento rivoluzionario può essere interpretato come una guerra civile in cui sono prevalsi i fautori di profondi mutamenti, i quali si concretano in un nuovo regime politico-giuridico il cui fine è comunque la pace interna.

Per riassumere. Sempre la rivoluzione è un processo di guerra civile, ma non sempre una guerra civile è di stampo rivoluzionario. Sempre la rivoluzione è un processo di mutamento, ma non sempre un processo di mutamento è di stampo rivoluzionario. La rivoluzione consegue al rifiuto del principio vigente di risoluzione pacifica dei conflitti interni (che possono essere di natura politica, economica, sociale, culturale): per conseguenza, questi vengono affrontati e risolti mediante la violenza e dunque per vie illegittime. Tuttavia la rivoluzione si conclude, in tempi relativamente brevi, con l’instaurazione di un nuovo regime e con l’affermazione di un nuovo principio di risoluzione pacifica dei conflitti interni (fuori dell’ambito definitorio, rimane ovviamente aperto il discorso circa i costi della rivoluzione, circa la sua inevitabilità, circa la coerenza e congruenza tra i fini perseguiti e gli esiti realizzati).

Qui giunti, ne sappiamo abbastanza circa il partito unico rivoluzionario dell’esperienza totalitaria? Non ancora. Sappiamo che ci sono partiti unici che non hanno ispirazione e comportamenti rivoluzionari, sappiamo che ci sono partiti unici rivoluzionari. Ma il partito unico totalitario è una species molto particolare di questo secondo genus. Vediamo perché.

La guerra civile che dà luogo al regime totalitario si risolve certamente in mutamenti profondi rispetto al precedente ordine giuridico-politico, ma non si conclude con l’instaurazione di un nuovo principio di risoluzione pacifica dei conflitti interni e di ordine civile. Senza dubbio, un luogo comune vuole che i regimi totalitari si caratterizzino come regimi di ordine, sia pure imposto in forme e con procedure drastiche, e come sistemi fondati su un alto livello di stabilità politica e coerenza interna. Tale convinzione nasce, in buona parte, dal successo che i meccanismi e gli strumenti di repressione e persuasione ottengono nella realizzazione e nel mantenimento di condizioni di «disciplina» sociale e politica. Tuttavia, a un’analisi approfondita tali risultati e tali caratteri si rivelano più apparenti e superficiali che reali. La rivoluzione totalitaria, infatti, non si arresta, e non si «contenta» di mutamenti sia pure sensibili, perché persegue e si prefigge mutamenti «totali».

È opinione diffusa che regime totalitario significhi regime che vuole inglobare e dirigere la totalità dell’esperienza, tanto individuale quanto collettiva. Ora, è ben possibile, anzi probabile, che il regime totalitario acceda a ispirazioni e compia azioni in chiave di onnicomprensività, ma ritenere che la sua vera essenza si esaurisca in tali orientamenti è un errore. Molta parte dell’esperienza totalitaria, infatti, rimane inesplicabile se non si avverte che totalitarismo non sta tanto (o solo) per regime che vuole «inglobare» la totalità, quanto (e soprattutto) per regime che vuole «cambiare» la totalità: inglobare è semmai un modo, o uno stadio, nel processo di trasformazione.

Una rivoluzione può essere politica, può essere anche sociale, può infine essere anche antropologica, tesa a istituire l’«uomo nuovo» nell’«ordine nuovo». È il caso, appunto, della rivoluzione totalitaria, che si prefigge di operare su tutti questi livelli. Animata da ambizioni così radicali e compiute, però, la rivoluzione totalitaria non può fermarsi e concludersi. È rivoluzione «permanente». È movimento che per sé non si arresta (anche se può subire battute d’arresto). Come tale, risponde di necessità a una logica di perpetuazione della guerra civile e del disordine sociale di origine. È lotta continua. Cambiare la totalità, infatti, comporta in principio distruggere tutto ciò che esiste, a livello di strutture e culture, perché ciò che esiste è un «dato», e come tale è già «passato». Correlativamente, cambiare comporta la distruzione dell’alter, la cui colpa è di disturbare con la sua originaria, preesistente diversità di alter il disegno integrale della costruzione futura della nuova società. L’impresa è dunque ciclopica e «definitiva», ed esige tempi e strumenti di distruzione commisurati al fine. Rivoluzione come guerra, perciò, e guerra di lunga durata. In questo senso, rivoluzione come disordine civile istituzionalizzato.

Non mancano nella storia della cultura e del pensiero politico – come testimonia la letteratura sul «messianesimo politico» – progetti e utopie di rivoluzione totale. Tuttavia elemento di novità del regime totalitario, e quindi suo carattere tipologicamente distintivo, è il fatto che tale regime costituisce, sul piano sistemico e struttural-funzionale, la prima (e per ora unica) effettiva attuazione storica di rivoluzione permanente. Ciò soprattutto nel senso che con il totalitarismo la rivoluzione viene per la prima volta trasferita e proiettata dal livello dell’insurrezione dal basso, «contro» il potere, a livello di costante ufficio «del» potere, divenendo rivoluzione dall’alto.

In virtù di tale trasferimento, la rivoluzione perde i caratteri di fenomeno temporalmente contratto – tipici della realtà insurrezionale – per dilatarsi a esperienza di lunga durata. Correlativamente, essa conferisce le sue stimmate all’intero sistema di governo, alle istituzioni ed ai rispettivi ruoli. In altri termini, mentre prima la rivoluzione è sempre stata un «antiregime», con il totalitarismo diventa un «regime»: appunto, si istituzionalizza. Mentre prima la rivoluzione è sempre stata la rivolta e la guerra della società (e delle sue emergenti élites) contro le vecchie classi dominanti, con il totalitarismo la rivoluzione diventa rivolta e guerra delle nuove classi dominanti contro la «vecchia» società. In quanto rivoluzione, essa mantiene ferme le due proprietà costitutive del mutamento e della violenza. Solo che nella versione totalitaria la violenza, in funzione del mutamento, è ora esercitata dall’alto e non dal basso, dal potere verso la società invece che dalla società verso il potere: ed è ciò che consente alla rivoluzione totalitaria il suo carattere permanente, laddove una rivoluzione dal basso non può certo proiettarsi e durare oltre certi limiti temporali.

Correlativamente, la vastità degli sconvolgimenti preliminarmente indispensabili all’opera di costruzione della nuova società, dell’«ordine nuovo» per l’«uomo nuovo», e la connessa esigenza di proiettare la rivoluzione nei tempi lunghi, fanno sì che il totalitarismo si qualifichi inevitabilmente – come regime politico storicamente precisato – più per i suoi tratti di movimento, per la sua ansia processuale, per la sua carica di distruzione e disorganizzazione dell’esistente, per il suo spirito di «negativo permanente», che per la sua capacità di strutturare, stabilizzare e dare coerenza interna al nuovo. Non riesce a regolare la società, mentre riesce benissimo a «sregolarla». Se la rivoluzione si compone di due momenti (una pars destruens, l’abbattimento del vecchio, e una pars construens, l’edificazione del nuovo), come tipo di forma politica storicamente realizzata il regime totalitario rappresenta soprattutto la pars destruens nel programmato, grande processo di cambiamento degli uomini e dell’ambiente sociale. Quali che ne siano gli ipotetici, futuri e lontani traguardi di costruttività e di ordine nuovo, il totalitarismo come concreta esperienza politica è, in due parole, il nichilismo al potere. Il monopartitismo totalitario occupa, dunque, una casella a sé nel novero dei regimi a partito unico.

Senza questa interpretazione in chiave di mutamento totale, rivoluzione permanente, guerra civile istituzionalizzata e nichilismo al potere è impossibile dar conto della realtà che caratterizza regimi come il comunismo sovietico (specie, ma non soltanto, nell’età staliniana), il nazionalsocialismo tedesco, il comunismo cinese (specie nell’età di Mao Zedong). Insomma, le tre esperienze storiche più esplicitamente totalitarie.

Si guardi al tema del terrore. Che la paura sia fattore costitutivo della relazione politica, la quale include per definizione il momento sanzionatorio di tipo coattivo, è noto da sempre. E ciò vale per tutti i regimi, democratici e no, legali e no, legittimi e no, ferme restando tutte le distinzioni del caso. Di più. Molti tratti del terrore cui ricorre il regime totalitario sono riconoscibili in altri regimi politici, passati e presenti, e come tali non sono tipologicamente distintivi: imprevedibilità della sanzione, violenza nei confronti del cosiddetto «sospetto», ricorso alla tortura e alle confessioni estorte illecitamente, processi politici, tecnica poliziesca della provocazione, utilizzo indebito di servizi segreti, impiego di misure aggressive con finalità di dissuasione, persino sacrificio di innocenti. Vi sono però due elementi, uno «culturale» o simbolico, uno strutturale, che risultano propri ed esclusivi dell’esperienza totalitaria. Il primo è l’elaborazione e l’applicazione della categoria di «nemico oggettivo» (o anche «nemico del popolo», sia nella versione comunista sia in quella nazionalsocialista). Il secondo è l’edificazione e il funzionamento dell’universo concentrazionario.

Per nemici oggettivi si intendono coloro che sono dichiarati tali dal potere totalitario (e dai suoi detentori pro tempore), e solo dopo si cominciano a cercare le «prove» a carico. Insomma, il nemico oggettivo differisce sia dal sospetto delle polizie segrete dispotiche sia dai nemici reali, oppositori del regime mediante comportamenti concreti ed effettivamente realizzati, in quanto la sua identità è determinata dall’orientamento politico del governo: in altri termini, egli viene individuato e perseguito sulla base di una proiezione futura di ostilità. Poiché il regime totalitario si configura in termini di movimento, e questo non può non incontrare ostacoli, essi vanno affrontati ed eliminati in anticipo. In questa chiave, è il carattere di proiezione nel futuro che conferisce al sistema processual-criminale totalitario una forma e uno stile rivoluzionari, anche quando vi si applicano leggi preesistenti: la giustizia borghese assume come istanza ultima il passato, la giustizia rivoluzionaria l’avvenire. Tra le vittime principali del «teorema» del nemico oggettivo – grazie al quale il delitto è «costruito» dai governanti per via di ragionamento, indipendentemente da attendibili presupposti fattuali – vi sono i membri (di vertice e di base) del partito, delle sue organizzazioni collaterali, dell’amministrazione pubblica ai diversi livelli e articolazioni, strutture tutte sottoposte a ricorrenti purghe. E poiché in una logica di rivoluzione permanente il nemico oggettivo è una categoria che non ha fine, che non si esaurisce, ciò sta alla base dell’altro fattore di novità del totalitarismo in punto di violenza e paura: l’universo concentrazionario.

Né i campi di concentramento né i campi di lavoro forzato sono un’invenzione totalitaria. Si ritiene che i primi risalgano alla guerra anglo-boera: gli inglesi del generale lord Horatio Kitchener vi internavano la popolazione civile, compresi donne e bambini, allorché su essa si appuntavano sospetti, peraltro non corroborati da prove sufficienti o da indizi idonei a giustificare un regolare processo. Quanto ai campi di lavoro forzato, basterà ricordare la katorga dell’epoca zarista: si conosce altresì il numero massimo dei condannati a tale pena nella Russia prerivoluzionaria, che fu di trentaduemila nel 1912. La vera novità del regime totalitario in tema di strutture terroristiche è invece l’universo concentrazionario. Ciò vale al punto da poterne dedurre, in termini di analisi comparata delle forme di governo, che ove è possibile individuare un universo concentrazionario, lì siamo certamente in presenza di un regime totalitario.

Un primo carattere dell’universo concentrazionario è quantitativo. Esso coinvolge nell’esperienza del concentramento e del lavoro forzato milioni e milioni di persone contemporaneamente. Al paragone, si noti che l’intero apparato carcerario e detentivo dello zar, katorga compresa, conteneva nel 1917, anno crucialissimo della storia russa, cinquantamila condannati, tra politici e comuni.

Questa ipertrofia quantitativa, peraltro, non sarebbe raggiungibile senza l’introduzione e l’applicazione di nuove categorie «culturali». L’universo concentrazionario, infatti, riguarda l’internamento di cittadini dello Stato stesso che li organizza e li gestisce. E poiché è impensabile che milioni e milioni di cittadini siano ristretti nei campi perché delinquenti comuni ovvero oppositori attivi del regime o anche solo sospetti di comportamenti eversivi, ne deriva che condizione per realizzare l’universo concentrazionario è la repressione di sempre nuovi settori della popolazione, ciò che avviene grazie alla messa a punto della categoria di nemico oggettivo. È riempiendo in larga parte i campi di nemici oggettivi che si arriva all’universo concentrazionario non solo come realtà macrodimensionale, ma anche come istituzione permanente: infatti, è possibile individuare e perseguitare sempre nuovi nemici oggettivi, e quindi alimentare in continuazione l’arcipelago.

C’è una dismisura radicale, c’è una sproporzione drastica tra qualunque esigenza di conquista e mantenimento del potere, di ripristino e imposizione dell’ordine pubblico, di conseguimento di prestazioni lavorative (ancorché coatte) in un contesto di razionalità strumentale (congruenza di mezzi e fini) da un lato, e violenza totalitaria dall’altro. Nel tempo antico come nel tempo moderno – ove le opportunità di repressione, persuasione e manipolazione a disposizione del potere politico sono cresciute grazie alle innovazioni scientifiche e tecnologiche – una vasta molteplicità di regimi pure variamente illiberali (dispotici, dittatoriali, tirannici, autoritari) nasce e sta in piedi con qualcosa di molto meno e di molto diverso, quantitativamente e qualitativamente, senza ricorrere al «teorema» del nemico oggettivo e al sistema dell’universo concentrazionario.

Il punto è che il terrore totalitario risponde non alla mera logica della conquista e mantenimento del potere, ma anche e soprattutto alla logica del cambiamento totale. E poiché la realtà sociale e istituzionale esistente è il prodotto di plurisecolari acquisizioni, sedimentazioni, stratificazioni, eredità, contributi, e ha perciò una sua radicata consistenza, l’impresa rivoluzionaria tesa allo sradicamento di tutto ciò esige un impegno illimitato di aggressività entro i confini nazionali ove l’evento rivoluzionario si presenta e si afferma, oltre e prima che fuori dei confini. Ecco perché la rivoluzione totalitaria assume il carattere di guerra contro il proprio popolo, in uno con il proposito di esportare la rivoluzione nell’intero pianeta.

L’atteggiamento del regime totalitario nei confronti dello Stato è un passaggio cruciale per la comprensione di come la rivoluzione viene condotta, e di quale sia in essa il ruolo del partito unico. Accanto e in conflitto con la struttura statale, infatti, si erge la struttura del movimento (partito unico) rivoluzionario, il cui potere si sviluppa e si realizza in esplicita e aperta opposizione allo Stato. Il genuino pensiero totalitario è sovversivo nel senso più generale della parola, in quanto stabilisce una antitesi alla forma «governamentale» di dominio statale. Perché?

Lo Stato è sovrano ed è autorizzato all’uso della forza (anzi, meglio, ha il monopolio legittimo della forza) in quanto rappresenta il «tutto» e l’interesse generale nei confronti degli interessi particolari: in questo quadro, la formazione e l’affermazione dello Stato sono giustificate dalla cultura moderna come superamento del disordine e della violenza derivanti da fazioni e particolarismi. Il movimento totalitario, tuttavia, non si considera, vis-à-vis della società e dello Stato che ne è espressione istituzionale, come una parte da mettere nel conto insieme ad altre parti per fare il tutto. Piuttosto, si considera come la cellula germinale di una nuova realtà entro il vecchio universo sociale che ha già perduto il suo diritto storico all’esistenza.

Il fatto che il partito totalitario si consideri come il nocciolo fruttifico della nuova realtà lo induce ad assumersi la vocazione «generalista» e a negare invece allo Stato la sua natura sovrana e la sua essenza «generale», lasciandolo «provvisoriamente» sopravvivere più come fatto «anatomico» che come dato «funzionale» e centro decisionale. In questa prospettiva, è significativa la diffidenza dei regimi totalitari nei confronti dello Stato e dei suoi tradizionali istituti, civili e militari. Correlativamente, nel regime totalitario si assiste a una duplicazione, e poi anche a una moltiplicazione, dei medesimi uffici e attribuzioni. A ogni ufficio corrisponde (almeno) un controufficio. Si ha, perciò, un dualismo di Stato e partito, con una costante conflittualità nella quale, proprio per i caratteri del partito unico, è questo ad avere la supremazia, almeno tendenziale, più spesso reale, rispetto all’istituzione statuale.

Qui si coglie una grande differenza rispetto ai regimi autoritari. La distinzione tra autoritarismo e totalitarismo rimane molto importante nella tipologia dei regimi politici, malgrado recenti tendenze di alcuni settori politologici a fare rifluire, sostanzialmente svuotandolo, il concetto di totalitarismo in quello di autoritarismo, facendo al più del primo un mero indicatore di intensità di certi «sintomi» nel contesto autoritario, senza una autonoma specificità qualitativa e tassonomica.

Ciò premesso, abbiamo già visto che teoria e prassi del nemico oggettivo nonché universo concentrazionario sono «proprietà» esclusive del totalitarismo: la loro assenza depone perciò per una classificazione delle forme potestative non liberal-democratiche entro caselle diverse, e nell’età contemporanea entro la categoria dell’autoritarismo, che conosce diversi sottotipi. Sia il regime fascista italiano (con riferimento alla cui esperienza pure si deve la nascita del concetto di totalitarismo e il cui movimento, coacervo di molteplici indirizzi, ha avuto anche un filone, quello repubblicano, con pulsioni totalitarie, peraltro marginalizzato durante il «ventennio»), sia il regime franchista spagnolo sia il salazarismo portoghese non hanno avuto nemico oggettivo e universo concentrazionario.

Adesso si deve aggiungere che, quando esiste, il partito unico nei regimi autoritari (i quali possono altresì essere regimi senza partiti – ad esempio, il tipico regime militare, o tecnocratico-militare – oppure a più partiti: il già segnalato sistema a partito egemone) è in posizione subordinata, piuttosto che contestativa e alternativa, rispetto allo Stato. In Spagna la Falange è strumentale rispetto allo Stato e alla sua preminenza. Nonostante qualche opinione contraria, comparativamente poco persuasiva, rimane più convincente la tesi di chi giudica che nel regime fascista italiano la posizione preminente sia quella dello Stato, malgrado gli sforzi del partito, specie negli anni Trenta, di acquisire nuovi spazi. Quanto al Portogallo di António Salazar, se pur si può parlare di sistema monopartitico, si tratta comunque di un sistema pragmatico, non ideologico, di demobilitazione.

Il punto è che i regimi autoritari – anche quando sono, come in taluni casi accade, sistemi di mobilitazione di massa e quindi perseguono finalità di movimento sociale e di mutamento civile – tuttavia non si richiamano e non si inquadrano in un processo di rivoluzione totale e permanente. La subordinazione allo Stato sottolinea allora che nei regimi di tipo autoritario il partito unico è finalizzato o a una prospettiva di conservazione della società o, comunque, a una gestione «controllata» e graduale del movimento sociale, il quale perciò non assume carattere di «negazione» integrale degli equilibri civili e potestativi. Viceversa, di quanto non si riconosce nel «vecchio» Stato e nella «vecchia» società, di altrettanto il regime totalitario ne disordina la compagine istituzionale, sia contrapponendole una situazione di dual power rivoluzionario sia mantenendo nel tempo l’ispirazione rivoluzionaria e alternativa di origine. E ciò vale per la Germania nazionalsocialista, per l’Unione Sovietica e anche, con talune specificità, per la Cina comunista.

Nel rapporto tra Stato e partito, dunque, l’esperienza totalitaria si segnala per una conflittualità del secondo verso il primo, entro una logica di supremazia e poi tendenziale annullamento. Nell’esperienza autoritaria, invece, anche se e quando entro il partito unico vi sono tentazioni alla preminenza, gli equilibri complessivi del regime si realizzano nel segno di una sostanziale subordinazione del partito allo Stato. Rinviando a pagine successive il problema del ruolo del capo, anche in relazione alla questione del rapporto tra Stato e partito, è opportuno ora introdurre un ulteriore elemento di analisi, osservando che i regimi autoritari si caratterizzano per la coesistenza con livelli più o meno elevati, ma comunque significativi, di pluralismo sociale, fermo restando che il pluralismo politico competitivo e rappresentativo è prerogativa delle forme politiche liberal-democratiche, se e quando queste funzionano come tali. Prendiamo il caso della Spagna, ove i corpi religiosi, gli interessi organizzati, i gruppi sociali, le agenzie burocratiche sono elementi «riconosciuti», al pari del partito falangista, nella struttura politica pluralistica. Altrettanto può dirsi per il ventennio fascista italiano: qui, tra l’altro, Chiesa cattolica e monarchia sabauda hanno rappresentato, nei rispettivi campi, un argine costante nei confronti delle tendenze totalizzanti di taluni settori del partito. In questo senso, la “rivoluzione” fascista si è limitata alla sola sfera politica e, con la permanenza della monarchia, non è stata totale neppure in essa, persistendo nella grandissima parte dell’apparato pubblico (forze armate, magistratura, diplomazia, amministrazione civile) la preminente lealtà verso il sovrano.

In breve, anche sotto tale profilo la distanza dal regime totalitario è assai grande. Quest’ultimo infatti è, per vocazione e per attuazione, forma politica antipluralistica per eccellenza. Il pluralismo sociale presuppone che il demos, e gli individui che lo compongono, siano e rimangano articolati e integrati in una molteplicità – seppure non chiusa e statica, ma intercomunicante e mobile – di luoghi sociali e istanze istituzionali, ciascuno dotato di propri profili di identità, di elementi di gerarchia interna e regole di promozione sociale, di autonomia strutturale e culturale. Viceversa, il totalitarismo è l’annichilimento di quei rapporti sociali entro i quali l’individuo si sviluppa. Esso è, dunque, totalmente antipluralistico non soltanto sul piano politico, ma anche sul piano sociale (economico, culturale).

La ragione è evidente. La società moderna, proprio perché tale, proprio perché giunta dopo le altre, è una società antica, frutto di molteplici apporti durante il tempo, e ciò ne fa una realtà pluralizzata. Ma per creare una società radicalmente nuova occorre destabilizzare e disintegrare – nella molteplicità dei suoi aspetti, assetti e dimensioni – la società pluralizzata e pluralistica. Tra l’altro, la varietà in cui si articola e compone la società da abbattere è l’espressione strutturale e strutturata di due condizioni esistenziali: libertà e diversità. Ecco perché Chiese e confessioni religiose, famiglia, classi e categorie sociali, minoranze etniche e razziali, sono altrettanti bersagli della lotta antipluralistica e liberticida della rivoluzione totalitaria. In un modo o nell’altro, infatti, esse costituiscono i «luoghi» ove si realizzano concretamente – in una configurazione pluralistica della vita sociale – le libertà di fede, pensiero, educazione, iniziativa economica, associazione. In un modo o nell’altro, correlativamente, esse rappresentano il passato e la tradizione, e ne costituiscono le testimonianze viventi. In un modo o nell’altro, infine, esse danno visibilità organizzativa e valoriale alla «diversità», quindi alla previsione dell’alterità e alla tolleranza che ne consegue. Così, anche quando si verifica che un regime autoritario si pieghi a una politica di discriminazione razziale, questa viene realizzata in modo ben diverso che nei regimi totalitari: nell’applicazione della legislazione contro gli ebrei, ad esempio, l’Italia si è mossa con una duttilità impensabile nel caso nazionalsocialista, tra l’altro perché il nazismo, così come il totalitarismo sovietico, ha iscritto l’azione antisemita (al pari, specie nel caso sovietico, della persecuzione di altre minoranze etniche e razziali), nel quadro del «nemico oggettivo», compiendo così un salto di qualità rispetto all’antisemitismo diffuso in Europa – in Francia non meno che in Austria, in Russia non meno che in Germania – tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.

Coerente corollario della radicale pulsione antipluralistica del regime totalitario è la massificazione della società. Una società di massa è sotto il profilo oggettivo società atomizzata, sotto il profilo soggettivo popolazione alienata, in un quadro a) di contrazione crescente dei gruppi sociali intermedi, b) di cultura fluida, indifferenziata e priva di norme stabili, c) di alta «disponibilità» del pubblico alla mobilitazione e in genere agli stimoli provenienti dai detentori del potere politico o economico, talché l’individuo perde un coerente senso di se stesso, le sue ansie aumentano. Orbene, una società siffatta può riscontrarsi in una molteplicità di ambienti nazionali e in coincidenza con più di un regime politico, democrazia inclusa, come prodotto di un vasto complesso di incisive trasformazioni economiche, produttive, tecnologiche, culturali, belliche.

È stato rilevato che il processo di massificazione per certi aspetti ha preceduto la nascita dei moderni dittatori: questi sono prodotto di tale disintegrazione sociale, che a sua volta diviene base del loro potere. Fermo restando che i «moderni dittatori» in grado di interagire con la società di massa possono essere anche di tipo non totalitario, con riferimento alla realtà totalitaria l’osservazione va precisata nel senso che la società di massa appare essere condizione necessaria, anche se non sufficiente, per l’instaurazione e comunque per il mantenimento di un regime totalitario. Ciò vale al punto che – ove essa non preesiste come sviluppo spontaneo e autonomo del mutamento sociale e storico – il potere opera per la sua emergenza in maniera forzosa e diretta, a tappe spesso forzate, e accentuandone soprattutto gli aspetti di destrutturazione individuale e di gruppo. Così, in Unione Sovietica la rivoluzione e il suo potere hanno dovuto produrre artificialmente quella società atomizzata che in Germania per i nazionalsocialisti era stata preparata dagli eventi storici, sia precedenti, sia connessi e susseguenti alla Prima guerra mondiale.

Questa negazione radicale dell’autonomia della società civile e delle sue pluralizzate articolazioni, questo annullamento della libertà individuale, fanno dell’esperienza totalitaria la forma più estrema di regime «panpolitico». Tutto è politica, tutto è politico. Non si dà, dunque, né morale individuale né costume sociale, né religione trascendente né mercato come specifica istituzione economica, né rispetto per la competenza tecnica né rispetto per la spontaneità delle produzioni artistiche e culturali nei loro diversi profili espressivi.

Il fatto è che, nella prospettiva totalitaria, l’ideologia si pone come una critica globale della realtà, passata e presente. In questo senso, il suo profilo utopico è fuori discussione. Ma con una specificità puntuale rispetto ai numerosi altri disegni utopici presenti nella storia del pensiero sociale, vale a dire la radicale plasticità dei contenuti, essenzialmente piegati non a una visione positiva e riconoscibile dell’avvenire, ma a una «immagine contro», a un principio di negazione in vista dello stravolgimento della realtà. E ciò non soltanto nel senso che non vi è alcuna prospettiva intellettuale singola che sia intrinseca al piano totalitario (un regime del genere potendo instaurarsi e mantenersi sia in nome dell’uguaglianza sia in nome della disuguaglianza, sia in nome della classe sia in nome della razza), ma soprattutto nel senso che ciò che è centrale non è l’immagine specifica innalzata davanti alle masse, ma piuttosto il livellamento e la distruzione di tutte le altre immagini, anche se reciprocamente confliggenti. Il totalitarismo, infatti, sa essere contemporaneamente antiliberale e anticonservatore, antidemocratico e antiautoritario, contro l’ordine e contro la libertà, contro l’individuo e contro il gruppo.

ratio o sulla traditio, sull’etica o sul diritto. Più stringatamente, l’ideologia totalitaria è un nucleo progettuale (ad altissimo livello di astrattezza e irrealismo) di trasformazione totale della complessiva realtà sociale, al quale fa da contrappunto, sul piano storico-politico, un universo caotico e mobile di proposizioni vincolanti pro tempore. In tale chiave, la logica totalitaria non mira a conoscere il mondo, ma a cambiarlo totalmente. Questa è l’assunzione a priori dell’ideologia totalitaria, e anche quando nella prassi si assiste alla «revisione» o allo stravolgimento di precetti dottrinali o ideologici, ciò avviene in nome del principio ideologico della trasformazione totale del reale, per cui l’attore totalitario è nell’«ortodossia» ideologica anche quando viola l’ideologia per venire incontro a necessità dell’azione e del potere: dunque, ideologia e primato della prassi coincidono.

Tale atteggiamento di fuga dalla realtà e, insieme, di ostilità nei suoi confronti, diversifica – ancora una volta – le esperienze totalitarie dalle esperienze autoritarie. In generale, è errato ritenere che l’élite dei sistemi autoritari non possa essere informata da una visione dottrinale del mondo, da una interpretazione sistematica della vita e da un corpo di giudizi ragionati riguardo alla natura, alla società e all’uomo, che abbia implicazioni normative. Sia il regime fascista italiano sia il regime franchista spagnolo non poggiavano su un vuoto di dottrina e di cultura. Ciò che viene definito «pragmatismo» e «assenza di programma» del fascismo e di altri regimi autoritari discende, in realtà, dal loro carattere di sistemi di pluralismo sociale. Di fronte alle culture religiosa, scientifica, economica, giuridica, artistica, letteraria, l’atteggiamento dei regimi autoritari tende più a una logica di composizione che a una logica di annichilimento. Se il pluralismo sociale non può tradursi in competizione politica libera e garantita, tuttavia il sistema politico non occupa in toto il sistema sociale, ma gli lascia spazi espressivi, più o meno ampi in relazione alle diverse varietà di autoritarismo, e inoltre soggetti ad accentuarsi o restringersi in relazione a circostanze di varia natura, interna o internazionale, ma in genere non irrilevanti, anche se il regime non rinuncia a un ruolo, almeno potenziale, di «tutela», e anche se possono essere presenti elementi di dogmatismo. Per di più, se la dottrina dei regimi autoritari è composita (talvolta fino a divenire palesemente contraddittoria), a ciò non è estranea la volontà, che può raggiungere livelli assai spregiudicati, di utilizzare quante più forze sociali possibili nell’opera politica del regime e nel suo mantenimento. Viceversa, la carica di novazione integrale del totalitarismo esige il contrario: «inutilizzare» quante più forze sociali possibili. Nell’ideologia del totalitarismo, infatti, c’è, anche e soprattutto, l’idea del «nemico oggettivo».

Data un’ideologia siffatta, e più ampiamente dati i connotati complessivi del regime, è evidente che la propaganda vi assume una sua puntuale specificità. Ciò vale sotto il profilo tecnico, ove massiccio è il ricorso sia alle tecnologie più avanzate sia alla manipolazione del fattore psichico e dei suoi meccanismi (senza che ciò significhi rinunciare a modalità usate anche in altre realtà socio-politiche: e del resto talune forme di intervento sulla dimensione psichica ricorrono pure altrove, in sede vuoi di pubblicità commerciale vuoi di promozione politica). Ma ciò vale, soprattutto, sotto il profilo politico, ove la specificità totalitaria può così sintetizzarsi: la propaganda totalitaria è, nella sua essenza, propaganda di guerra sovversiva, entro e fuori i confini nazionali. Capovolgendo la massima che vede la guerra come continuazione della politica, il totalitarismo concepisce la politica come perpetuazione della guerra. E di ciò bisogna tenere conto allorché si affronta la questione del «consenso» in tale regime e verso di esso.

Come situazione di mobilitazione totale in vista del mutamento totale, nel regime totalitario tutto è in movimento, e questo movimento investe e coinvolge necessariamente le masse popolari. Sotto tale profilo, i regimi totalitari differiscono nettamente dalle forme politiche che – in un quadro di divisione rigida del lavoro sociale – tengono le masse distanti e assenti dal processo politico. Tuttavia, non soltanto la «presenza» delle masse nel processo politico totalitario è inassimilabile alla partecipazione popolare che si realizza nei regimi liberal-democratici effettivamente operanti come tali, ma anche le nozioni di legittimità e legittimazione (popolare, o altro) sono inutilizzabili con riferimento ai regimi totalitari, non foss’altro perché il concetto di legittimità implica un’idea di pace interna e di idem sentire de re publica tra élites e masse, incompatibile con il carattere «bellico» del regime e con il suo atteggiamento di guerra e conquista contro il proprio popolo. Detto questo, rimane che nelle esperienze totalitarie possono operare, e operano, atteggiamenti di identificazione delle masse con i governanti, e d’altra parte la leadership non è restia a proclamarsi in sintonia identificatoria con la «volontà e saggezza» delle masse.

Se una società può avere masse senza essere «di massa», quest’ultimo carattere è centrale per la individuazione dei tratti «consensuali» del regime totalitario. I connotati dell’uomo-massa ne fanno un soggetto singolarmente fragile e permeabile. In questo senso, anche a non sopravvalutare il ruolo del terrore come incentivo a evitare il dissenso, sta peraltro di fatto che l’incostanza dell’uomo-massa, la sua facilità a dimenticare, l’infantilismo che lo caratterizza, lo sradicamento di punti fermi etico-politici, il carattere plastico e «senza forme» della sua personalità vanificano ampiamente la questione della sincerità e criticità dell’appoggio popolare al regime. La fisica delle anime si pone oltre (al di là, o al di qua) il problema del bene e del male, della coerenza e della buona fede intellettuale e morale.

Privo di contenuti, l’uomo-massa è in realtà simile a un recipiente, sempre pronto a essere riempito. In senso proprio, infatti, egli non esprime giudizi. Dà risposte agli stimoli. Si muove per riflessi condizionati. Carente di continuità spirituale, la sua moralità è intermittente. La sua eterodirezione lo porta a identificarsi con ciò che è, letteralmente, «fuori di sé». L’estinzione – sistematicamente perseguita dal regime – dell’autonomia personale e interiore, rende l’uomo-massa necessariamente dipendente dal mondo esterno. E finché tale mondo è il regime, l’adesione (aderenza) al regime ne consegue.

Ma qual è, in tale regime, e anche a effetto del «sostegno», il ruolo del capo? Che il capo, con caratteristiche carismatiche, sia presente in Unione Sovietica come in Germania e in Cina, è nelle cose. Inoltre, culto della personalità e Führerprinzip non sono elementi politicamente indifferenti o irrilevanti. Tuttavia, non soltanto la dittatura cesaristica è, come rivela il nome stesso, sempre personale, ma anche molti regimi autoritari hanno capi carismatici, così come accade per molte democrazie plebiscitarie e anche per certe forme più propriamente rappresentativo-competitive. Ciò significa che la figura del capo non è requisito tipologico esclusivo e imprescindibile. La presenza del capo, dunque, non è elemento distintivo tra tipo totalitario e tipi non totalitari di regime politico, tra l’altro perché ovunque in politica si può verificare la forma affettiva – in questo senso cesaristica – di identificazione con il leader. D’altra parte, l’assenza del capo non basta a escludere la connotazione tipologica di regime totalitario, quando sussista una situazione antipluralistica e massificante di monopartitismo e di istituzionalizzazione del disordine rivoluzionario. Infatti, la dittatura totalitaria può manifestarsi in forma monocratica o in forma oligarchica (gestione potestativa collegiale), e quindi può avere o no carattere cesaristico. Talché, pur se rimane significativo studiare, quando ci sono, i capi e il loro ruolo, sta di fatto che spiegare fenomeni tanto importanti come il totalitarismo mediante «una» persona, è il genere di spiegazione che la scienza per definizione non ammette, trattandosi sempre di fenomeni complessi e policondizionali, non dunque monocausali.

Nel processo di mutamento sociale di cui è protagonista, il regime totalitario coinvolge direttamente le tre dimensioni della tecnologia, della burocrazia e della produzione. In quanto regimi di mutamento, i sistemi totalitari innovano profondamente rispetto alla tradizione: promuovono la trasformazione dell’economia in senso industriale, espandono la complessità organizzativa e l’articolazione burocratica dei ruoli sociali, impiegano le risorse della tecnologia avanzata sia sul piano politico sia sul piano sociale. Tuttavia, va subito aggiunto che il totalitarismo proietta nei processi burocratici, tecnologici e produttivi le sue tipiche caratteristiche politiche, in tal modo conferendo loro un andamento del tutto singolare.

Come regime rivoluzionario, infatti, il totalitarismo riproduce anche sul piano degli orientamenti buro-tecnologici e delle programmazioni produttive il voluto caos delle competenze che è proprio della sua ispirazione di nichilismo al potere. Il problema dei costi e benefici, ad esempio, che costituisce un aspetto essenziale della efficienza (sia produttiva sia amministrativa sia tecnologica) nell’età moderna, gli è estraneo tanto sul piano strumentale quanto sul piano umano. La logica della differenziazione delle funzioni e della «organizzazione scientifica» del lavoro – che assieme alla «obiettività» e alla «qualificazione» costituiscono altrettanti cardini di una efficiente tecno-burocrazia – viene pervertita sistematicamente dal dualismo tra burocrazia statale e burocrazia partitica e dalla moltiplicazione degli uffici. Inoltre, la «neutralità» della conoscenza scientifica appare permanentemente vulnerata dalle interferenze «rivoluzionarie» dell’approccio ideologico dominante. Anche se utilizza la tecnologia atomica che ne deriva, lo stalinismo si oppone alla teoria scientifica dei quanti. La riforma agraria può fallire perché importanti acquisizioni della genetica sono considerate incompatibili con l’ortodossia ideologica. Il nazionalsocialismo rifiuta di ammettere che un ebreo come Albert Einstein possa produrre lavori scientifici di rilievo.

Ciò detto, esiste comunque un preciso legame tra azione politica totalitaria e risorse della scienza e della tecnologia. In mancanza di queste, l’azione totalitaria non ascenderebbe – sotto il triplice profilo di mutamento totale, guerra totale e dominio totale – ai livelli che le sono peculiari. Sta di fatto, però, che al regime totalitario scienza, produzione e tecnologia non interessano tanto per ciò che, comparativamente, rendono e costano, quanto per ciò che cambiano. Questa, infatti, è la sua puntuale ispirazione politica. Così, anche in tali campi la rivoluzione totalitaria esige e provoca volutamente scelte che comportano prezzi altissimi e squilibri improvvisi e sostanziali, poiché attraverso essi si realizza meglio la sua funzione dissolvente.

La proiezione delle caratteristiche politiche del regime riguarda altresì la dimensione produttiva. Le condizioni di partenza della Russia, della Germania e della Cina (per citare le tre vicende più emblematiche), allorché vi si instaurarono regimi totalitari, erano evidentemente diverse. Ciò ha comportato l’attivazione di dinamiche economiche e sociali con tratti anche significativamente differenti. Riconosciuto ciò, va tuttavia rilevato che le varietà totalitarie presentano, anche sub specie di politica economica, affinità che non possono essere trascurate. In tutti i casi, infatti, la negazione integrale dell’autonomia della sfera economica e delle sue leggi, l’interventismo politico e la politicizzazione dirigistica dell’economia, la deprivatizzazione e depluralizzazione degli strumenti produttivi, la massificazione dei comportamenti economici e il loro non-utilitarismo, la carica anti-individualistica e la penalizzazione della iniziativa dei singoli (individui e gruppi), l’eliminazione di qualsiasi forma di libera contrattazione tra lavoratori e centri di potere economico, l’irreggimentazione delle aziende e della distribuzione della manodopera, costituiscono – al di là delle specifiche configurazioni giuridiche della proprietà (ma si sa cosa conti il diritto in tali esperienze) – la base comune della politica economica dei regimi totalitari.

Su tali premesse, è plausibile la conclusione che il totalitarismo configuri comunque un sistema di «economia non economica», ove il ruolo della politica e della sua preminenza ideologica e operativa fa aggio su ogni distinzione fondata sul carattere formalmente privato o pubblico della titolarità degli strumenti produttivi ovvero sull’esistenza o meno di regole del mercato.

Gli elementi, caratteri, fattori che fin qui abbiamo considerato danno luogo, se visti e mantenuti insieme, a quella che possiamo definire la sindrome totalitaria, assunta e illustrata nel suo profilo tipologico. Pur se alimentata o preparata per taluni aspetti da idee e da tendenze (anche strutturali) precedenti, segnatamente del XIX secolo, si tratta con evidenza di realtà propria e specifica del Novecento. Non se ne coglie la presenza prima di tale stagione dell’esperienza pubblica. Ciò significa che il totalitarismo nasce e muore con il XX secolo?

Pur quando non devono misurarsi con il cataclisma di una guerra internazionale perduta (come è accaduto al potere nazionalsocialista), i regimi totalitari hanno in loro stessi – e ciò vale anche per il caso tedesco – i germi della dissoluzione, dunque la necessità di dar luogo a (o di trasformarsi in) qualcos’altro. Come esperienza fondata sulla «istituzionalizzazione del disordine», il totalitarismo reca nel suo seno i motivi profondi dell’autodistruzione, dell’incapacità di durare, nonostante le suggestioni ideologiche di una rivoluzione che si proclama permanente. Ciò è vero per il collasso del totalitarismo sovietico, come è vero per la fuoriuscita della Cina dalla cornice totalitaria. Ne viene che il totalitarismo è per l’umanità un capitolo ormai chiuso? Oppure permangono, e persino si aggravano, molte delle condizioni alla base del totalitarismo, o che comunque lo hanno accompagnato nel suo cammino?

Risponderò osservando che non si è esaurita, ma anzi si accentua, la smania del cambiamento ad ogni costo, del dinamismo incontrollato. L’artificialità è ormai l’anima della cosiddetta «realtà virtuale». La tecnologia sempre più prende la mano all’uomo. Il disordine viene elevato a supremo criterio della creatività, nel mondo della materia fisica come nel mondo dello spirito. Ancora. La caduta di ogni limite – naturale, morale, sociale, giuridico – è il contrassegno che anima e agita correnti di pensiero, gruppi di pressione, velleità di scuole culturali dedite alla missione del rinnovamento indiscriminato: se anche non lo si afferma più apertis verbis, l’«uomo nuovo» è in realtà l’obiettivo da costruire usando le risorse della genetica non meno che la negazione della «morale tradizionale». La «fine delle ideologie» non ha per ora dato luogo ad un approccio realistico ai problemi. La crisi dello Stato, che è effettiva sul piano simbolico e su quello operativo, non trova correttivi pertinenti ma incoraggia posizioni drasticamente demolitorie senza che si intraveda all’orizzonte un qualunque sostituto istituzionale capace di assicurare nuove prestazioni evitando nel contempo di cancellare e perdere le prestazioni cui per almeno mezzo millennio lo Stato stesso ha atteso. La società di massa si conferma una incombenza non cancellata dalle trasformazioni fin qui indotte dall’ingresso nella stagione postindustriale: emerge e trova spazio nella società un essere umano reciso dalle proprie radici, senza interessi per il futuro come per il passato, ossessionato di vivere per il presente, mentre la sua apparente libertà dai legami familiari e dai vincoli istituzionali non lo rende più responsabilmente autonomo ma, al contrario, ne alimenta l’insicurezza. Senza dire, per concludere, che la tumultuosa dinamica demografica prepara al pianeta sfide e destabilizzazioni di portata epocale.

Tutti questi elementi suggeriscono che permane una humus, culturale e strutturale, disponibile a sbocchi totalitari. D’altra parte, assumere che permanga una disponibilità a sbocchi totalitari non significa sottolineare un irresistibile determinismo storico. Non è così. L’esito totalitario può essere evitato, e condizioni pure necessarie non sono ancora condizioni sufficienti. Esso si conferma, però, una prospettiva che non decade, uno dei rischi immanenti allo sviluppo della società contemporanea, uno dei futuri possibili. Il totalitarismo, dunque, non è soltanto una categoria concettuale per la classificazione e la comparazione di realtà politiche storicamente concluse entro il XX secolo. È una tentazione che può riproporsi, se l’intreccio delle circostanze dovesse precipitare verso sbocchi perversi.

Bibliografia

Le origini della democrazia totalitaria, il Mulino, Bologna 1967.