Partito liberale italiano – Da Bologna a Livorno (1922-1925)

di Fabio Grassi Orsini

L’inizio del processo aggregativo delle forze liberali appartenenti alla destra, che provenivano dal centro-destra sonniniano e dal gruppo liberalnazionale e che poi si erano trovate insieme nel «Fascio Parlamentare», si può far risalire alla fine del 1918. Nell’ambito della Destra liberale va tenuta presente la rinascita nel 1919 dei gruppi «nazional-liberali», attorno al giornale «L’Azione», mentre il gruppo «nazional-liberale» era sorto nel 1914 per iniziativa di Giovanni Amendola, Giulio Bergmann, Paolo Arcari e Alberto Caroncini. I liberalnazionali rifiutavano per loro l’etichetta di «conservatori», qualificandosi liberali «puri», richiamandosi alla tradizione cavouriana, interpretata dai fratelli Spaventa, con un programma i cui punti di forza erano la reazione antibolscevica, il rifiuto della logica classista e la difesa degli interessi economici in vista della ripresa produttiva, la restaurazione delle istituzioni monarchiche, la riforma dello stato attraverso il rafforzamento dei consigli nell’ambito dei ministeri, in seno ai quali vi fosse una collaborazione tra tecnici e rappresentanti delle categorie produttive, una politica estera non fondata sulla conquista e sull’imperialismo. Il movimento si ispirava a principi liberisti e antiprotezionisti, trovando punti di contatto con i «liberisti puri» che facevano capo ad Antonio De Viti De Marco, e dichiarava di volersi battere contro lo spirito astrattista e falsamente umanitario dei democratici.

Parallelamente all’iniziativa dei liberali nazionali, si muovevano altri gruppi e personalità che gravitavano nell’area della Destra liberale. Promotrici di un convegno ai fini della riunificazione delle forze liberali furono le associazioni liberali di Milano e di Napoli, per conto delle quali gli onn. Chimienti e Belotti cercarono di raccogliere adesioni tra i colleghi parlamentari sulla base di un programma del costituendo partito, pubblicato dal «Giornale d’Italia» il 20 febbraio 1919. Nell’aprile del 1919, si era tenuto a Roma un convegno dal quale uscì la decisione di fondare la Federazione nazionale del Partito liberale, promosso dal principe Prospero Colonna, da Cesare Ferrero di Cambianoe dal marchese Ferdinando Del Carretto. Vi parteciparono 36 deputati liberali di tendenza interventista. L’8-11 giugno dello stesso anno si tenne il primo congresso della Federazione del Partito liberale democratico italiano, che si concluse con la nomina di una direzione, di cui il primo segretario fu M. Verdiani, e l’approvazione di uno statuto. La partecipazione di Chimienti, Belotti e Theodoli al governo Nitti, avversato dal partito, e la loro conseguente espulsione indebolì il Pldi, mentre nelle elezioni del ’19 si mancò l’obiettivo di liste comuni tra il Pldi (di tendenza moderata filo-salandrina) e la Democrazia liberale di tendenze giolittiane. Le liste salandrine non vennero premiate e molti esponenti del partito si presentarono in altri raggruppamenti. Ancora meno successo riportarono le liste della «Alleanza nazionale per le elezioni politiche» e una sorte non migliore toccò anche ai liberalnazionali. Fu chiaro allora quello che sarebbe stato il destino del gruppo, di cui alcuni membri, come Gioacchino Volpe, saranno spinti a fiancheggiare il fascismo, altri, come Umberto Ricci, a confluire nel Pli, ed altri ancora a orientarsi verso un approdo liberaldemocratico, come Guido De Ruggiero. Maggiore successo ebbero, invece, i candidati giolittiani e liberaldemocratici che confluirono nel gruppo di «Democrazia Liberale».

Un successivo congresso del Pldi si tenne nel luglio del 1920 a Roma, con l’obiettivo di promuovere la formazione di un «grande partito liberale» che avrebbe dovuto portare all’unificazione delle forze liberali, dai radicali, ai combattenti del Partito del rinnovamento e ai nazionalisti. Al congresso parteciparono oltre che esponenti della corrente salandrina, anche, in qualità di osservatori, due esponenti del gruppo parlamentare di «Democrazia Liberale» (filogiolittiana). Se il progetto di un «grande partito liberale» si dimostrò una prospettiva non realistica, rimase aperta l’alternativa di una «piccola unificazione» tra liberali filosalandrini e filogiolittiani, nonostante l’incomprensione dei primi verso il governo Giolitti-Sforza. Le elezioni amministrative avevano premiato le liste liberali e in questa occasione il Pldi aveva favorito l’intesa con altre formazioni liberali. Dopo le elezioni si tennero alcuni congressi regionali tra cui quello toscano (marzo 1921) e quello dell’Alta Italia, che si svolse a Milano (23 gennaio 1921). A seguito dei congressi regionali venne convocato un congresso nazionale per il 10-12 aprile del 1921. In occasione di questi congressi non fu possibile nemmeno realizzare la «piccola unificazione» tra liberali di destra e filogiolittiani. Nonostante ciò il Pldi raggiunse una certa forza organizzativa nelle regioni del Centro-Nord (Piemonte, Lombardia, Toscana e Marche) e poteva contare su di un reseau di giornali riuniti nella Federazione della stampa periodica liberaldemocratica, costituitasi nel settembre 1921.

Le elezioni politiche con la formazione dei Blocchi Nazionali aveva temporaneamente avvicinato i liberali delle due tendenze, ma alla Camera si ricostituirono i due tradizionali raggruppamenti, poi formalizzati con la riforma del regolamento del 1920: quello di «Democrazia Liberale» (filo-giolittiano) e quello «Liberal-Democratico» di Salandra. Nel maggio del ’22, il comitato direttivo del Pldi decise di convocare un congresso delle organizzazioni liberali e democratiche allo scopo di costituire un partito unico delle forze liberali. Il congresso di Bologna (8-10 ottobre 1922) fu così preceduto da quattro mesi di preparazione nel corso dei quali si tennero numerose riunioni del «comitato organizzativo» (a Genova, Bologna, Milano, Firenze). Fu Alberto Giovannini, direttore della «Libertà Economica» di Bologna, a scrivere un «decalogo» programmatico, mentre autore del progetto dello statuto fu Quintino Piras di Novara, statuto secondo il quale il partito doveva assumere il nome di Partito liberale italiano (art. 1). Nel preambolo dello statuto veniva riconosciuta la «imprescindibile necessità che i liberali ed i democratici si unissero in un partito unitario nazionale» e si riaffermava «la fede nelle vigenti istituzioni che hanno possibilità di indefinito progresso» e ci si riproponeva di «sostenerle con l’organizzazione e la propaganda contro ogni forma di violenza e disgregazione» (art. 2).

Secondo le disposizioni statutarie, era dunque prevista un’articolazione molto capillare che doveva superare le tradizionali dimensioni comunali e provinciali prevedendo un’organizzazione regionale. A livello centrale, erano istituiti: il segretario del partito, il consiglio nazionale e il comitato direttivo nazionale, la federazione giovanile, le corporazioni professionali e di mestiere, la federazione della stampa, il collegio dei revisori dei conti e gli amministratori. Il consiglio nazionale doveva essere formato da 3/5 di rappresentanti delle federazioni provinciali, per 1/5 di parlamentari e dal restante quinto dai rappresentanti delle corporazioni professionali e di mestiere, dalla federazione della stampa e da quella giovanile. Il consiglio nazionale doveva nominare il presidente del consiglio nazionale, il segretario politico nazionale, i revisori dei conti e le «commissioni speciali» (per l’azione finanziaria ed economica e per la stampa e la propaganda).

Il numero delle tessere rappresentate al congresso furono 250.000 circa, la metà di quelle registrate al congresso di Roma, ma ciò dipese da un controllo più serio del tesseramento nella fase precongressuale. Al congresso di Bologna, che si tenne al teatro comunale, parteciparono cinquecento delegati: esso si aprì con una coreografia degna di un partito di massa, con un tripudio di bandiere e di uniformi kaki e azzurre delle organizzazioni giovanili, al suono della marcia reale e dell’inno di Garibaldi. Il discorso inaugurale fu tenuto dal prof. Giuseppe Lipparini e gran parte dei lavori del congresso fu dominata dal problema del nome da dare al nuovo partito, se dovesse chiamarsi «liberal-democratico» o semplicemente liberale.

Non si trattava di una questione di natura nominalistica, perché a favore della prima dizione stavano le correnti liberal-democratiche che facevano capo al giolittismo, di cui rappresentante al congresso era il deputato di Cuneo Egidio Fazio, mentre i liberali «puri», che paradossalmente rappresentavano in quel momento la maggioranza del Pldi, si ispiravano alla tradizione della destra. Essa faceva capo a Salandra e principale punto di riferimento era Luigi Albertini, che vi ebbe un ruolo centrale. Era in gioco a Bologna l’egemonia sul nuovo partito e la politica delle alleanze: più intransigentemente per l’autonomia del partito si schierò la sinistra, possibilista si dichiarò la corrente centrista e filonazionalista la destra.

A Bologna, il Pli era ancora lontano dall’avere la rappresentanza di tutte le «famiglie» liberali: la maggioranza era costituita dalle correnti di destra, ma all’interno del partito vi era un centro e una minoranza giolittiana. Non era stato raggiunto perciò né l’obiettivo minimo della «piccola unificazione», quella cioè delle formazioni liberali, né tanto meno quello più ambizioso della fusione di tutte le forze liberali e liberaldemocratiche. L’insediamento del partito era, peraltro, limitato all’area centro-settentrionale, ma lasciava fuori gran parte del liberalismo meridionale, salvo qualche enclave dove la corrente di destra aveva conservato una base di massa.

Tra il congresso di Bologna e quello di Livorno, che si aprì il 4 ottobre 1924, si verificarono quei fondamentali avvenimenti che erano destinati a cambiare la natura del sistema politico e fra questi la riforma elettorale, le elezioni con la legge Acerbo, grazie alla quale il fascismo conseguì una schiacciante maggioranza parlamentare, l’assassinio Matteotti, la crisi politica e il rimpasto ministeriale che ne conseguì: avvenimenti che lungi dal favorire il processo di unificazione delle forze liberali, avevano creato più profonde fratture, soprattutto riguardo all’atteggiamento da prendere nei riguardi del fascismo che si avviava a trasformarsi in regime.

Alla vigilia del congresso si nutrirono speranze che queste divisioni sarebbero state superate e si sarebbe presa una posizione netta. Si riteneva che la rinascita dei valori liberali e il rafforzamento organizzativo delle forze liberali avrebbe favorito il ritorno ai principi statutari della convivenza civile, alla restaurazione della funzione parlamentare, all’arbitrato della Corona e alla eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. Il «Corriere della Sera» riportava nella cronaca di quei giorni le reazioni della stampa fascista che dimostrava un certo nervosismo nei confronti dell’esito del congresso e tra queste un fondo del «Popolo d’Italia», attribuito allo stesso Mussolini, dai toni minacciosi e sarcastici.

Nell’intervento inaugurale che il presidente Borzino pronunciò a Livorno venne in primo luogo esaltata la fedeltà leale e costante alla costituzione, il cui carattere intangibile e irrevocabile era scritto nel preambolo dello Statuto. Si richiamò a Cavour nella difesa della libertà di stampa, citando un passaggio di un suo discorso dell’8 marzo 1854, il che non era un richiamo rituale alle libertà statutarie, ma una ferma dichiarazione di opposizione al decreto del luglio di quell’anno, preso a seguito dell’assassinio di Matteotti, nei riguardi del quale Borzino dichiarò di «non poter tacere lo sdegno e la condanna della recente tragedia di inaudita violenza e di nefandezza morale, incredibile tragedia sulla quale la nazione, profondamente turbata, domanda giustizia e luce». Borzino quindi rivolgeva un pressante invito al governo a «restaurare l’imperio della legge», come unico mezzo per conseguire la pacificazione. Nel descrivere il clima di stanchezza e di delusione che regnava nel paese, auspicava un’intesa tra tutti gli uomini liberi al di fuori e al di sopra della logica dei partiti, che favorisse «la restaurazione dei diritti costituzionali che consentisse alla nazione, nel pieno esercizio delle sue libertà, lo svolgimento normale della vita politica ed economica».

Dai verbali del congresso risulta una partecipazione attiva dei delegati, mentre adesioni pervennero dai senatori Benedetto Croce, Prospero Colonna, Alfredo Lusignoli, Vittorio Polacco, Rava, Campello, Giusti del Giardino, Aloisi di Lardarel, Faelli, Della Noce, Brusati, Agnelli, Greppi, Poggi, Vigoni, Faina, Fratellini, Giovanni Vidari, Luigi Facta, Brandolini.

Se a Salandra e al suo gruppo sfuggì il controllo del partito per aver continuato a pensare che fosse ancora possibile una collaborazione con il fascismo, si deve però riconoscere a essi il merito di aver dotato, seppure oramai tardivamente, il primo Pli di strutture di massa, anche se non si riuscì a realizzare quella «grande riunificazione» che era nei suoi voti. L’idea era infatti quella di dar vita a un «grande partito liberale», risultante dalla fusione di tutte le correnti liberali in un’unica organizzazione, capace di competere con i partiti di sinistra: un partito conservatore di massa moderno e nazionale, con strutture permanenti e radicato nella società e perciò articolato su due livelli, uno territoriale e uno professionale, quest’ultimo formato alla base da un reticolo di movimenti e di associazioni di categoria legate al partito.

Che il primo Pli fosse un precedente importante quanto contestato, soprattutto dai «nuovi liberali», si vide al momento della riorganizzazione delle forze liberali, quando Croce dette vita nel 1944 a Napoli al nuovo Pli. In quella occasione, dopo una lunga discussione su di un problema non irrilevante, se cioè si trattasse di costituzione o di «ricostituzione» del partito, venne adottata la seconda soluzione, quella caldeggiata da Croce. Le ragioni possono essere diverse: da una parte, ci si voleva ricollegare a un partito «storico» e a quella parte della classe dirigente che vi aveva militato e che ancora avrebbe avuto un ruolo nel partito che si ricostituiva e, dall’altra, si voleva fissare al 1925 l’inizio del nuovo antifascismo che vedeva uniti i liberali contro il regime.