Moderatismo

di Stefano De Luca

Il concetto: origini storiche e difficoltà teoriche

in medias res è necessaria un’altra precisazione.

res publica per il repubblicanesimo, la democrazia per il democratismo), a una specifica esperienza storico-politica elevata a modello (principi e prassi del partito giacobino per il giacobinismo e dei fasci di combattimento per il fascismo). Il moderatismo, invece, rimanda a qualcosa di «formale»: il valore al quale si ispira (la moderazione) non indica un obiettivo da perseguire, ma un modo di agire, un metodo ispirato alla razionalità, alla prudenza, al gradualismo (concepite come antitesi del fanatismo, del radicalismo, della violenza). Possiamo intuire «come» agirà un partito che si definisce moderato, ma non «cosa» in concreto farà: per capire quali saranno le sue posizioni su un qualsiasi problema dovremo scendere sul piano del contesto storico-politico e individuare quali siano le posizioni in campo. Si è moderati sempre in «risposta a», in «relazione a» qualche forma di radicalismo: è soltanto in presenza di posizioni percepite come estreme o radicali che la moderazione, da metodo compatibile con diverse tradizioni politiche, si organizza in autonoma posizione politica. Da questa natura «posizionale» e «relazionale» nasce quel margine di indeterminatezza teorica che è proprio del moderatismo, ma anche la sua grande importanza nella storia otto-novecentesca dell’Europa continentale e soprattutto dell’Italia, paese particolarmente esposto, forse proprio in virtù della sua arretratezza politica e sociale, al fascino dei miti rivoluzionari.

Il moderatismo in Italia: due accezioni principali

Il vario moderatismo italiano dal triennio giacobino agli anni Trenta

Lettere a Vincenzio Russo, chiave di lettura importante per comprendere il senso politico del Saggio storico, Cuoco avanza forti riserve sul principio della rappresentanza e sostiene l’idea secondo cui la volontà generale – sempre giusta – non ha bisogno né di controlli né di limiti (tesi che mal si conciliano, è appena il caso di notarlo, con alcuni assunti-chiave del liberalismo moderno e che rimandano piuttosto ad altre tradizioni del pensiero politico).

La Rivoluzione di Luglio cambia ancora una volta il quadro politico europeo e, di riflesso, quello italiano, spostandolo questa volta a sinistra: le nuove minacce di una rivoluzione democratico-sociale portano, in Francia, allo sviluppo della «dottrina del giusto mezzo» (il cui principale interprete sarà Guizot), mentre in Spagna, dopo la morte di Ferdinando VII (1833), rinascono i moderados, che appoggiano la linea dinastica «liberale» (incarnata dalla reggente Maria Cristina e della figlia del re, Isabella II) contro quella «assolutistica» (impersonata da don Carlos, fratello del re). Quanto all’Italia, al settarismo carbonaro succede quello mazziniano: in questo quadro – dove alla rigida chiusura conservatrice dei governi si contrappone la propaganda e l’azione rivoluzionaria dei mazziniani – maturano le convinzioni politiche di uomini come Cesare Balbo e Massimo D’Azeglio, nonché del giovanissimo Cavour. Di grande importanza, tra gli anni Venti e Trenta, è infine lo sviluppo di posizioni liberali in ambito cattolico: si tratta di quegli autori (oltre a Manzoni, i già citati Lambruschini e Capponi, ai quali va aggiunto Rosmini e, a partire dal 1834-35, Gioberti) che cercano di coniugare alcune conquiste di libertà del mondo moderno con la tradizione cattolica, distinguendosi tanto dai reazionari intransigenti, quanto dai cattolici democratici alla Lamennais (cioè da quelle che, per usare le categorie di Gioberti, rappresentavano la destra e la sinistra cattoliche). Caratteristico dei cattolici liberali sarà la trasposizione politica del valore etico-religioso della moderazione: in questi autori il richiamo alla moderazione significherà non soltanto il rifiuto del metodo rivoluzionario, ma un’attitudine alla ragionevolezza, alla mediazione, all’operosità e al gradualismo che si distingue dal radicalismo astratto, dal fanatismo e dall’impazienza rivoluzionaria. Questo atteggiamento, unito ad una maggiore considerazione per le «ragioni dell’autorità» e all’esigenza di non contraddire le pronunce del magistero, porterà i cattolici liberali italiani ad essere molto prudenti e graduali sul piano delle soluzioni politico-istituzionali, ma in compenso più sensibili e avanzati sul piano della questione sociale.

Il «partito moderato»: 1843-1848

Programma per l’opinione nazionale italiana di D’Azeglio (1847). Anche se tra questi scritti non mancano le differenze (nello stile, nelle analisi e nelle proposte), è evidente la volontà dei loro autori di collocarsi su una medesima linea: se Gioberti aveva dedicato il suo libro a Silvio Pellico (simbolo, agli occhi dell’opinione pubblica europea, della causa italiana grazie a Le mie prigioni, ma anche protagonista della stagione del «Conciliatore»), Balbo dedica le Speranze d’Italia a Gioberti e D’Azeglio dedica gli Ultimi casi di Romagna a Balbo. C’è – in questi rimandi personali fatti in pubblico – la consapevolezza e la volontà di dare vita a un medesimo movimento d’opinione, che aspira a rappresentare la nazione italiana nei suoi bisogni reali e diffusi: non a caso quello che può essere considerato la sintesi e il manifesto del liberalismo moderato prenderà il titolo di programma per l’opinione «moderata e nazionale».

Il richiamo all’opinione pubblica è, sotto molti punti di vista, l’elemento caratterizzante del pensiero e dell’azione dei moderati ed è strettamente connesso al rifiuto del metodo rivoluzionario e all’opzione per le riforme. Questa scelta si basava su un insieme di ragioni, alcune di carattere normativo (ascrivibili all’etica cristiana e alla tradizione illuministico-liberale), altre legate a una concezione della politica di tipo realistico-storicistico. Non a caso il rifiuto della via rivoluzionaria veniva argomentato sulla base della storia italiana recente e su un’analisi dello stato attuale e delle tendenze della civilizzazione europea.

Ultimi casi di Romagna, l’arte di mutare la casa a un mattone per volta, abbandonando quell’impazienza e quell’improvvisazione rivoluzionarie che avevano condotto la causa nazionale e liberale in un vicolo cieco.

Ultimi casi di Romagna.

Ecco perché era così importante, nel caso italiano, risvegliarla, sollecitarla, indirizzarla e formarla: perché solo il suo sostegno avrebbe reso inevitabili e durature le conquiste in tema di libertà e indipendenza. Ed ecco perché la richiesta della libertà di stampa (la «pubblicità») era una delle richieste che i moderati avanzavano con maggiore insistenza. Essa infatti avrebbe permesso di formare la pubblica opinione e, al tempo stesso, di darle voce: avrebbe rappresentato il «succedaneo» di quella libertà politica che – nelle forme del moderno parlamentarismo – i moderati ritenevano di non poter richiedere per non pregiudicare l’obiettivo che più gli stava a cuore, la questione nazionale. Se l’indipendenza nazionale – viste le debolezze interne e le resistenze internazionali – poteva essere raggiunta solo con la collaborazione dei sovrani esistenti, era necessario non spaventarli con la richiesta di mutamenti sostanziali nella forma di governo. Di qui la formula giobertiana della «monarchia consultativa», una sorta di tappa intermedia tra «monarchia assoluta» e «monarchia deliberativa» (caratterizzata cioè dalla presenza di un’assemblea eletta dai cittadini): nelle monarchie consultative il sovrano sarebbe stato affiancato da un’assemblea i cui membri, scelti dal sovrano stesso, dovevano costituire l’aristocrazia intellettuale della nazione e farsi «portavoce» della pubblica opinione. Sempre da questa cautela nasce la momentanea propensione di Balbo, che pure è un fervente ammiratore del modello inglese, per le monarchie consultative e soprattutto la preminenza che egli accorda, sino al 1848, al fine dell’indipendenza su quello della libertà (nella convinzione che queste ultime avrebbero diviso, mentre l’indipendenza richiedeva la massima unione possibile).

Su questo tema, indubbiamente importante, va ricordata l’opinione contraria di Giacomo Durando, che nel libro Della nazionalità italiana, apparso a Losanna nel 1846, aveva sostenuto, in polemica con Balbo, come proprio la libertà politica fosse necessaria al fine di avere l’energia necessaria per realizzare l’impresa nazionale (differenza che ha spinto alcuni interpreti, a partire da De Ruggiero, a ritenere i moderati dei conservatori e a distinguerli dallo «schietto liberalismo moderno», al quale invece apparterrebbero a pieno titolo Cavour e lo stesso Durando).

Se sul piano politico il riformismo dei moderati era cauto, sul piano civile ed economico esso si faceva portatore di un programma di modernizzazione che, come ha dimostrato a suo tempo Raffaele Ciasca, aveva dietro di sé una lunga tradizione, le cui origini stavano nel liberismo degli economisti italiani della seconda metà del Settecento. Questo programma di riforme avrebbe preso, nel Programma azegliano del 1847, la sua forma definitiva, con la richiesta di larghe riforme civili (eguaglianza civile e fiscale, principio di legalità, moderata libertà di stampa), amministrative (consigli comunali e provinciali eletti per via popolare), giudiziarie (pubblicità dei dibattimenti, giudizi tramite giurie), economiche (sistema ferroviario nazionale, riduzione al minimo delle dogane, uniformità di monete, pesi e misure), scolastiche (miglioramento della formazione scolastica, educazione delle classi inferiori, uniformità dei sistemi universitari con reciproco riconoscimento dei titoli).

Ma le dinastie italiane, con la sola eccezione di quella piemontese, non si mostreranno all’altezza delle sfida riformista del liberalismo moderato, né sul piano delle riforme interne, né riguardo alla questione nazionale. Di qui l’inesorabile declino, dopo il 1848, del moderatismo come programma politico (anche se va ricordato che la soluzione confederale ricomparirà, persino con l’elemento neoguelfo della presidenza papale, negli accordi di Plombières). Rimaneva tuttavia in piedi – grazie soprattutto a Balbo e ai suoi scritti successivi al ’48 – il lascito teorico e culturale del moderatismo, ossia il riformismo come questione di forma e sostanza al tempo stesso, lo spirito di legalità, il legame tra questione nazionale e dimensione europea, la centralità della pubblica opinione, il rifiuto della strumentalizzazione della religione (o dell’irreligione) a fini politici, una concezione sobriamente realistica della politica (egualmente avversa al volontarismo politico astratto e al cinismo di chi negava ogni rilievo alla dimensione ideale nell’azione politica). Caratteristico del liberalismo moderato di Balbo sarebbe stata la preferenza per un sistema bipartitico all’inglese e il nesso – di sapore tocquevilliano – tra principi di libertà e fede religiosa. Temi che nella cultura politica italiana, anche liberale, sarebbero rimasti minoritari, a causa di ragioni storiche ben precise.

Prima di concludere, è necessario accennare, sia pure in modo sintetico e schematico, al dibattito interpretativo sul moderatismo. In buona sostanza, le diverse interpretazioni discendono dall’intreccio tra due criteri valutativi: il ruolo che viene accordato al cattolicesimo, ovvero al neo-guelfismo, nel determinare la natura politica del moderatismo e il giudizio che si dà sul rapporto di compatibilità o meno tra cattolicesimo e liberalismo. Gli interpreti che accentuano l’ispirazione cattolica del moderatismo e che considerano la dottrina cattolica difficilmente conciliabile con i principi del liberalismo ritengono che quello dei moderati, se di liberalismo si vuole parlare, fu un liberalismo «decurtato», insufficientemente moderno, sostanzialmente conservatore. Di qui l’inclusione e la valorizzazione, nel novero dei moderati, di Rosmini e dei cattolici toscani e l’esclusione di Cavour e Durando (che a differenza dei moderati, sarebbero degli autentici liberali). Si tratta della linea interpretativa che trova la sua espressione più netta e radicale in De Ruggiero e che è stata variamente ripresa e sfumata nella seconda metà del Novecento. Chi condivide la rilevanza dell’ispirazione religiosa, ma non la considera incompatibile con i principi liberali, considera invece il moderatismo l’embrione di un «altro» liberalismo, non insufficientemente ma diversamente moderno. Questa linea è ovviamente sostenuta da una parte della storiografia cattolica e trova una delle sue più articolate versioni in Passerin d’Entrèves. Vi sono interpreti, infine, che ridimensionano l’ispirazione cattolica del movimento moderato e lo riconnettono al riformismo e al razionalismo settecenteschi: anche in questo caso viene riconosciuto al moderatismo un ruolo essenzialmente liberale, ma vengono esclusi dal novero dei suoi esponenti personaggi come Rosmini e si sottolinea come il neoguelfismo sia una dottrina attribuibile solo a Gioberti. Si tratta della linea sostenuta da Ciasca e Salvatorelli, ai quali si debbono ricostruzioni articolate e documentate del moderatismo. Va infine ricordato come una delle prime sistemazioni critiche – quella di Francesco De Sanctis, che sottolineava l’ispirazione cattolica dei liberal-moderati e che considerava incompatibili il moderno liberalismo e la dottrina cattolica – non per questo negava la «funzione liberale» esercitata dai moderati (inclusi Rosmini e Gioberti) nella fase storica che va dagli anni Trenta al 1848. Diverso era il giudizio di De Sanctis sui tentativi di ripresa del moderatismo dopo l’unificazione e in particolare dopo il 1870: in questo caso, infatti, esso avrebbe costituito, a suo parere, il supporto di un partito conservatore e clericale.

Bibliografia

La storia politica e sociale, in Storia d’Italia, III, Einaudi, Torino 1973.