Partito liberale italiano – La gestione Malagodi

di Giovanni Orsina

La decisione di Giovanni Malagodi di candidarsi alla Camera dei deputati nelle liste liberali era maturata alla fine del 1952. Simultaneamente il futuro segretario del Pli aveva anche stretto un rapporto organico con la Confindustria, accettando di avviare e presiedere un centro di ricerche finanziato dagli imprenditori e destinato a svolgere, oltre all’attività di studio, anche un’opera informale di pressione sulle istituzioni politiche. Era insomma stato evidente fin dall’inizio come la nuova recluta liberale fosse destinata a fare da trait d’union fra il partito e il mondo produttivo: un ruolo assegnatogli in maniera pienamente consapevole da tutte le parti in causa, dai vertici di Confindustria tanto quanto dall’allora segretario del Pli Villabruna.

In realtà, non era questa l’intenzione del nuovo segretario, che dei neofascisti non voleva allora né successivamente avrebbe mai voluto saperne, e i monarchici li considerava semmai un’opzione di riserva. Nei fatti, per altro, l’ipotesi di una maggioranza di destra «pulita» sfumò già dall’estate del 1954, e col passare dei mesi il nuovo segretario liberale divenne un sempre più fermo sostenitore del centrismo. Per paradosso, tuttavia, più l’ipotesi di un’uscita a destra dal centrismo si faceva improbabile, più la sinistra liberale si metteva nei confronti del nuovo segretario su una posizione di fronda. Nel febbraio del 1955, quando la decisione di Scelba di forzare in consiglio dei ministri un compromesso sui patti agrari aprì una frattura profonda fra la delegazione del Pli al governo e il vertice del partito, la sinistra ebbe infine la sua grande occasione per disarcionare il segretario. Nel consiglio nazionale svoltosi alla fine del mese, tuttavia, Malagodi riuscì a ricompattare il partito sotto la propria leadership, e non lasciò all’ala progressista altra via che la scissione – e scissione fortemente minoritaria, per giunta.

Consolidatosi infine il segretario, negli anni restanti della seconda legislatura e poi nella terza il Pli continuò da un lato a essere un fermissimo sostenitore dell’alleanza centrista, e dall’altro a svolgere la funzione del contrappeso di destra destinato a impedire che la coalizione scivolasse eccessivamente a sinistra. Il centrismo era considerato non una semplice e contingente formula politica, ma un’«atmosfera etica»: il segno dell’appartenenza spirituale dell’Italia all’Occidente, tanto più importante quanto più fragile era il tessuto statuale e nazionale della Penisola, e quanto più numerosi i consensi raccolti dai partiti che si rivolgevano verso Est. Proprio perché dava del centrismo un’interpretazione così «alta» in termini tanto storici quanto ideologici, il Pli – sostanzialmente compatto, in questo, intorno al suo segretario –, rifiutò qualsiasi ipotesi di «grande destra» che dalla Democrazia cristiana arrivasse al Movimento sociale. Come si vide chiaramente nel luglio del 1960, quando – seppure con qualche divisione interna – il partito rifiutò il proprio sostegno a Tambroni e accettò di sostenere il governo Fanfani di convergenza. E si oppose del pari con grande fermezza al centro sinistra, ritenendo che accogliere al governo un Psi che non si fosse separato a ogni livello dal Pci significasse indebolire fatalmente l’orientamento occidentale del paese. La funzione di «contrappeso sulla destra» all’interno del centrismo, il Pli la esercitò soprattutto, anche se non soltanto, sui programmi di governo. Se pure in tante sue parti quella funzione si declinava in positivo, la sua manifestazione più visibile consisteva comunque nell’opposizione intransigente allo sviluppo della spesa pubblica e delle partecipazioni statali, all’indebolimento della proprietà privata nella riforma dei patti agrari, alla creazione delle regioni a statuto ordinario, all’introduzione del referendum.

A motivo del clima storico complessivo, delle scelte di alcuni attori fondamentali della scena politica italiana, ma anche di alcuni avvenimenti contingenti, i liberali non riuscirono a impedire il passaggio dal centrismo al centro sinistra. La loro strategia passava per la gestione di un complesso rapporto col partito di maggioranza relativa, fatto da un lato di opposizione e pressione sul versante moderato, dall’altro di disponibilità a cooperare. Rifiutata l’ipotesi di «grande destra», del resto, e reso il centrismo sempre più difficile dall’irrequietudine di repubblicani e socialdemocratici, il loro obiettivo non poteva che essere quello di un bipartito fra loro stessi e i cattolici – allargato al più ai monarchici. Per questo bipartito, però, in parlamento non vi furono mai i numeri. Mentre la Dc di Fanfani e Moro si orientava sempre più decisamente verso l’apertura ai socialisti, con un movimento politico e ideologico «strutturale» che i dorotei non sapevano o volevano arrestare.

Sconfitto nella battaglia contro il centro sinistra, verso la metà degli anni Sessanta il Pli, pur continuando a godere di un certo flusso economico in entrata, perdette anche il rapporto privilegiato con gli industriali. Fino ad allora, al contrario, la strategia di Malagodi si era potuta appoggiare a finanziamenti piuttosto consistenti, che avevano consentito un rafforzamento considerevole della struttura del partito oltre che una maggiore incisività nella raccolta del consenso. In alcune fasi anzi – come nel caso della Confintesa, il gruppo di pressione elettorale formatosi nel 1956 dall’accordo fra Confindustria, Confagricoltura e Confcommercio – il segretario liberale aveva agito da vero e proprio ideologo del fronte imprenditoriale. Anche se, come già s’è accennato, il rapporto in questione non era mai stato del tutto pacifico, sia perché non sempre le opinioni politiche erano state convergenti e compatibili, sia perché l’impegno finanziario, elettorale, ma anche morale degli imprenditori era rimasto ben al di sotto di quanto i liberali avrebbero desiderato.

Consolidatosi nell’estate del 1964 il centro sinistra, con la nascita del secondo governo Moro, e consolidatosi per giunta in una forma alquanto moderata, malgrado l’eccellente e mai ripetuto 7 per cento raccolto alle elezioni del 1963 i liberali si trovarono isolati sul centro destra, in una posizione di quasi nessuna rilevanza politica e pressoché privi di alternative. Salvo variazioni minori, tattiche e contingenti, questa situazione si sarebbe riprodotta negli anni a seguire, fino all’effimera «controsvolta» moderata del 1972, dalla quale sarebbe nato il secondo governo Andreotti con Malagodi Ministro del Tesoro. Per tutta la seconda metà degli anni Sessanta, del resto, il Pli non volle nella sostanza attenuare la sua opposizione al centro sinistra, malgrado gli organi direttivi – d’accordo col segretario – avessero nei primi mesi del 1965 fatto un cautissimo sondaggio in quella direzione. Questi furono dunque per i liberali anni di elaborazione ideologica, sollecitata dal mutare delle circostanze storiche in generale, e dalla contestazione studentesca in particolare. Furono gli anni della battaglia per il divorzio, che la sinistra del partito sposò con entusiasmo, e la segreteria con molta maggiore cautela, percependo da un lato il pericolo di distanziarsi troppo dalla Democrazia cristiana e di alienarsi l’elettorato benpensante, e dall’altro però la possibilità che quello della laicità fosse il terreno sul quale meglio potesse combattersi l’incontro fra le «chiese» cattolica e comunista. E furono infine gli anni di un graduale ma costante calo elettorale, conseguenza della percepita irrilevanza politica dei liberali, calo che indebolì la leadership malagodiana e fece montare all’interno del partito delle sempre più consistenti opposizioni di destra e soprattutto sinistra.