Libertà

di Giovanni Giorgini

Della tirannide in due libri (1777) e vi mette in exergo una citazione dalla Guerra Giugurtina di Sallustio che esalta la libera Roma repubblicana. Tutta l’opera di Alfieri è pervasa da questo anelito di libertà, ispirata alla contrapposizione classica tra la schiavitù indotta da un regime oppressivo e la libertà repubblicana e i suoi benefici: il suo augurio è che, liberata dai tiranni, l’Italia sarà in grado di creare nuovamente «liberi e virtuosi uomini». Non meno influente è la forte vena patriottica, ancora più passionale e pertanto dotata di potente attrattiva per le giovani generazioni, che ispira i saggi e le poesie di Ugo Foscolo, il quale visse e morì da esule a testimonianza dei sacrifici che l’amor di libertà talvolta richiede. Foscolo seppe dar voce agli ideali dei giovani italiani entusiasmati dalle promesse di libertà, eguaglianza, fraternità di Napoleone e poi traditi nelle loro aspettative e costretti a un duro bagno di Realpolitik dal trattato di Campoformido (1797). Né meno importante, anche se declinato unicamente sul piano letterario e distante dall’effettiva lotta politica, è l’ardore patriottico di libertà che informa tanti scritti di Giacomo Leopardi, dove forma poetica arcaica e contenuto romantico convivono in un’unione che è alla base del loro fascino. Così, le poesie All’Italia e Sopra il monumento di Dante celebrano le lotte antiche per la libertà e, sebbene in forme letterarie ancora petrarchesche, incitano a liberare l’Italia dal dominio straniero. Commentando sconsolato questo secondo canto nello Zibaldone,Leopardi affermava: «Miseri! Noi andiamo ogni dì memorando la libertà e la gloria degli avi, le quali tanto più splendono quanto più scoprono la nostra abbietta schiavitù». E sempre nello Zibaldone,Leopardi attribuiva l’estinzione dell’originalità e della facoltà creatrice italiana alla perdita della libertà e al passaggio dalla forma repubblicana a quella monarchica. Leopardi è uno degli autori che partecipò, su posizioni romantiche, all’accesa discussione di inizio Ottocento (1816-1821) sulla necessità o meno di «svecchiare» la cultura e la poesia italiane attraverso l’importazione di modelli letterari stranieri (secondo la tesi di Madame de Stael). Occorre ricordare che questa non fu solamente una polemica letteraria ma anche politica, perché la lotta contro le regole classiche o l’uso della mitologia aveva come controparte politica la lotta contro l’ancien regime e la restaurazione, di cui il dominio austriaco in Italia era l’immagine. Già nel 1819 Silvio Pellico poteva scrivere che «romantico fu riconosciuto sinonimo di liberale, né più usarono definirsi classicisti fuorché gli ultra e le spie».

Assieme a Cavour e Mazzini, sebbene spesso in contrasto con il primo, Giuseppe Garibaldi viene a ragione considerato uno degli «apostoli» della liberazione dell’Italia dallo straniero e della sua riunificazione, nonché la bandiera della libertà, dell’unità e dell’indipendenza italiana. Nelle sue azioni e nelle sue opere egli appare ispirato dagli ideali di libertà di Mazzini, che cercò di tradurre in pratica nelle sue imprese e di propagare attraverso lo strumento del romanzo storico. Con grande candore egli afferma nella prefazione a uno di essi che i suoi romanzi hanno lo scopo di trasmettere ai lettori l’ideale politico che lo ha guidato, oltre a mirare a ricordare figure di eroi della libertà a volte rimasti sconosciuti ai più e, da ultimo, a «ritrarre un onesto lucro dal mio lavoro» (Cantoni il volontario, 1870). Convinto anticlericale fin da giovanissimo, Garibaldi rimase per tutta la propria vita persuaso che la libertà dell’essere umano non potesse essere ottenuta che contro il dominio temporale e spirituale della Chiesa.

Nella stessa epoca, a Carlo Cattaneo dobbiamo una visione della libertà che esalta i «sistemi aperti» caratterizzati dalla libera circolazione delle idee, dal confronto tra intelligenze individuali che produce tolleranza e progresso, nonché dalla libera iniziativa economica e da un assetto istituzionale di tipo federalista che stimola la partecipazione di tutti i cittadini e l’autonomia locale.

Protagonista delle lotte risorgimentali, uomo politico e fine letterato, Francesco De Sanctis, in un clima culturale ormai post-risorgimentale, individua nei Comuni medievali la libertà italiana, una libertà concreta e non sentimentale o astratta come ai suoi tempi, perché essi avevano costretto i nobili «a soggiacere al diritto comune». Persuaso che il realismo sia l’educatore dell’ideale, egli fu autore di una Storia della letteratura italiana (1870-1) ispirata agli ideali di libertà e democrazia: la letteratura è per lui formazione e manifestazione dello spirito nazionale, esplicitazione del suo cammino verso la libertà e la virtù. In questo senso De Sanctis interpreta la Divina Commedia, e l’ascesa dall’inferno al paradiso,come un passaggio dalla «tirannia della carne» alla «libertà dello spirito»: il paradiso è «il regno dello spirito, venuto a libertà, emancipato dalla carne o dal senso». De Sanctis ritiene che l’entusiasmo per la libertà non sia più sufficiente nella sua epoca ma siano ora necessarie la scienza e l’educazione politica. In Scienza e vita (1872) afferma infatti che «la scienza ha prodotto presso di noi due grandi cose, l’unità della patria e la libertà». Egli vede nella «differenza di idee direttive» che produce i partiti politici la base dell’«onesta libertà» italiana e nelle associazioni politiche e nella libera stampa la difesa della libertà stessa. Nei suoi Scritti politici egli afferma con forza, infine, che la giustizia deve essere considerata il fine della libertà.

I partiti e la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione, 1881).

Va poi ricordato Piero Calamandrei, uno dei padri della costituzione italiana, in cui fece includere una lista aperta di diritti di libertà, il quale teorizzò una «rivoluzione democratica» che muovesse dalla visione di libertà come autonomia individuale (rinvenibile in Gobetti, Rosselli e in generale nel Partito d’Azione) per giungere a una visione costituzionale dello Stato in netta discontinuità sia con quello monarchico-fascista sia con quello liberale classico. Un posto a parte tra i cattolici liberali del Novecento è occupato da Alessandro Passerin d’Entrèves, sia per la singolarità della sua formazione (il pensiero di Dante e Hooker più che i «classici» del liberalismo come Locke) sia per l’originalità del suo liberalismo, non pregiudizialmente ostile al socialismo in un’epoca di confronto e scontro senza quartiere, nel quale si fondono difesa del diritto naturale e una visione dello Stato come forza qualificata dal diritto, che a sua volta trae fondamento dall’autorità (derivante dalla legittimità) dello Stato stesso.

aequa libertas repubblicana di Cicerone e con le moderne teorie repubblicane anglosassoni. Pensatore acuto e originale, fortemente influenzato dall’idealismo di Gentile, Guido Calogero collaborò con l’organizzazione «Giustizia e Libertà» di Carlo Rosselli e fu tra gli estensori del primo manifesto del liberalsocialismo (1940): in esso le esigenze di giustizia e di libertà vengono ricondotte alla medesima origine ideale, che per Calogero è identificabile con l’idea del Vangelo che ogni essere umano è una persona degna di amore.

Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932)parla di «religione della libertà», la quale si dispiega al di sopra dei singoli. Croce ha colto il declino della libertà e il sorgere dell’irrazionalismo che è alla base dei grandi sistemi totalitari del XX secolo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. All’avvento del fascismo afferma la libertà come principio, dover-essere assoluto, come dovere morale e necessità pratica a un tempo, in un’epoca cupa che non esita a definire «età dell’anti-Cristo».

L’economista Luigi Einaudi era non solo estremamente attento alle basi metodologiche e concettuali della propria disciplina ma anche assai interessato ai fondamenti morali dello Stato liberale, del cui ordinamento economico era severo difensore. La sua celebre polemica con Croce, che lo vede difensore dell’idea che l’economia liberista sia lo strumento per la realizzazione degli ideali del liberalismo, dimostra chiaramente l’inesistenza di un’«ortodossia liberale». Se la sua statura internazionale come economista liberista e uomo di Stato è fuori discussione, è opportuno ricordare anche la sua classica difesa (con suggestioni di J.S. Mill) della libertà individuale, concepita anche come originalità, garantita dallo Stato liberale e riassumibile nella formula dell’«anarchia degli spiriti» sotto il governo della legge.

Nel secondo dopoguerra i due pensatori che hanno rappresentato meglio le due anime del liberalismo italiano sono stati Nicola Matteucci e Norberto Bobbio. Filosoficamente maggiormente agguerrito il primo, che ha in Tocqueville e Croce i propri autori di riferimento e nello studio della libertà anglosassone (il costituzionalismo inglese e americano, l’equilibrio tra i poteri e il sistema di checks and balances, l’ideale della rule of law) la propria base teorica, più aperto agli stimoli provenienti dal socialismo e dall’umanitarismo marxiano il secondo, essi sono accomunati da una difesa del valore della libertà individuale come bene primario (e non come mezzo per raggiungere uno scopo più alto) e senza cedimenti alle «mode» dell’epoca: né verso il sociologismo che dissolveva la libertà e la responsabilità umana all’interno di un’imprecisata «società», né verso il marxismo che gli faceva prevalere l’ideale di eguaglianza e di «giustizia sociale», né verso alcuna deriva autoritaria postsessantottesca in nome del ripristino dell’ordine e del «buon governo». Le loro opere rifulgono nel panorama liberale del dopoguerra, così come esemplari rimangono la difesa della libertà intellettuale operata di Bobbio contro l’immagine dell’intellettuale organico di un Bianchi-Bandinelli o la sobria, ma intimamente appassionata, esaltazione da parte di Matteucci della libertà intesa come capacità di dare origine a qualcosa di nuovo e originale, sulla scia di Hannah Arendt e di contro allo strisciante conformismo della società di massa. Bobbio può essere considerato l’ultimo, raffinato interprete novecentesco dell’ideale liberalsocialista della «libertà eguale», da lui difesa in scritti storici e teorici. A Matteucci, che affermava l’inesistenza di un «interprete unico» del liberalismo, dobbiamo una persuasiva caratterizzazione del liberalismo come «risposta a sfida», come arsenale di strumenti teorici capace di allargare il significato del termine «libertà» a seconda dei contesti in cui si trova a operare, rispondendo a sfide dell’epoca assai diverse quali assolutismo regio, democrazia e conformismo di massa, totalitarismo, anelito di giustizia sociale.

Bibliografia

Socialismo Liberale (1945), Einaudi, Torino 2009.