Sovranità

di Francesco M. De Sanctis

summa potestas: un potere sui iuris che, non riconoscendo poteri superiori – terreni o ultraterreni (= secolarizzazione) –, spezza la catena dell’interdipendenza universale della Cristianità e monopolizza l’imperium sui sudditi (localizzati in un territorio, dominium, che della sovranità esaurisce l’ambito) relativamente alla produzione del diritto (sottratta ai «dottori» ed ai «giudici»), al comando militare (la guerra diventa un fenomeno essenzialmente pubblico, essa è l’unico tribunale terreno legittimato a giudicare i sovrani) e al prelievo fiscale (che, come lecita partecipazione, spoliticizza la società). Prestazione fondamentale della sovranità è, però, proprio la positio del diritto attraverso la legislazione intesa come la fonte, scaturente dal potere legittimato a tale attività (perché sovrano), a cui ricondurre l’intero ordinamento giuridico vigente, anche per le norme che possono far parte, per il loro contenuto, del diritto «naturale» (eterno) e, per la loro osservanza prolungatasi nel tempo, di quello «consuetudinario» (storico).

ivi, p. 372], né togliere i beni ai sudditi [ivi, pp. 396-397], la cui proprietà, perciò, non dipende dalla sovranità che deve riconoscerla. Ma soprattutto «il principe non può derogare a quelle leggi che riguardano la struttura stessa del regno e il suo assetto fondamentale, in quanto esse sono connesse alla corona e a questa inscindibilmente unite» [ivi, p. 368].

Il sostantivo sovrano, nella tradizione moderna, indicherà essenzialmente la «persona» di diritto pubblico che, senza tener conto della «forma di governo» (monarchico o aristocratico o democratico), incarna (come singolo o come assemblea) questo potere come suo titolare originario. Caratteristica fondamentale della sovranità è, infatti, proprio la sua non derivabilità da altri poteri della stessa natura (es., impero o papato) precedenti nel tempo o sovraordinati gerarchicamente (=inglobanti). Tuttavia il problema dell’origine (razionale, più che storica) di un tale potere viene risolto, nella tradizione politica moderna, attraverso la teoria del patto o contratto sociale. Detto istituto, a seconda dell’assolutezza che si vuole conferire al potere sovrano, viene concepito o come una procedura complessa che, prima, dalla moltitudine crea il popolo (pactum societatis) e, poi, una volta costituito il popolo come soggetto politico, con un altro patto (pactum subjectionis) conferisce la sovranità (eventualmente scegliendo anche la forma di governo che, per autori come Grozio e Montesquieu, è legata a una gamma complessa di peculiarità relative alla «natura» e allo «spirito» dei singoli popoli) o, come conferimento diretto, da parte di una molteplicità di soggetti e gruppi «privati» e «pubblici», del potere di imperium che, rende il sovrano (in questo caso, spesso, conquistatore) più libero dal popolo, che egli contribuisce a costituire o ricostituire in corpo politico, anche nella scelta della forma di governo. Tale conferimento, a sua volta, può considerarsi come concessio o come translatio imperii a seconda di quanto controllo il popolo – che, comunque, viene pensato come una società costituita, o costituenda, consensualmente, in vista di una vita comune sotto un potere comunemente voluto e stipulato per la protezione e la salvaguardia di un nucleo più o meno ampio di diritti fondamentali – voglia o possa conservare a sé nella forma, più o meno istituzionalizzata, del diritto di resistenza contro l’esercizio del potere sovrano. La resistenza contro l’usurpazione o la conquista è cosa diversa, riguardando non l’esercizio ma il titolo del potere, ed è generalmente riconosciuta come diritto naturale fondamentale dei popoli.

unio, prima prestazione di sovranità, significa abrogazione delle singole, molteplici volontà che vengono sostituite dall’unica volontà «legislatrice», nella quale tutti «devono» presupporre o riconoscere la propria. Tuttavia l’unio, da cui nasce il popolo come atto di volontà sovrana, è solo una «rappresentazione» di sovranità che rende «una» la volontà irrappresentabile dei molti attraverso la legislazione.

Assolutismo e Stato – il primo come teoria che postula l’esigenza di un potere politico «sciolto» dall’osservanza di leggi proprie o altrui in quanto unico produttore legittimo di diritto positivo e il secondo come «nome» della condizione politica per eccellenza della società civile della cittadinanza moderna, in cui tale produzione si rende possibile e si attua nell’articolazione istituzionale delle diverse funzioni che discendono dalla sovranità – sono nozioni originariamente connesse a quella di sovranità. Il liberalismo e il primo costituzionalismo sono teorie critiche dell’assolutismo che, pur pensando limiti al potere del sovrano, non ne rifiutano la nozione monopolistica riguardo all’uso e alla gestione legale della forza in pace e in guerra, ma ne ampliano i compiti non limitandoli più alla sola sicurezza ma anche ad altri diritti la cui salvaguardia viene pensata o sulla base di diritti naturali indisponibili dal sovrano – come la triade vita, libertà e proprietà che lo Stato deve «conservare» come mezzo e fine – o sulla base di un’architettura costituzionale (divisione dei poteri) che limita, nel funzionamento stesso dell’apparato statale, l’esercizio del potere sovrano con pesi e contrappesi tra le sue diverse funzioni (legislativa, esecutiva e giudiziaria) al fine di garantire, nel bilanciamento reciproco, i diritti storici e concreti, più che quelli naturali, dei cittadini dal dispotismo o dalla tirannia. Il costituzionalismo contrasta la sovranità assoluta non tanto come «principio» astratto dalla vita istituzionale, quanto come pericolo concreto che essa possa concentrarsi in una qualsiasi delle funzioni necessarie allo Stato assommando in una di esse una quantità di potere irresistibile dalle altre. Rule of law e Stato di diritto sono sintagmi che, rispettivamente per l’esperienza anglosassone (in cui la legislazione, posta in essere da re e Parlamento, non ha mai preteso di esaurire la produzione e l’«invenzione» del diritto) e per quella continentale, indicano nozioni legate alla limitazione interna della sovranità (che resta piena e assoluta nella gestione dei rapporti internazionali e della guerra) attraverso il diritto stesso, la cui produzione legislativa, esecuzione governativa e amministrazione della giustizia vengono regolate dalle costituzioni (scritte) moderne (dal Settecento al primo Novecento, con la grande eccezione della «costituzione» inglese, mai scritta), intese proprio come prescrizione solenne di limiti al potere sovrano (legislativo o esecutivo) a fronte dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino.

L’affermarsi progressivo della democrazia rappresentativa, anche se muta sostanzialmente il soggetto politico della sovranità individuandolo definitivamente nel popolo – inteso però non ancora concretamente nelle sue plurali articolazioni sociali economiche culturali e religiose, ma essenzialmente come «nazione» – non muta, anzi complica il problema dei limiti al potere sovrano che, risiedendo necessariamente nella maggioranza del popolo che volta a volta decide attraverso i suoi rappresentanti, non garantisce, senza l’effettività di limiti costituzionali, i diritti fondamentali della minoranza. La tirannia (o dispotismo) della maggioranza diventa il problema del pensiero liberale, connesso alla nuova figura del popolo sovrano. Le dottrine socialiste e comuniste, invece, attraverso una lettura tutta «sociale» della politica – il che significa considerare il potere politico come espressione, in una società formata da «classi» (che, con la loro determinazione essenzialmente economica sostituiscono gli antichi ceti), del potere di una classe sulle altre – non si pongono tanto il problema politico della sovranità, quanto quello economico-sociale del dominio di classe, che troverebbe la sua soluzione soltanto nella rivoluzione sociale (emancipazione della società dalla divisione in classi dominanti e dominate) come completamento della rivoluzione politica (di cui quella francese – più che quella americana – diventa il modello), interpretata come rivoluzione incompiuta, poiché l’abbattimento dell’antico regime (monarchia a predominanza aristocratico-nobiliare) avrebbe liberato «politicamente» solo il «terzo stato», la borghesia, già emancipata economicamente e socialmente (ma esclusa dalla politica), facendone la classe dominante socialmente e politicamente del nuovo regime. La società civile non è più la società dei cittadini unificata nello Stato politico, essa diventa la società borghese, di cui lo Stato sovrano è lo strumento politico di dominio realizzato attraverso il diritto (borghese), e in cui si profila lo scontro finale della preistoria della libertà umana, quello tra borghesia e proletariato che, con la vittoria del proletariato (ultima testimonianza del dominio e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo), farebbe scomparire dalla storia occidentale sia la classe sociale sia lo Stato politico.

La storia e la teoria della sovranità dello Stato è anche la storia e la teoria dei diritti dell’uomo e del cittadino occidentale moderno. Anzi la sovranità, pur nella sua versione più assoluta, è stata sempre pensata come lo strumento che rende possibile agli uomini fruire di un patrimonio più o meno ampio di diritti che, tra Otto e Novecento, si sono progressivamente ampliati da quelli di libertà (diritti civili) a quelli politici (diritti di partecipazione) a quelli relativi allo standard (o, più enfaticamente, alla dignità) di vita economico-sociale e perciò difficili da prevedere nel loro sviluppo e nella loro progressiva articolazione (diritti sociali: es. lavoro, istruzione, salute, vecchiaia, ecc.). Finché, fattane l’elencazione tassativa (con qualche difficoltà per i diritti sociali, che si vanno affermando a ridosso della rivoluzione industriale, come strategia biopolitica da parte dello Stato e come domanda di sostegno socio-economico per il «quarto stato»), l’implementazione dei diritti fondamentali di libertà e partecipazione era affidata al legislatore (e quella inizialmente stentata dei diritti sociali al governo e all’amministrazione come espressione della loro «minorità»), la sua sovranità – che, abbiamo visto, costituisce il Leitmotiv della storia politica e giuridica dell’occidente moderno –, come volontà della nazione, non subisce mutazioni tali da trasfigurarne la fisionomia e la definizione. Cosa che invece accade allorché i diritti fondamentali, nelle costituzioni che seguono la fine della Seconda guerra mondiale, non sono più affidati al legislatore (che, avendo con il totalitarismo generato la mostruosità del «torto legale», non appare più depositario della volontà generale né del popolo né della nazione), ma vengono addirittura presupposti alle stesse costituzioni che li «riconoscono» come indisponibili e, in quanto tali, li prescrivono come limiti concreti ai poteri dello Stato. In tale contesto è sembrato che le assemblee costituenti abbiano parlato più ai giudici che ai legislatori, conferendo loro un potere più ampio di interpretare la legge alla luce della costituzione. Anche la giurisdizione amministrativa, nella nuova temperie costituzionale, si è fatta sempre più attenta all’uso del potere esecutivo nella concreta amministrazione (l’interesse legittimo, di non facile elaborazione teorica proprio a causa della sovranità dello Stato, è stato progressivamente sostituito da veri e propri diritti all’impugnativa degli atti amministrativi). Ma, la garanzia più effettiva dei principii e dei valori di cui le costituzioni contemporanee si sono fatte interpreti nella fondazione dei nuovi Stati costituzionali la si è garantita, soprattutto, attraverso la giurisdizione delle leggi affidata alle Corti costituzionali.

Bibliografia

Schmitt C., Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, München-Leipzig 1922.