Riviste

di Roberto Pertici

Prendendo le mosse da un’accezione dottrinaria di liberalismo, non sembrerebbe possibile individuare riviste «liberali» in Italia se non dopo l’affermazione di una più o meno ampia libertà di stampa: insomma alla vigilia del 1848. Ma se definiamo come «liberale» un atteggiamento di implicita opposizione all’ordine della Restaurazione (non generico, ma sostanziato di determinati atteggiamenti culturali) si può attribuire una valenza «liberale» anche ad alcune fra le più notevoli iniziative editoriali nate fra il 1815 e il 1848. Ebbero vita difficile con la censura dei rispettivi Stati e furono, presto o tardi, soppresse o «normalizzate»: ripercorrendo la loro storia, sembra quasi che l’esaurirsi di una (spesso dopo un intervento governativo), determini l’emergere dell’esperienza successiva e la temporanea egemonia di un altro «centro di cultura» nel panorama della penisola.

Nel quinquennio successivo al congresso di Vienna, è ancora Milano il centro della vita intellettuale italiana: qui, nel settembre 1818, per iniziativa di un gruppo di intellettuali (Pellico, Borsieri, Breme, Berchet) e di una serie di importanti finanziatori (come il conte Luigi Porro Lambertenghi, ma anche Federigo Confalonieri) nasce un foglio bisettimanale, «Il Conciliatore», che cesserà le sue pubblicazioni nell’ottobre del 1819. La sua fine segna un appannarsi del ruolo culturale (non di quello editoriale e commerciale) della capitale lombarda e, nel quindicennio successivo, è Firenze a rivestire un’analoga centralità per le iniziative di un geniale operatore culturale non fiorentino (nato a Oneglia, di famiglia ginevrina), che nella capitale toscana si era stabilito solo nel 1819: Giovan Pietro Vieusseux. Nel 1821, egli fondava l’«Antologia», una rivista che doveva avere inizialmente un carattere antologico-recensitivo, ma che – pur conservando una struttura di quel tipo – rispose sempre più nettamente a una ben definita strategia culturale e, in senso ampio, sociale e politica: nello stesso ambiente e per opera dello stesso gruppo nacquero, nel 1827, il «Giornale agrario», fondato da Cosimo Ridolfi, Lapo de’ Ricci e Raffaele Lambruschini, nel 1836 la «Guida dell’educatore» dello stesso Lambruschini, nel 1842 l’«Archivio storico italiano», avviatosi come raccolta di cronache e documenti di storia patria, apertosi sempre più spesso anche a contributi di critica storica. L’«Antologia» sarebbe vissuta fino al marzo 1833, quando fu soppressa dal governo granducale su richiesta delle ambasciate russa e austriaca a Firenze. Si cercò allora di trasportarne formula editoriale e programma culturale a Napoli, con la fondazione (1832) di «Il Progresso delle scienze, delle lettere e delle arti» diretto nei primi anni da Giuseppe Ricciardi, a cui collaborarono, dalla Toscana, non pochi componenti del gruppo di Vieusseux. La società meridionale stava vivendo allora gli effetti dell’ascesa al trono del giovane Ferdinando II (1830), e della svolta politico-culturale-generazionale che essa aveva comportato: il ritorno dall’esilio di molti uomini del 1820, l’inizio di un consistente numero di nuove testate, lo sviluppo di quelle «scuole domestiche», in cui si formavano coloro che saranno poi i protagonisti del ’48 napoletano.

Tra la fine degli anni Trenta e per tutto il decennio successivo, fu il giornalismo milanese ad avere di nuovo una grande fioritura, per merito della generazione che aveva raggiunto la maturità intorno al 1830 e che, quindi, non aveva conosciuto la Milano napoleonica né i primi, intensi anni della restaurazione austriaca. Questi giovani si raccolsero dapprima attorno agli «Annali di statistica», che l’editore Francesco Lampato aveva affidati, nel 1827, all’ormai vecchio e povero Gian Domenico Romagnosi: fra loro Carlo Cattaneo, Cesare Cantù, Giuseppe Ferrari, Cesare Correnti, Giuseppe e Defendente Sacchi. Alla morte di Romagnosi nel 1835, fu Cattaneo ad assumere la direzione del periodico. Egli poté muoversi con una relativa indipendenza economica, per eredità familiari e per la disponibilità della dote della moglie: non si limitò a trattare questioni economiche sulla sua rivista, ma entrò direttamente nel mondo degli affari, ricavandone prestigio e una consistente fortuna. Poté così procurarsi un periodico tutto suo, «Il Politecnico», che si iniziava a stampare nel 1839 e la cui prima serie, in quarantun fascicoli, giunse al 1844. Nel 1845, lo storico lombardo iniziava a collaborare alla «Rivista europea», da quell’anno diretta dal ventinovenne Carlo Tenca, destinato a diventare il maggior giornalista lombardo degli anni fino all’unità: rispetto a Cattaneo, il giovane Tenca non soltanto era più «letterato», ma mostrava anche una maggiore sensibilità «italiana», sviluppando una rete di corrispondenze e contatti con i principali stati della penisola e con i loro gruppi intellettuali: lo avrebbe dimostrato anche nella successiva esperienza, ancora milanese, di «Il Crepuscolo» dal 1850 al 1859.

Nel Piemonte sabaudo il ruolo di agente primario del processo risorgimentale spettò a quella borghesia imprenditoriale, che – nei decenni precedenti – si era fatta avanti nel mondo dell’agricoltura, ma anche in quello dell’industria e del commercio, e che quasi «costrinse» gli elementi più attivi dell’aristocrazia a svecchiarsi e ad assumere fisionomia e caratteri legati all’impresa e non solo alla tradizionale rendita fondiaria. Dalle fila di questa borghesia derivò buona parte di quei professionisti, impiegati, intellettuali, giornalisti che avrebbero promosso anche le pubblicistica piemontese degli anni Quaranta, in cui spiccano le «Letture popolari», e poi le «Letture di famiglia» (1842-1847) di Lorenzo Valerio, dove sono presenti le vedute generali del liberalismo moderato di quegli anni e il programma che esso veniva elaborando, ma anche un’attenzione più viva ai problemi dei ceti popolari e qualche risentimento anti-aristocratico. Nel luglio del 1846, poi, nasceva a Torino come organo della cultura moderata l’«Antologia italiana» di Francesco Predari, a cui collaborarono anche Cesare Balbo e Camillo Cavour: già il nome era significativo, perché si richiamava alla rivista fiorentina di Vieusseux, ma qualificata con un aggettivo («italiana», appunto) che era chiaro sintomo del respiro «nazionale» che l’iniziativa voleva assumere.

«Un progressivo miglioramento delle leggi sulla stampa, e singolarmente […] la loro imparziale e schietta applicazione» era uno dei temi principali della Proposta d’un programma per l’opinione nazionale italiana pubblicata nell’agosto 1847 da Massimo D’Azeglio: in effetti fu in quell’anno che – in seguito all’allentamento delle maglie della censura nello Stato pontificio (15 marzo), in Toscana 1847 (27 marzo) e poi soprattutto nel regno di Sardegna (29 ottobre) – comparvero i primi giornali politici, fra i quali alcuni ebbero un ruolo decisivo nella successiva articolazione del liberalismo italiano: come «L’Opinione» diretta agli inizi da Giacomo Durando e poi, dal 1852 al 1879, da Giacomo Dina, e «Il Risorgimento» fondato da Balbo e Cavour il 17 dicembre come settimanale e diventato quotidiano il 3 gennaio 1848: lo stesso Cavour lo avrebbe diretto fino al successivo 25 ottobre, affiancato da Michelangelo Castelli come vice-direttore.

Dopo la sconfitta del 1849 e la «seconda Restaurazione», il regno di Sardegna fu il solo stato italiano a non interrompere l’esperienza costituzionale e liberale intrapresa nel 1848, anzi la sua classe dirigente iniziò faticosamente a svolgerla verso un regime più propriamente parlamentare. Questo indirizzo ebbe subito un significato nazionale: agli occhi di una parte crescente dell’opinione pubblica italiana, il contrasto fra l’esperienza piemontese e quanto stava accadendo negli altri stati della penisola dopo il ritorno dei sovrani (abolizione delle costituzioni quarantottesche, ritorno della censura, clericalizzazione della vita pubblica, repressione, talvolta durissima, contro gli intellettuali e i patrioti che erano stati attivi nelle giornate del ’48, nuove persecuzioni poliziesche, ecc.) segnò progressivamente un distacco dai rispettivi governi e un orientamento sempre più favorevole al Piemonte. Si assiste, così, a un processo di «nazionalizzazione» delle élites regionali, che coinvolge anche quelle intellettuali: per queste ultime, anzi, esso risulta ancora più netto per l’intensa emigrazione verso il regno sardo che coinvolse migliaia di intellettuali provenienti, spesso profughi, dagli altri stati italiani. Sono in gran parte meridionali e siciliani sfuggiti al carcere (in cui restano, tuttavia, alcuni dei loro migliori compagni, come Silvio Spaventa e Luigi Settembrini), ma anche lombardi, veneti, sudditi del papa, qualche toscano: non pochi sono gli ebrei. Trovano a Torino e a Genova un ambiente tutto diverso, che mostra loro le possibilità nuove (economiche, di carriera, di sistemazione) che una società che si sta liberalizzando e in cui stanno cadendo molte delle rigidità dell’antico regime, può offrire a un intellettuale.

Gli intellettuali insediatisi allora in Piemonte intervennero con energia nei dibattiti politico-culturali, che si svolsero in una serie di nuove riviste: «Il Cimento» (1852-1856), voluto dagli emiliani Marco Minghetti e Luigi Carlo Farini e politicamente orientato dal napoletano Giuseppe Massari (questa rivista ospitò le polemiche anti-gesuitiche di Bertrando Spaventa e di Francesco De Sanctis), la «Rivista enciclopedica» (1855-1856), diretta dal siciliano Giuseppe La Farina, anch’essa d’intonazione nettamente laica e anticlericale, a differenza della «Rivista contemporanea» diretta dal 1853 al 1857 da Luigi Chiala, nella quale si esprimeva una tradizione cattolico-liberale che aveva salde radici locali, ma si avvaleva anche di collaboratori originari di altre regioni italiane, come Cesare Cantù e Niccolò Tommaseo.

La guerra del 1859 e poi l’unificazione politica raggiunta nel biennio successivo segnò la diaspora di questo variegato universo che si disperse per le università, le scuole, le redazioni dei giornali, le case editrici del nuovo regno. Dopo il passaggio della capitale a Firenze, Torino, come centro politico e culturale, entrò in una fase letargica, da cui si sarebbe riscossa solo all’alba del nuovo secolo [Romeo 1969-1984].

Proprio nella nuova capitale nasceva nel 1866 la «Nuova Antologia di scienze, lettere ed arti» (dal 1880 semplicemente «Nuova Antologia») fondata da Francesco Protonotari e pubblicata dall’editore Le Monnier. Seguendo il parlamento e il governo, la direzione della rivista si sarebbe trasferita a Roma nel 1878: essa fu per decenni quasi la pubblicazione ufficiosa dell’establishment «liberale» del nuovo Regno, aperta ai contributi di deputati e senatori, scrittori e poeti di grande fama, tecnici e amministratori. Nel 1874, fu la rivista di Protonotari a ospitare il saggio di Francesco Ferrara contro Il Germanesimo economico in Italia, che apriva la polemica contro il nuovo orientamento fautore dell’interventismo statale nelle questioni sociali e negli indirizzi economici e in prospettiva di un regime protezionistico a favore dell’industria nazionale. Anche l’economista siciliano era stato esule nella Torino degli anni Cinquanta, dove aveva insegnato economia politica all’università, stabilito una collaborazione difficile con Cavour e avviato (presso l’editore Pomba) la pubblicazione della «Biblioteca dell’Economista», diretta dal 1850 al ’68 e portata fino a ventisei volumi, divisi in due serie.

Oltre che sulla «Nuova Antologia», la sua polemica contro il socialismo di Stato e i «vincolisti» fu condotta sulla rivista fiorentina «L’Economista», a cui Luigi Luzzatti, Fedele Lampertico e Luigi Cossa (fra i più noti esponenti del nuovo indirizzo «interventista»), pensarono di contrapporre una nuova pubblicazione che vide la luce nell’aprile del 1875: fu il «Giornale degli economisti», la prima vera rivista italiana di scienza economica, che uscì a Padova fino a tutto il 1878 sotto la direzione di Eugenio Forti. La disputa fra la «scuola storica» e quella «classica» si venne esaurendo nel giro di pochi anni: negli anni Ottanta fu soprattutto un discepolo di Ferrara come Tullio Martello a portare avanti la polemica liberista, mentre gli ex socialisti della cattedra si facevano ormai fautori di un indirizzo storico-evoluzionistico di ispirazione spenceriana. Fu fra costoro che nacque l’idea di riprendere la pubblicazione del «Giornale degli economisti», in una «seconda serie» ben distinta da quella padovana. La rivista rivide la luce nel gennaio 1886 sotto la direzione di Alberto Zorli, professore di diritto tributario a Macerata, ma la vera svolta si sarebbe avuta quattro anni dopo, nel giugno del 1890, allorché tre giovani economisti che stavano cercando di introdurre in Italia la logica marginalistica e una nuova teoria della finanza pubblica sulla scia di Léon Walras se ne impadronirono, emarginando Zorli: si trattava di Antonio De Viti De Marco, professore di scienza delle finanze a Roma, Maffeo Pantaloni, professore di economia politica alla Scuola superiore di commercio di Venezia e Ugo Mazzola, docente di scienza delle finanze a Pavia.

Cronache politiche del periodico, il piemontese Edoardo Giretti e anche Luigi Einaudi.

Con il 1910 il «Giornale degli economisti» iniziava una nuova serie, che ne mutava assai il carattere, perdendo presto il tradizionale prestigio: Papafava era morto e Giretti cessava la sua collaborazione. La battaglia antiprotezionistica, tuttavia, riprendeva con toni e contenuti nuovi in un’altra rivista, «La Riforma sociale», fondata (o, meglio rifondata, perché prima si chiamava «Rassegna di scienze sociali e politiche») nel 1894 da Francesco Saverio Nitti e Luigi Roux: dal 1911 ne diventava direttore Luigi Einaudi, che vi portò avanti un’incisiva campagna contro il protezionismo industriale e quello operaio, alla luce di una radicale critica del sistema politico giolittiano in cui si riconosceva una degenerazione dello Stato liberale. La battaglia della «Riforma sociale» – anche attraverso la mediazione di De Viti De Marco – si collega a quella che alla fine di quell’anno fu iniziata dall’«Unità» di Gaetano Salvemini, che – se non può definirsi «liberale» per la storia del suo direttore e di molti collaboratori (quasi tutti ex socialisti in crisi di identità) – svolse, tuttavia, su molti piani un discorso in qualche modo parallelo a quello della rivista einaudiana, nella polemica antiprotezionistica, nella critica al giolittismo e al corporativismo socialista: aggiunse importanti temi come quello del meridionalismo, dell’antitriplicismo, della critica al partito ideologico.

Questo vario liberismo non esaurisce, tuttavia, il quadro del liberalismo italiano fra Otto e Novecento: a esso si affiancano e con esso sono – in molte questioni – connessi alcuni ambienti di liberalismo «interventista» (che cioè prevede un incisivo ruolo riformatore da parte dello Stato, soprattutto nella questione agraria e in quella meridionale), che danno vita a riviste che denotano una notevole capacità di ricognizione e di indagine della realtà italiana e di apertura alla cultura europea, inglese soprattutto, ma anche germanica. Le varie «voci di realismo politico» del periodo post-unitario (da Pasquale Villari a Giustino Fortunato, dal giovane Salandra a Enea Cavalieri) trovano un loro momento di coagulo nella «Rassegna settimanale» che i trentenni Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti fondano a Firenze ai primi del 1878 e diressero fino al 1882. Già il carattere ebdomadario era una novità e corrispondeva a una volontà di approfondimento quale non poteva raggiungere il giornale quotidiano, ma, al tempo stesso, al progetto di raggiungere un pubblico più vasto di quello a cui si rivolgevano di solito le riviste tecnico-scientifiche: «Aprire un campo – scrivevano i due direttori nel Programma – nel quale si possano discutere e studiare le questioni principali di ordine politico e sociale che si agitano presentemente in Italia, e ciò con maggiore calma e imparzialità di quel che non sia possibile nelle colonne di un giornale politico quotidiano, e, allo stesso tempo, in una forma più breve e facile e più adatta al gusto del gran numero dei lettori, di quanto non sia dato conseguire in tutte quelle riviste mensili a grandi dimensioni, di cui il nostro paese non difetta». Il gruppo che si venne formando attorno alla rivista cercò così di affrontare i problemi di fondo della realtà italiana: la rappresentanza politica e i sistemi elettorali, la questione meridionale, la situazione nelle campagne, l’istruzione popolare e la cultura universitaria, la criminalità nel Mezzogiorno, il problema cattolico, la beneficenza pubblica e le opere pie, le banche popolari e i monti frumentari, il dissesto della finanza locale e la corruzione elettorale, il dissesto idrogeologico delle province meridionali, le malattie sociali: per entrambi i direttori, ma soprattutto per Sonnino, essa costituì il momento conclusivo di una lunga fase di apprendistato culturale e politico e il ponte verso Roma e la carriera parlamentare [Carlucci 2002].

Il 12 febbraio 1922 appariva a Torino un nuovo settimanale, che manifestava fin dal titolo un carattere al tempo stesso «liberale» e «rivoluzionario»: «La Rivoluzione liberale», appunto. La dirigeva un giovane di poco più di vent’anni, Piero Gobetti, che si era formato sulle riviste fiorentine dell’anteguerra, in particolare «La Voce» di Giuseppe Prezzolini e «L’Unità» di Salvemini e aveva già mostrato una notevole capacità di organizzatore di cultura dando vita il 1° novembre 1918 a un primo periodico, chiamato «Energie nove», una delle testimonianze più significative delle febbrili aspettative del primo dopoguerra. La cultura gobettiana era composita: la lezione dell’idealismo italiano, Croce, ma anche molto Gentile, i maestri liberali dell’università di Torino (Einaudi, Gaetano Mosca, Francesco Ruffini), sullo sfondo le letture di Sorel, di Pareto, di Péguy e di Oriani, il misticismo russo e le speranze di riforma religiosa che circolavano negli ambienti di cristianesimo eterodosso in Italia. Non certamente un liberalismo «ortodosso», ma una cultura capace di entrare in contatto con quanto di vivo avvertiva anche in posizioni antitetiche: dal bolscevismo dei comunisti torinesi al fascismo intransigente di Curzio Suckert al cattolicesimo antimoderno di Domenico Giuliotti. Per Gobetti, «liberalismo» significava soprattutto «antimoderatismo» e «antitrasformismo»: si tratta di una concezione agonistica della vita, una vocazione allo «stato di minoranza» e un pessimismo che puntava a un’affermazione lontana, anche a costo di un insuccesso immediato. Ne derivava un giudizio estremamente critico sullo Stato italiano, così come si era formato in un Risorgimento «senza eroi», senza vera rivoluzione, senza rotture con l’antico ordine: in cui la morale guicciardiniana del «vecchio» italiano era sopravvissuta e trapassata nel nuovo regno, improntando l’ethos collettivo.

Al di là delle riserve che si sono nutrite sulla qualità di tale liberalismo, è innegabile l’enorme capacità gobettiana di coinvolgere nei suoi progetti editoriali una nuova generazione di intellettuali che poi si dissero, in un modo o nell’altro, «liberali»: Mario Missiroli, Giovanni Ansaldo, Alessandro Passerin d’Entrèves, Umberto Morra di Lavriano, Manlio Brosio, Santino Caramella, Novello Papafava, Filippo Burzio, Mario Vinciguerra, Max Ascoli, Mario Ferrara, Arrigo Cajumi, Eugenio Montale, Luigi Salvatorelli. Molti di loro furono poi coinvolti nell’ultima rivista di Gobetti, quella che per alcuni anni sopravvisse al suo fondatore: «Il Baretti», nata il 23 dicembre 1924 come quindicinale e poi, dall’inizio del 1926, mensile. Nella nuova rivista fecero le prime prove, quando erano ancora studenti, Aldo Garosci, Leone Ginzburg e Massimo Mila: nessuno di loro aveva conosciuto personalmente Gobetti, ma furono fra i primi esponenti di una cultura «gobettiana», che grande influenza ha esercitato nell’Italia del XX secolo, restando tuttavia sostanzialmente estranea alla tradizione più propriamente liberale [Bobbio 1977].

Varietà e di Postille dello stesso Croce, in cui il filosofo, da una parte offriva i frutti della sua formidabile erudizione, dall’altra puntualizzava problemi di filosofia e di costume letterario. Una rivista – come si vede – severa e aliena da ogni «praticismo», che tuttavia ebbe anche un fondamentale valore «politico», tanto che può essere considerata come l’organo fondamentale dell’opposizione interna, liberale e intellettuale, al fascismo. Anche per questo la sua tiratura conobbe un certo incremento: nei primi anni della dittatura, se ne pubblicavano circa 2 mila copie, che toccarono però le 3 mila negli anni Trenta [Rizi 2003].

Nel periodo fascista si ebbe un rilancio anche della «Riforma sociale»: nel dopoguerra, Einaudi vi aveva scritto abbastanza raramente e la rivista era calata nel numero di pagine e probabilmente di lettori. Ma abbandonato forzatamente l’impegno giornalistico dopo la fascistizzazione del «Corriere della sera» alla fine del 1925, l’economista tornò a impegnarsi nel suo periodico, che aveva trovato anche un efficientissimo redattore nella persona di Francesco Antonio Rèpaci. Negli anni seguenti la «Riforma sociale» ospitò, fra l’altro, le riflessioni einaudiane sulla crisi economica mondiale, le sue polemiche contro Keynes e contro il corporativismo fascista, le sue prime analisi del New Deal rooseveltiano. Dal 1934 essa cominciò ad essere pubblicata dal nuovo editore Giulio Einaudi, il minore dei figli del senatore, e venne così coinvolta nelle indagini poliziesche che colpirono l’ambiente della sua casa editrice e che portarono all’arresto dello stesso editore. Il 27 maggio 1935 un decreto prefettizio ne disponeva la sospensione insieme alle altre riviste pubblicate da Giulio Einaudi («La Cultura» e «La Rassegna musicale») e il successivo 3 dicembre il suo direttore dichiarava agli abbonati che la gloriosa testata chiudeva i battenti dopo quarantun anni di vita. Ma soltanto sei mesi dopo, il 7 giugno 1936, Luigi Einaudi avrebbe comunicato loro la nascita di una nuova rivista, la «Rivista di storia economica», meno impegnata nell’analisi di idee e fatti contemporanei e più attenta alle questioni più propriamente storiche: ma, seppure in forma assai prudente, continuarono l’attenzione e il confronto critico con la contemporaneità (basti pensare all’interesse einaudiano per l’opera di Wilhelm Roepke).

Il 20 dicembre 1924, Einaudi aveva scritto l’articolo di apertura di «Rinascita liberale», un quindicinale diretto da Adolfo Tino e Armando Zanetti e finanziato dal direttore del «Corriere della sera», Luigi Albertini: fra gli altri collaboratori Francesco Ruffini, De Ruggiero, Croce, Umberto Ricci e Giuseppe Prato. «Rinascita liberale» ebbe vita assai difficile per i continui sequestri, che alla fine, nel giugno del 1925, la costrinsero a cessare le pubblicazioni. Vent’anni più tardi, durante l’esilio svizzero, alcuni superstiti del vecchio «Corriere» albertiniano (fra cui ancora Einaudi e Tommaso Gallarati Scotti) diedero vita a «L’Italia e il secondo Risorgimento», supplemento settimanale della «Gazzetta ticinese» che uscì a Lugano dal 29 aprile 1944 al 5 maggio 1945. Diretto da Ettore Janni, anche lui antico collaboratore di Albertini e direttore del «Corriere» durante i «quarantacinque giorni», il supplemento ospitò alcuni celebri interventi einaudiani sul programma liberale da sviluppare in Italia, il decentramento amministrativo, i limiti dei partiti, la futura unità europea [Faucci, cit., pp. 249-255, 329-334, 456].

Ancora Einaudi fu uno degli animatori del settimanale liberale «La Città libera» che si venne pubblicando dal 15 febbraio 1945 e che, nel primo semestre del 1946, avrebbe continuato le sue pubblicazioni come mensile. La rivista, diretta nel 1945 da Giorgio Granata, sarebbe stata retta, nell’ultima fase della sua breve esistenza, da un comitato direttivo composto da Croce, Einaudi e Giuseppe Paratore. I «bravi giovani» (come li chiamava Einaudi) che si coagularono attorno a essa, non esitavano a richiamarsi esplicitamente alla tradizione politica «liberale». Si trattava di una scelta significativa e difficile, in un momento in cui il liberalismo era considerata una costellazione politica totalmente superata e la parola stessa suscitava perplessità e diffidenze. Nel 1955, Arrigo Benedetti avrebbe ricordato il «disagio», che un giovane inevitabilmente provava nel 1943 a parlarne e a riproporne anche il nome, poiché era convinzione diffusa che «il liberalismo, come motivo della lotta politica italiana, proprio per essere legato ad alcune tradizioni, non poteva avere uno slancio fresco»: i giovani che allora rifondarono il Partito liberale si tormentarono «alla ricerca di un nome che rispondesse al concetto» che era chiaro in ciascuno di loro e, solo dopo parecchie esitazioni, conclusero che «non potevano non chiamarsi liberali, pur restando consapevoli degli equivoci che ne sarebbero derivati».

Tuttavia fu il settimanale di Pannunzio (fino alla sua chiusura il 5 marzo 1966) a costituire la voce più caratteristica della cultura liberale nel secondo dopoguerra italiano: della crisi di questa cultura, la sua parabola indica anche le ragioni di fondo. Alla fine del 1955, «Il Mondo» fu un po’ l’anima dello scisma definitivo della sinistra liberale, che si staccò dal partito di Malagodi e confluì poi nel nuovo Partito radicale. Negli anni precedenti, Pannunzio e i suoi collaboratori avevano sostenuto lealmente il centrismo degasperiano e la sua battaglia anticomunista, ma esso, basato com’era sulla collaborazione fra le forze laiche e il partito cattolico, era stato dai più considerato come una situazione di emergenza, priva tuttavia di un respiro strategico sul piano delle prospettive culturali e politiche. Il risentito laicismo di questi ambienti aveva impedito loro di avvertire un qualche comune denominatore col vario cattolicesimo italiano (quella comune «civiltà europea» di cui parlava invece l’ultimo De Gasperi) e ora, dopo il fallimento della legge maggioritaria, li spingeva alla ricerca di nuovi equilibri politici. Si apriva la fase dell’apertura a sinistra, di cui furono fra i più decisi propugnatori. Ma la nuova situazione imponeva alcune prime correzioni di tiro: l’avversario principale ora non era più ormai il comunismo (e, infatti, le loro reazioni alla crisi comunista del 1956 furono piuttosto caute, preoccupati com’erano di non confondersi alla campagna delle destre e della Dc), ma quei settori della Dc e della Chiesa italiana che si opponevano all’apertura ai socialisti. Da qui un’esasperazione del loro laicismo, che diede vita nella seconda metà degli anni Cinquanta a una serie di grandi campagne anticlericali, e il ricupero deciso dell’antifascismo: bisognava opporsi a una possibile alternativa sulla destra al progettato centro-sinistra e quindi accentuare l’antagonismo fra i partiti dell’arco costituzionale e la destra monarchica e missina. Non che l’antifascismo non fosse presente nel pedigree di questi ambienti, ma esso era stato declinato per anni in simbiosi con l’anticomunismo («antitotalitarismo»): ora, invece, esso assumeva sempre più una rilevanza autonoma, mentre il «pericolo» comunista cominciava a essere sistematicamente ridimensionato.

Bibliografia

Cavour e il suo tempo, voll. 3, Laterza, Roma-Bari 1969-1984.