Resistenza

di Gerardo Nicolosi

La partecipazione dei liberali italiani alla Resistenza deve essere considerata come l’esito del percorso compiuto negli anni del regime fascista, che per gran parte di loro ha inizio nel gennaio del 1925, quando il Partito liberale italiano, sebbene diviso, passa all’opposizione di un governo che sopprime le libertà costituzionali e la voce del Parlamento. È bene precisare che questa considerazione per lungo tempo non ha avuto valore assiomatico, laddove per buona parte della storiografia con l’arrivo di Mussolini al potere la classe politica liberale non esiste più, è già condannata dalla storia, travolta dal crollo del sistema, colpevole della svolta autoritaria, poi irrimediabilmente passiva, quando non collaborazionista. Le cose, invece, andarono diversamente.

Ciellenismo liberale

I liberali italiani furono parte attiva del Comitato di liberazione nazionale sin dalla sua costituzione: fu Leone Cattani a essere delegato in rappresentanza dei Gruppi di ricostruzione liberale a stringere l’accordo di Milano del 4 luglio 1943, dove assieme a Riccardo Lombardi per il Pd’a, Concetto Marchesi e Geimonat per i comunisti, Mentasti per i democristani, Veratti per i socialisti, furono gettate le basi per la costituzione del Cln. Leone Cattani fu anche l’autore di un articolo dal titolo La politica del Comitato di liberazione. Il denominatore comune, scritto nel giorno in cui venne tradotto in Via Tasso e pubblicato su «Risorgimento liberale» il 5 gennaio 1944, che può essere considerato il «manifesto» del ciellenismo liberale. In esso spiegava come il denominatore comune dell’alleanza non dovesse essere un «vago» antifascismo, ma un elemento positivo e cioè una concezione della democrazia che significasse«contemporaneamente e indissolubilmente» anche libertà. Libertà e democrazia altro non erano che «normale funzionamento degli istituti politici costituzionali, sia nella parte in cui stabiliscono il meccanismo di formazione dei governi attraverso il libero gioco dei partiti, sia in quella in cui difendono i diritti delle minoranze e i diritti personali dei cittadini». Metodo democratico e metodo liberale, cioè «comporre e risolvere pacificamente i problemi e i conflitti politici», avrebbero evitato la degenerazione della lotta «in nuove dittature, in nuovi travestiti fascismi». Si tratta di una concezione dell’antifascismo fondata sull’ideale di libertà – «che è insieme esigenza di ordine, di rispetto delle idee di tutti, di dignità civile» – e che avrebbe dovuto costituire la base dell’alleanza tra i partiti, in cui «velleità e aspirazioni di dittatura, residui di violenza partigiana, manifestazioni di intransigenza totalitaria», scriveva Cattani, non avrebbero trovato giustificazione [Cattani 1944].

Il Cln non doveva essere inteso come un «Comitato di salute pubblica», né avrebbe dovuto trasformarsi in una oligarchia. Suo compito era la promozione di un governo che avrebbe dovuto attuare alcuni obiettivi precisi quali «la demolizione della struttura tirannica del fascismo, la restaurazione della libertà di stampa, di associazione, di riunione» e inoltre «la garanzia della libera decisione del popolo italiano sugli istituti che avrebbero dovuto presiedere la vita avvenire». Veniva riconosciuta la necessità che il governo potesse disporre di «poteri eccezionali», ma avrebbe dovuto astenersi dall’assorbire anche i poteri del capo dello stato e promuovere la costituzione di una assemblea provvisoria anche con sole funzioni consultive, in modo che venisse creato un limite all’azione di governo e fosse ristabilito un qualche legame di rappresentanza fra governo e popolo.

A tal proposito non bisogna dimenticare che sin dal settembre del 1943, i liberali, e anche quelli più possibilisti nei confronti di una svolta repubblicana, si dichiararono contrari a qualsiasi decisione in direzione di una decadenza della monarchia, di sospensione delle prerogative regie, e si schierarono contro l’ordine del giorno 16 ottobre 1943 in cui in un passaggio si sosteneva che il governo avrebbe dovuto assumere «tutti i poteri costituzionali dello Stato». Unanimemente concordi sul giudizio di condanna nei confronti di Vittorio Emanuele III, i liberali però agiscono per il mantenimento della monarchia come istituzione. Era un segno di fedeltà costituzionale che guardava alla salvaguardia dei due poteri, monarchia e governo, in una posizione tale da controbilanciarsi e condurre il paese in ordine e libertà sino al giorno in chi avrebbe potuto decidere del proprio futuro istituzionale. Questa stessa posizione venne difesa nel Ccln in occasione della presentazione di un ordine del giorno socialista del 9 febbraio 1944 dove si riproponeva una interpretazione radicale dell’ordine del giorno 16 ottobre 1943, cioè i pieni poteri «per il governo straordinario antifascista», condizioni giudicate da Bonomi irricevibili «per il ripudio del metodo democratico» [in Fanello Marcucci 2005]. Una posizione ribadita nella riunione del 18 marzo successivo, in cui Carandini sostenne ancora che l’abdicazione sarebbe stata necessaria per permettere al popolo di poter scegliere fra «la repubblica e una monarchia pulita e perciò confrontabile con la repubblica» [ivi, pp. 208].

Il trasferimento dei poteri al principe Umberto e la formazione del secondo governo Bonomi (giugno 1944) vengono salutati quindi come la «fine di un equivoco» ed è da questo momento che il Pli agisce con maggiore fermezza in favore del ripristino delle regole del gioco democratico e in particolare nella battaglia per la legalità, che investiva in pieno il problema della natura del Cln. Nel corso di un Comitato nazionale del partito nei giorni della formazione del terzo governo Bonomi (dicembre 1944), Cattani ebbe modo di ribadire la sua opposizione all’idea che i Cln fossero le «nuove cellule» della democrazia e che il Ccln potesse essere inteso come un organo originario di diritto pubblico in posizione di equilibrio nei confronti della monarchia. Un’altra testimonianza di ciellenismo liberale fu data dal dibattito innescato da una lettera del Pd’a sui poteri del Clnai del novembre 1944, un documento esemplare di una concezione dei Cln come nuclei di una palingenesi politica, sociale e amministrativa. Nell’intervento del Pli (febbraio 1945) fu chiarito che la situazione di eccezionalità comportava di evitare che la «nuova» democrazia italiana nascesse come una «République des Comité», con partiti arrogantisi poteri esecutivi. Non si trattava di svuotare politicamente il Clnai – tra l’altro, alcuni liberali, come Arpesani, erano vicini alle posizioni azioniste – ma di preservare la sua natura di espressione «discordemente concorde» dell’opinione democratica e di evitare che esso divenisse voce esclusiva di determinate correnti politiche «col pretesto di dare al popolo una direttiva (brutta parola di conio fascista)» [Jacini 1946]. E al Comitato nazionale del marzo 1945, ancora Cattani spiegava che in questa opera di ricostruzione i Cln erano da intendersi come «sede di incontro e di consultazione tra i vari partiti» dei quali non avrebbero dovuto soffocarne «l’individualità». Cattani marcava una differenza tra passione unitaria, che aveva ispirato l’azione dei liberali, e «nostalgie totalitarie», paventando il rischio dell’affermazione di un «pensiero unico» ciellenista.

La stessa posizione venne mantenuta durante la gestazione del governo Parri, quasi un simbolo della nuova democrazia ciellenista, quando il Pli confermò la propria volontà di collaborazione, riconoscendo ai Cln il merito di «una grande funzione storica non solo nel campo militare, ma anche nel campo politico». Ai liberali non sfuggiva però la progressiva deriva «corporativa» dei Cln locali, in cui venivano incluse rappresentanze sindacali o giovanili o femminili che favorivano la rottura degli equilibri politici a tutto vantaggio dei partiti di massa, quando, tra le altre cose, per le rappresentanze del mondo del lavoro e sindacale era stata appositamente studiata una Consulta nazionale. La crisi del governo Parri è per i liberali la liquidazione definitiva di quella che Cattani giudicava come la «pericolosa e antidemocratica involuzione dei comitati di liberazione locali» [Nicolosi 2007].

Promotori e partecipi attivi dei Cln, che considerarono come un importante momento di confronto, è del tutto evidente come i liberali volessero muoversi su un terreno costituzionale per la necessità di salvaguardare la continuità dello stato, giudicata unica garanzia per evitare la finis Italiae e puntassero su questa strada al ristabilimento delle condizioni minime di un normale sistema liberal-democratico con il contributo di tutte le forze dell’antifascismo.

Lotta per la libertà e l’indipendenza

Da menzionare è poi tutto il liberalismo politico meridionale con dei gruppi ben riconoscibili come quello dei Perrone Capano a Trani, dei De Grecis e Laterza a Bari, dei Grassi, Fumarola, De Pietro a Lecce. In Sicilia, Vittorio Emanuele Orlando aveva mantenuta intatta la sua influenza, assieme ad altri personaggi come Giuseppe Paratore e Giovanbattista Rizzo e nuove forze come Gaetano Martino a Messina, Stefano Stabile a Trapani, Francesco e Carlo Orlando, Girolamo Bellavista, Antonio Chinnici, Domenico La Cavera a Palermo, Dante Majorana a Catania, Pietro Guarino a Caltanissetta. In Sardegna, Francesco Cocco Ortu fu continuatore della tradizione familiare. A proposito dei liberali del meridione, non bisogna sottovalutare poi il rimpasto di governo del novembre del 1943 con il quale Badoglio «imbarcò» Raffaele De Caro, Epicarmo Corbino, Vito Reale, l’avvocato nittiano che fece da tramite tra Badoglio e gli alleati da una parte e Croce, De Nicola e l’opposizione ciellenista dall’altra.

L’idea coltivata sin dal settembre del 1943 fu che si dovesse dichiarare guerra alla Germania, che, nei limiti del possibile, doveva essere condotta da un esercito regolare, possibilmente guidato da un governo legittimo, che fosse sì espressione genuina delle forze antifasciste, quindi del Cln, ma allo stesso tempo capace di rappresentare tutta la nazione, o che almeno tendesse a questo, il che poteva essere raggiunto soltanto attraverso la salvaguardia dell’istituto monarchico, anche se non della persona del re. Nella intensa pressione della stampa liberale sul governo Badoglio affinché si giungesse alla dichiarazione di guerra alla Germania, che arrivò il 24 ottobre 1943, riecheggiavano accenti antitedeschi della tradizione carducciana e poi legati al ricordo di «Vittorio Veneto», visto come il compimento di un percorso iniziato con l’Unità. Questa preferenza per una lotta condotta da forze regolari si giustifica intanto per la preoccupazione di una possibile contrapposizione tra un esercito regolare e un esercito «di parte» come poteva essere quello del Cln. Non bisognava dimenticare che l’Italia era ancora uno stato monarchico retto dallo Statuto albertino e che il re era il comandante supremo delle forze armate. Vi era poi la considerazione della presenza delle truppe alleate sul territorio nazionale, ciò che realisticamente imponeva di non favorire ulteriori situazioni di disunione, ed anzi, che spingeva in direzione di una ricostituzione urgente di un esercito nazionale pronto a combattere, anche per correggere le condizioni armistiziali in direzione di una cobelligeranza, ciò che infatti i comandi alleati ostacolarono. Vi era poi la necessità di evitare derive totalitarie: appena liberatasi da un tiranno, la costituzione di bande armate al servizio di un partito o di un gruppo di partiti sembrava per il paese la soluzione meno opportuna: «non potrebbe domani anche il capo dei nuovi volontari voler imporre al governo le sue condizioni abbandonando ancora una volta in pieno il metodo della libertà?», domandava il costituzionalista Arangio-Ruiz a Croce il 14 ottobre 1943.

La contingenza politica non permise l’adozione immediata del programma «legalitario», ma sul piano militare rimase la convinzione che la lotta per bande, che i liberali non disdegnarono, partecipandovi e pagando anche in termini di vite umane, fosse un capitolo che dovesse chiudersi a ogni chilometro guadagnato dal fronte alleato. Con la progressiva liberazione del territorio nazionale e in presenza di un governo legittimo la guerra doveva essere condotta da forze regolari: dopo la liberazione di Roma e l’insediamento del governo Bonomi, il Partito liberale procedette allo scioglimento delle sue bande e avviò l’arruolamento per il Corpo Volontari della Libertà, ma non ricusando il suo sostegno alla «insurrezione partigiana» vista come «il grande indizio di questa nostra volontà di sopravvivere come popolo indipendente». Non c’è nulla di nuovo in questo atteggiamento dei liberali italiani: è la stessa idea che aveva animato la linea dei «moderati» durante il Risorgimento, laddove l’insurrezione popolare avrebbe dovuto seguire o semmai accompagnare quella istituzionale, ma mai precederla.

Vi erano poi considerazioni più realistiche legate alla necessità di chiudere la guerra per bande anche perché scarsamente controllabili, portatrici a volte di atteggiamenti di giustizia sommaria e di vendette personali, nonché protagoniste di azioni poco meditate che spesso avevano il solo effetto di provocare tremende rappresaglie su una popolazione già di per sé atterrita. C’è una bella pagina di Beppe Fenoglio in cui Edo, comandante «badogliano», si oppone a un piano di azione «perché poi il paese avrebbe subito tremende rappresaglie. Era molto meglio, disse, combattere regolarmente fuori paese, in campo aperto, e qualunque fosse stato l’esito, il paese avrebbe dovuto, ragionevolmente, andare esente da conseguenze. – Questo è tipicamente, spaventosamente azzurro, – bisbigliò a Milton Hombre che allora era semplice comandante di distaccamento» [Fenoglio (1963) 2003, p. 91].

Su questa esigenza di regolarizzazione della lotta, anche da un punto di vista tattico, era ancora viva la ferita della strage delle Fosse Ardeatine. Il 15 aprile 1944, «Risorgimento Liberale» aveva pubblicato il comunicato con cui il Pli si associava all’indignata condanna della strage del 24 marzo e in cui l’attentato di via Rasella veniva considerato «un atto di guerra di patrioti italiani». Ma lo faceva seguire da un corsivo in cui è trasparente il dissenso nei confronti di quelle iniziative che mettevano a repentaglio la vita dei cittadini. Non mancava nemmeno una malcelata allusione al colore politico dell’iniziativa, visto che a proposito della spietatezza delle SS si ricorreva al racconto di un reduce dal fronte russo, per concludere che «chi conosceva questi fatti, che sono vicende comunissime, episodi che si sono ripetuti cento e mille volte (Stalin ha accusato i tedeschi di avere sterminato due milioni di civili russi) sapeva come doveva andare a finire anche a Roma» [«RL» 1944].

L’adozione di un «metodo liberale» della lotta al nazifascismo, intesa come lotta per la libertà e per l’indipendenza, spiega il rapporto preferenziale che si stabilisce a un certo punto tra Pli e formazioni autonome, in cui militavano uomini di ogni tendenza politica non per scelta tattica, ma come segnale di autenticità del movimento partigiano: «Non vogliamo essere l’espressione di un solo partito o di una sola classe, ma l’espressione della nazione nella sua collettività, un vero esercito democratico senza preferenze di parte», si legge nel diario di Enrico Martini «Mauri» [Piffer 2007, p. 443], che fu uno dei più noti capi della resistenza «azzurra». E lo stesso dicasi per la mitica «Franchi», guidata dal liberale-monarchico Edy Sogno, che, come racconta un altro partecipe di quella esperienza, in una rocambolesca azione militare aveva tentato di liberare l’azionista Parri dalla prigionia e per questo rinchiuso in un lager a Bolzano [Brichetto Arnaboldi 2007, p. 114-114].

Per i liberali, la resistenza è una lotta di liberazione nazionale. Essi ebbero una visione molto «comprensiva» di essa, che superava le differenziazioni geografiche tra nord e sud Italia, quelle politico-ideologiche e quelle sociali. Di questa comprensività è testimonianza il grande sforzo mobilitante e propagandistico profuso dalla stampa di partito, che cercava di sensibilizzare e coinvolgere una società civile quanto mai provata, spesso dando notizia di episodi minimi, ma in cui fosse visibile anche un solo barlume di orgoglio e sentimento nazionale. Una comprensività che si manifesta anche nei confronti di quelle forme di resistenza che nulla hanno a che vedere con i canoni tramandataci dalla vulgata partitica, delle donne meridionali che cuciono le divise dei soldati italiani al seguito degli alleati, delle famiglie che danno rifugio ai ricercati politici, degli internati militari, compreso quelli che si erano consegnati spontaneamente rifiutando di collaborare sia con i tedeschi, e quindi rischiando la vita, sia con il movimento partigiano, di cui si condannava la violenza. Era un approccio non ideologico nei confronti di una realtà quanto mai complessa e che si prestava male a essere circoscritta entro i confini angusti di un discorso «di partito».

Questo spiega molto della riluttanza del Pli ad associarsi al coro dell’apologia della Resistenza una volta che la sua memoria apparve tristemente «partitizzata». Certo non mancò anche la consapevolezza che qualcosa stesse andando contrariamente alle aspettative. Già nel maggio 1945 l’organo del Pli denunciava le prime «divergenze» tra bande di un partito e bande di un altro partito, tanto che «i fucili rivolti fino a ieri contro l’oppressore minacciano in taluni casi il compagno di lotta e di pericolo» [«RL» 1945]. Da quel momento apparve chiaro che quella lotta non era stata combattuta da tutti per le stesse ragioni. Non si vuole insinuare qui una sorta di superiorità antropologica dei liberali italiani, fatto sta che essi, quando non ne furono esclusi, non parteciparono alla corsa per l’appropriazione della Resistenza e si sottrassero alla «frenesia del martirio», per dirla con Alfredo Parente. Di fronte alla lottizzazione della memoria resistenziale e al suo uso politico a fini legittimanti cominciarono a prevalere le ragioni della dignità e del silenzio.

Bibliografia

L’altra Italia della resistenza liberale, in «Ventunesimo secolo», IV, 8, ottobre 2005.