Romanticismo

di Stefano De Luca

Premessa

Se ci chiediamo quale rapporto sia intercorso, in Italia, tra romanticismo e liberalismo, va detto che si trattò, alle origini, di un rapporto molto stretto, sino ai limiti dell’identificazione: la generazione dei primi romantici italiani – quella, per limitarci ai nomi più noti, di Ludovico di Breme, Pietro Borsieri, Silvio Pellico, Carlo Porta, Giovanni Berchet, Ermes Visconti e di un appartato ma partecipe Alessandro Manzoni, la generazione che diede vita alla memorabile polemica con i classicisti (1816-1826) e che si raccolse intorno alla rivista «Il Conciliatore» (1818-19) – può essere considerata, a buon diritto, il primo embrione del movimento liberale italiano. Le ragioni di questa identificazione sono almeno tre.

In secondo luogo, il gruppo de «Il Conciliatore» può essere considerato il primo embrione del liberalismo italiano perché l’idea di libertà che anima questi scrittori non è più quella letterario-aristocratica della tradizione alfieriana e foscoliana, bensì quella politico-istituzionale messa a punto da Madame de Staël, Constant e Sismondi nel quadro di un’articolata riflessione storica sulla modernità. Essa implica un giudizio sostanzialmente positivo sulle rivoluzioni americana e francese, il ripudio del giacobinismo e del bonapartismo, la convinta adesione ai principi di libertà e al moderno sistema costituzional-rappresentativo. Non a caso la maggior parte dei nostri romantici esprime viva simpatia per il sistema politico degli Stati Uniti, dell’Inghilterra e della Francia, ossia dei paesi in cui, dopo il 1815, esisteva la «libertà dei Moderni». Anche su questi aspetti la testimonianza di Pellico è significativa. Parlando di alcuni amici torinesi al fratello Luigi – in una lettera del 1820 – egli scrive che sono sì «ardenti patrioti, ma sempre all’Alfieri» e quindi che «aborrono la tirannide ed amano la libertà, ma sempre in astratto, sempre guardando i greci e i romani, sempre disprezzando i moderni, sempre credendo che la razza umana è degradata» [Pellico 1963, pp. 218-219]. E in una lettera di due anni prima aveva scritto che la scoperta del governo rappresentativo, questa forma di governo sconosciuta agli antichi e ai loro filosofi più eminenti, rappresenta l’inizio di «un periodo affatto nuovo di civilizzazione»: riconoscere negli antichi un modello insuperabile, come sostenevano i classicisti, avrebbe quindi portato, nella sfera politica, all’assurda conseguenza di considerare «la turbolenta democrazia, la arbitraria aristocrazia e il dispotismo» [Pellico 1963, p. 141] sistemi politici migliori rispetto al governo rappresentativo degli Stati Uniti.

La questione romantica in Italia

Corinne fu investita da un’ondata di critiche (alcune ragionate, altre scomposte) e in ogni caso venne ritenuta responsabile, come ebbe a scrivere Ermes Visconti, «di lesa Nazione». In questo clima infuocato apparvero, sempre nel 1816, gli scritti di Ludovico di Breme (Intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani), Pietro Borsieri (Avventure letterarie d’un giorno) e Giovanni Berchet (Lettera semiseria di Crisostomo al suo figliuolo), che in seguito sarebbero stati considerati i «manifesti» del Romanticismo italiano. In essi gli autori compivano un impietoso esame della cultura italiana, che veniva rappresentata come un mondo separato dalle correnti più vive della cultura moderna, chiuso in una anacronistica e servile imitazione del passato, caratterizzato da una vuota erudizione e da un freddo formalismo: un mondo in piena decadenza, insomma, che costituiva il fedele specchio di una nazione decaduta. Per porre rimedio a tale situazione essi abbozzavano le prime teorizzazioni di una nuova letteratura, conforme allo spirito del proprio tempo, teorizzazioni che riprendevano – selezionandole e adattandole al «caso italiano» – alcune delle idee romantiche sviluppate da A.W. Schegel nel suo Corso di letteratura drammatica (1814).

Prendeva così avvio la battaglia tra «romantici» e «classicisti», che sarebbe proseguita sulle riviste sino alla metà degli anni Venti e che avrebbe svolto un ruolo decisivo nel mutamento della letteratura e della cultura italiana dell’Ottocento. La fase più interessante e creativa di tale battaglia coincise con la breve ma significativa vicenda de «Il Conciliatore» (1818-19), che fu l’organo dei romantici (anche se ospitò sulle sue colonne scrittori che romantici non erano, come Romagnosi e Gioia) e che avrebbe lasciato il testimone, dopo la sua soppressione, alla più compassata «Antologia» del Vieusseux (1821-1833). Intorno al 1820 la polemica romantica aveva comunque già dispiegato i suoi argomenti principali, tanto che per ricostruirne i temi e coglierne il significato complessivo si può fare riferimento a due testi dell’epoca che conservano ancora una straordinaria lucidità: la Notizia sul Romanticismo italiano di Ermes Visconti (scritta nel 1820 e diretta, per il tramite di Manzoni, a Claude Fauriel) e la Lettera sul Romanticismo dello stesso Manzoni (scritta nel 1823, indirizzata a Cesare D’Azeglio e pubblicata per la prima volta, nonostante la contrarietà del suo autore, nel 1846). Se la Lettera di Manzoni ricostruisce le tesi letterarie del Romanticismo tanto nella pars destruens (ripudio della mitologia antica, del principio dell’imitazione dei classici e delle unità drammatiche aristoteliche), quanto nella pars construens (il vero storico e morale come fine e sorgente del bello), la Notizia del Visconti è un breve ma efficacissimo resoconto del periodo 1816-20, che mette chiaramente in luce il principale bersaglio polemico dei romantici italiani (il «falso italianismo») e l’obiettivo di fondo che essi perseguivano: «congiungere in alleanza la letteratura d’Italia collo spirito del secolo» [in Manzoni, 2008, p. 206], il che significava, in sostanza, riagganciare l’Italia al cammino della civilizzazione europea, dominato in quella fase storica dai principi di libertà e di nazionalità.

Programma de «Il Conciliatore», i valori della pubblica utilità e del progresso tecnico-economico) e istanze proprie della cultura romantica (concezione attiva e creativa del soggetto umano, profondo senso della storicità, idea di nazione, rivalutazione della dimensione spirituale e religiosa). Da questo incontro nascerà una delle caratteristiche più interessanti e feconde del nostro primo Romanticismo, ossia la presenza, al suo interno, di una serie di endiadi i cui termini – letteratura e politica, italianismo ed europeismo, libertà individuale e fede religiosa, individualismo e associazionismo – invece di opporsi, stanno tra di loro in un rapporto di reciproca implicazione.

Il liberalismo dei romantici italiani

Idee elementari sulla poesia romantica: «per quella gran ragione che l’uomo è perfettibile, e che le scienze progrediscono – scrive Visconti – è naturale che noi, ammaestrati da Montesquieu e da Smith, da Necker e da Malthus, testimoni delle rivoluzioni d’America e di Francia, della recente potenza francese, della resistenza spagnuola e della lega tedesca, siamo in grado di giudicare gli Stati e le leggi con piú perspicacia e prudenza che non sapessero farlo i concittadini d’Alessandro e di Pericle, di Traiano e d’Augusto» [in Branca 1948, I, pp. 378-379].

Come si vede, le preferenze dei nostri romantici sono chiare: esse vanno verso quei paesi, come avrebbe detto Constant nel celebre discorso del 1819, in cui esiste la libertà dei Moderni. Questo non significa che non vi siano sfumature: nelle Avventure letterarie di Borsieri, ad esempio, si può trovare un aperto elogio della Rivoluzione americana, condotta in nome dei diritti di libertà e contro un Paese, «la libera e potentissima Inghilterra», che venendo meno ai suoi stessi principi aveva violato «lo spirito delle costituzioni» delle colonie, imponendo loro «assoluti comandi» [Calcaterra 1951, pp. 166-167]. Volendo dare un esempio di «spirito cavalleresco» in epoca moderna, Visconti scrive che esso «risplenderebbe d’una grazia assolutamente nuova ne’ volontari francesi al campo di Washington portativi dall’amore d’idee liberali». Anche nei carteggi di Breme e di Pellico si trovano espressioni di particolare simpatia verso gli Stati Uniti, probabilmente sia perché la rivoluzione americana non aveva dato luogo a nuovi dispotismi (come era accaduto in Francia con il giacobinismo e il bonapartismo), sia per la maggiore eguaglianza delle condizioni sociali e politiche rispetto al caso inglese.

È quindi al liberalismo di Coppet – che, come è noto, ha non pochi legami di affinità con la tradizione liberale anglo-americana – che si ispira il primo gruppo «organizzato» e consapevole di liberali italiani. Il liberalismo dei nostri primi romantici è dunque un fenomeno di importazione, come e più del loro romanticismo: se infatti quest’ultimo assunse ben presto una sua originale fisionomia (con la poetica del vero storico e del vero morale) e contribuì in modo decisivo alla formazione di un gigante della letteratura europea come Manzoni, il liberalismo dei nostri primi romantici non fu originale dal punto di vista teorico, né produsse opere politiche. Del resto, sarebbe stato difficile che da un Paese come l’Italia – dove il dibattito politico era impossibile, dove non esistevano né garanzie costituzionali, né libertà di stampa, né assemblee rappresentative e dove, soprattutto, incombeva il problema «preliminare» di rendere indipendente la nazione e di unificarla politicamente – potessero venire contributi originali all’elaborazione politico-istituzionale del liberalismo. Ma l’assenza di originalità teorica non implica l’assenza di rilevanza storico-politica. In realtà, l’importanza non sempre sufficientemente riconosciuta di questi primi liberali sta proprio nel fatto che essi importarono e tentarono di acclimatare in Italia una dottrina liberale matura e articolata e che per fare ciò sostennero, con il mezzo tipicamente moderno del «giornale», una vivacissima battaglia culturale. Una battaglia che avrebbe lasciato in eredità al nascente liberalismo italiano un respiro e una sensibilità europei, la ferma convinzione che questione nazionale e questione costituzionale dovessero andare di pari passo, l’opzione per una netta separazione tra Stato e Chiesa insieme a una profonda sensibilità religiosa, l’attenzione per i temi del progresso tecnico-economico (nella sfera agricola e in quella industriale) e una sensibilità sociale che trovò espressione nella spiccata attenzione al mondo femminile, al fenomeno dell’associazionismo e all’istruzione popolare. L’attenzione al mondo femminile, in particolare il tentativo di allargare il pubblico femminile «leggente», è un tema ricorrente sulle pagine de «Il Conciliatore». Quanto all’istruzione popolare, una delle battaglia più famose dei nostri romantici fu quella per il metodo lancasteriano, ossia per le scuole di mutuo insegnamento, pensate per diffondere l’istruzione tra gli strati popolari. Numerosi sono gli articoli dedicati all’argomento da «Il Conciliatore», con resoconti anche dall’estero. Ma non si trattò soltanto di una battaglia culturale: i romantici italiani si adoperarono in prima persona per la fondazione di varie scuole popolari, in Piemonte, in Lombardia e in Toscana.

Bibliografia

Introduzione a Memorialisti dell’Ottocento (1953), ora in Scrittori del Risorgimento, Biblioteca Treccani, Roma 2006.