Laicità

di Pier Franco Quaglieni

Il dibattito su laicità, laicismo, anticlericalismo ha assunto toni accesi ed esasperati che non ci furono neppure durante i referendum per il divorzio (1974) e per l’aborto (1991). Le aperture conciliari della Chiesa in merito alla libertà di coscienza e il superamento del Concordato, firmato da Mussolini nel 1929, da parte del governo Craxi nel 1984 avevano almeno in parte rasserenato gli animi.

Non esistono distinzioni tra laicità e laicismo nel Dizionario filosofico di Nicola Abbagnano, né in quello della politica di Bobbio-Matteucci e Pasquino. La voce «laicismo» di quest’ultimo, affidata a Valerio Zanone, resta comunque un punto di riferimento di fondamentale importanza e anche la stessa voce dell’edizione aggiornata del dizionario di Abbagnano non è priva di interesse.

Il primo filosofo di matrice liberale che afferma la necessaria distinzione tra laicismo e laicità è Nicola Matteucci, che nei primi anni dello scontro frontale tra laicismo e cattolicesimo ha ben evidenziato le differenze tra il concetto di laicità e di laicismo, scrivendo:«Il laico riconosce il primato della coscienza individuale, il laicista considera invece lo Stato come il solo interprete della verità».

In effetti, il laicismo contemporaneo è frutto di una visione giacobina – profondamente illiberale – che trova le sue radici storiche in Italia in alcune voci del Risorgimento e soprattutto nella cultura positivistica della fine dell’800. Merita una citazione anche Norberto Bobbio, che nel 1992 ha osservato: «Ritengo di dover mantenere la distinzione fra i due termini “laicismo” e “laicità”. Il primo viene di solito usato con una connotazione negativa, per non dire addirittura spregiativa, per designare un atteggiamento d’intransigenza e d’intolleranza verso le fedi e le istituzioni religiose. Ma questo è proprio il contrario dello spirito laico o, se si vuole, della “laicità”, correttamente intesa, la cui caratteristica fondamentale è la tolleranza».

È sicuramente vero che i laici storicamente in Italia si caratterizzarono innanzi tutto per il loro impegno a favore di una concezione non confessionale dello Stato ed è quindi laico colui che, secondo una definizione di Alessandro Passerin d’Entrèves «considera il vincolo politico di natura diversa da quello religioso». I punti di riferimento storici sono il separatismo cavouriano del «Libera Chiesa e libero Stato», la Legge delle Guarentigie successiva alla breccia di Porta Pia e la posizione giolittiana che vedeva nello Stato e nella Chiesa «due rette parallele che non debbono incrociarsi mai». Sarebbe tuttavia una definizione parziale quella che tendesse a restringere il problema ai soli rapporti tra Stato e Chiesa – come accadde nel Risorgimento – perché, come ha osservato ancora Passerin d’Entrèves, è laico «colui che riconosce apertamente che la società moderna è caratterizzata da una grande varietà di opinioni e di credenze e ne conclude che lo Stato, allo scopo di rispettare tale varietà e di tutelare l’uguaglianza dei cittadini, deve praticare una rigorosa ed imparziale neutralità in materia di ideologie e di fedi». Si potrebbe dire con le parole di uno dei maestri di Passerin, Francesco Ruffini, «che la libertà religiosa non prende partito né per la fede né per la miscredenza». Ma soprattutto va sottolineato che Passerin evidenzia anche la neutralità dello Stato in materia di ideologie e non solo di fedi. Si tratta di una concezione laica intesa a garantire la libertà di tutti i cittadini, al di là delle differenze, come recepito dall’art.3 della costituzione della Repubblica italiana del 1948.

Gli eccessi degli anni Settanta hanno dimostrato che ogni concezione totalizzante della politica non è affatto laica e non è neppure democratica. I laici hanno saputo combattere le proprie battaglie contro le oppressioni sanguinarie del XX secolo, vedendo nel nazifascismo e nel comunismo due forme estreme di oppressione della dignità e della libertà dell’uomo. Non altrettanto si può affermare della maggioranza degli esponenti del laicismo, che hanno voluto spesso vedere una storia dominata da un’unica dittatura, quella del nazifascismo e solo tardivamente e contraddittoriamente hanno preso consapevolezza della tragedia del comunismo. Inoltre, di fronte alla esaltazione acritica delle ideologie del ’68, imposte con la violenza, solo i laici hanno saputo denunciare tempestivamente, senza ammiccamenti, i pericoli per la libertà e la democrazia in essa insiti. Le ideologie presuntuose e salvifiche del ’900 si sono rivelate assolutamente non laiche. Esse hanno dimostrato, peraltro, di non riuscire a colmare il vuoto lasciato dalla religione di fronte alla crescente secolarizzazione delle società novecentesche. Ha scritto infatti Valerio Zanone che «il laicismo in termini culturali non è tanto un’ideologia quanto un metodo, anzi può definirsi proprio come il metodo inteso allo smascheramento di tutte le ideologie». Zanone definisce così il laicismo nella citata voce del Dizionario di Politica di Bobbio-Matteucci-Pasquino, ma in effetti riteniamo che il riferimento valga più per la laicità intesa alla maniera di Bobbio, che per il laicismo. Zanone invece ritiene che la laicità sia la modalità attraverso cui si esprime il laicismo e che una posizione laica, non laicista sia troppo debole e inerte, paragonabile, in qualche misura, alla «sana laicità» predicata dalla Chiesa Cattolica.

Per altri versi, non va dimenticata l’importante distinzione che, nella nuova edizione del Dizionario di filosofia di Nicola Abbagnano, ha stabilito Giovanni Fornero, tra un laicismo inteso in senso debole (atteggiamento critico e antidogmatico) e un laicismo inteso in senso forte (atteggiamento di chi ragiona indipendentemente dall’ipotesi di Dio, etsi Deus non daretur) e da ogni credo religioso.

Il patrimonio culturale del laicismo, storicamente inteso, comprende contributi della tradizione illuministico-liberale, della tradizione anarchico-libertaria e di quella marxista. Queste tre componenti, in quanto si presentano configurabili in partiti o movimenti politici, hanno preclusioni reciproche da far valere e diverse modalità e tradizioni di confronto e di opposizione con le forze confessionali. Solo se il confronto con queste ultime si sposta al di fuori di rigide posizioni di partito e si orienta su precisi problemi della società, le diverse tradizioni laiche potrebbero, di volta in volta, riconoscersi reciprocamente e individuare qualche obiettivo comune di intervento.

Molto spesso, tuttavia, anche al di là dei partiti, le tre componenti restano distanti. Il volume di Stefano Rodotà Perché laico,denuncia «la laicità flebile, timida, devota», affermando la necessità di una laicità «democratica». Su questo terreno è esplosa una pubblicistica che via via ha evidenziato il contenuto di intolleranza antireligiosa da parte dei laicisti, così come va riconosciuto che la laicità debole non è stata in grado di tutelare la laicità dello Stato e si è rivelata ambigua ed a volte persino contraddittoria.

Va tuttavia precisato che la laicità liberale è cosa altra rispetto allo stesso illuminismo (dovremmo in effetti parlare di «illuminismi», secondo l’insegnamento di Franco Venturi, perché certamente – non trattandosi di un movimento di idee omogeneo e sistematico –balza all’occhio che Rousseau, ad esempio, non ha nulla a che vedere con Kant), per non dire della cultura libertaria e di quella marxista per cui resta valido ovviamente il riferimento storico al laicismo. Ma la stessa laicità liberale ha dei contorni ben definiti perché risulta illiberale «l’offensiva culturale che accoppia il liberismo del “tutto è lecito” con la restrizione delle scelte individuali nei diritti civili: l’anarchia degli affari economici e l’obbligo di obbedienza negli affari della vita». La tendenza poi ad appaiare il termine libertario a quello liberale risulta abbastanza arbitrario perché il liberalismo esprime una concezione della libertà che scaturisce da regole precise, anzi la libertà responsabile è garantita proprio dal rispetto di regole che limitano i poteri dello Stato e dell’individuo.

Infine, la tradizione marxista, non soltanto nella sua versione leninista, è del tutto inconciliabile con una visione liberale e laica perché nega i valori stessi della libertà in una prospettiva rivoluzionaria che, al di là dei fallimenti storici novecenteschi, risulta prediligere il ricorso alla violenza e al regime totalitario. Anche la stessa versione gramsciana del marxismo-leninismo – con il ricorso a una visione egemonica della cultura e della politica – si rivela profondamente illiberale e in fondo non laica. Bobbio ha scritto che ogni cultura ha i suoi intellettuali «clericali» che «irrigidiscono la loro concezione del mondo in un sistema dogmatico da contrapporre in modo settario a tutte le altre». Gli intellettuali laici sarebbero invece coloro che sentono «l’esigenza di incontrarsi dopo il periodo delle crociate, di iniziare un dialogo dopo il periodo degli anatemi, di cercare più i punti di accordo che quelli di disaccordo». Valutando quanto è accaduto nella storia della cultura italiana del Novecento, bisogna tuttavia osservare che la cultura marxista è stata per decenni ed in parte continua a essere oggi del tutto impermeabile alla concezione di laicità indicata da Bobbio, vedendo nel dialogo un fatto meramente strumentale che non ha mai rivelato capacità e volontà di mettersi davvero in discussione.

Il laicismo, secondo alcuni, implica una visione immanentistica della vita e una cultura che si fondi esclusivamente su una visione storico-scientifica dell’uomo. Esso diventa di fatto un surrogato dell’ateismo, inteso come professione di fede in una concezione del mondo opposta a quella imperniata sull’esistenza di Dio, che implica una sostanziale condanna della religione come forma di superstizione irrazionale e oscurantista. Tuttavia, come osservò Nicola Abbagnano, la cultura e la scienza contemporanee non offrono prove o indizi sufficienti per prospettare l’ipotesi dell’esistenza o della non esistenza di Dio. Un fideismo ateo è quindi assai poco laico.

Un atteggiamento laico autentico si può vedere in chi si rifiuta di procedere al di là di ciò che è dato umanamente sapere, riconosce i limiti di questo sapere e non fa della scienza una sorta di dogma, ma semmai uno strumento di ricerca senza fine, partendo dal presupposto che i punti di arrivo sono costanti punti di partenza. Per questo tipo di uomo laico anche la ragione ha kantianamente i suoi limiti, in quanto la ricerca è razionale solo quando ammette di essere fallibile: come dice Popper, «tutti gli sforzi dell’uomo sono fallibili, ma la loro fallibilità ci sfida a renderli meno fallibili».

C’è infine una posizione laica che si concilia con quella religiosa. Ha scritto il laico Benedetto Croce:

Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata ed irresistibile nel suo attuarsi, che non maraviglia che sia apparso o possa apparire un miracolo, una rivelazione dall’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane che da lui hanno ricevuto legge ed indirizzo affatto nuovo.

Giuseppe Bedeschi ha evidenziato il contributo decisivo della religione cristiana alla società democratica-liberale: «il fondatore del liberalismo, John Locke, era un pensatore profondamente cristiano e riteneva che senza il riferimento a Dio non si potesse nemmeno parlare dei diritti fondamentali e imprescrittibili della persona umana». Ma ci sono sicuramente delle differenze tra il cristianesimo e il cattolicesimo, in particolare nella versione storica romana ed italiana. Un cattolico laico è colui che non impone (ma semmai propone) agli altri le ragioni della sua fede e si comporta in politica secondo ciò che ebbe a dire il presidente Kennedy: «Qualunque possa essere la nostra religione nella vita privata, per colui che ricopre una carica pubblica nulla può aver precedenza sul suo giuramento di difendere la Costituzione in ogni sua parte».

only in civil things, solamente nelle cose civili. Ma nella storia italiana questa posizione è sempre stata difficile e problematica: lo dimostrano le esperienze tormentate di uomini come Antonio Rosmini e Alessandro Manzoni.

È un filone, quello dei credenti laici, che ha visto anche nel Novecento protagonisti significativi come Arturo Carlo Jemolo, rimasto sospeso tra un sincero liberalismo ruffiniano e un giacobinismo di carattere sociale che è in piena contraddizione con il suo liberalismo. Meno convincenti appaiono le posizioni laiche di cattolici democratici – ma non liberali – come Pietro Scoppola.

Ha osservato Dino Cofrancesco: «Nelle dottrine degli ultimi papi ci sono molti “elementi di liberalismo”, ma il liberalismo è altra cosa e, pur nel profondo rispetto dei credenti, non potrebbe mai consentire che quanti essi considerano (legittimamente) un peccato sia un reato per tutti».

Inquadrandolo nella storia italiana, in cui la presenza della Chiesa come Stato fino al 1870 ha giocato un ruolo politico decisivo volto a impedire l’Unità d’Italia, si può anche comprendere l’anticlericalismo, nato come risposta al clericalismo. L’anticlericalismo è anche – come osserva Guido Verucci – una forma di critica alla corruzione, all’ipocrisia, alla cupidigia, alla prepotenza e all’intolleranza dell’ordine sacerdotale. Esso ha origine nel Medio Evo – pensiamo a Dante – e si manifesta in modi diversi nel corso dei secoli.

L’anticlericalismo, che nella sua versione moderna nasce con Voltaire, si caratterizza anche come anticristianesimo in un’accezione che pone le basi per il laicismo, che finirà spesso per identificarsi con l’anticlericalismo medesimo, in modo particolare nella esperienza storica francese, soprattutto della III Repubblica, in cui alle fedi religiose venne contrapposta una religione dello Stato di cui si vedono vistosi ritorni nelle posizioni di Gustavo Zagrebelski.

Appare abbastanza evidente che oggi la laicità si differenzia sia nei confronti del laicismo, sia dell’anticlericalismo inteso come sinonimo del laicismo. Le posizioni coraggiose e controcorrente, visceralmente anticlericali, di un liberista, più che di un liberale, come Ernesto Rossi, si possono spiegare solo in questo contesto di contrapposizione frontale, in larga misura precedente al Concilio Vaticano II.

La laicità può invece convivere con un anticlericalismo che si opponga all’invadenza della Chiesa nelle questioni politiche, senza disconoscere i valori religiosi in quanto tali, proprio perché «la laicità – come scrisse Abbagnano – non è nell’interesse di questo o quel gruppo politico o ideologico, ma nell’interesse di tutti». E Bobbio ha osservato che lo spirito laico non è esso stesso una nuova cultura, ma la condizione per la convivenza di tutte le possibili culture.

Non risulta semplice tentare di definire la laicità perché resta inevitabile, nel concetto stesso di laicità, un margine di ambiguità che Emanuele Severino ha posto bene in polemica con Claudio Magris. Ha infatti scritto Severino: «È interessante l’affermazione con cui Magris esprime uno dei luoghi centrali del pensiero liberale: «Laicità significa tolleranza, dubbio rivolto anche alle proprie certezze». Che la ragione vada distinta dalla fede è una certezza di Magris. Ma, allora, «il dubbio rivolto anche alle proprie certezze» mette in dubbio anche quella distinzione tra ragione e fede? Se non la mette in dubbio, allora c’è un sapere che non può essere messo in dubbio – e la definizione di «laicità» deve essere rivista. Se invece tutto è dubitabile, allora la «laicità» diventa, nonostante le intenzioni, quello scetticismo o quel relativismo nel quale la Chiesa ritiene consistere tutta la forza del pensiero del nostro tempo (che invece ha ben altra potenza) e che quindi la Chiesa fa presto a togliersi dattorno».

Non pretendere di imporre fedi chiesastiche e globali di nessun tipo, non assumere atteggiamenti pregiudiziali verso nessuno, esercitare la tolleranza – diremmo meglio l’«eguale rispetto» di cui parla Martha Nussbaum – soprattutto nei confronti delle idee che appaiono «intollerabili», considerare le diversità come una ricchezza per la crescita individuale e collettiva comporta appoggiare il proprio procedere intellettuale su convinzioni sempre rivedibili, cercare la prova del proprio possibile errore, sentirsi tentati dalle tesi dei propri interlocutori e del proprio avversario.

Questa potrebbe essere una definizione di laicità, anche se va detto che i temi della bioetica rendono ulteriormente difficile, problematica e incerta una sua definizione. I temi sollevati negli ultimi anni da Marcello Pera, per esempio, suscitano dibattito aspro e scomuniche laiciste perché riguardano anche i rapporti tra laicità e bioetica e non solo tra Occidente e Islam. La laicità può sembrare persino un’utopia di fronte a chi manifesta orgogliosamente idee apparentemente inossidabili, fondate sulla certezza e non cresciute attraverso l’umiltà del confronto: la verità come continuo divenire di cui parlava Benedetto Croce. Ma certamente anche le posizioni di Pera hanno ingenerato polemiche aspre su obiezioni già sollevate negli anni Ottanta da Ernesto Galli della Loggia e Giuliano Amato, che giunsero a considerare il laicismo una forma di indifferenza, se non di indifferentismo, nei confronti di un comportamento etico: un atteggiamento ludico e privo di responsabilità nei confronti della vita individuale e sociale.

Una laicità «liberale» comporta atteggiamenti liberali capaci di aprirsi agli altri perché solo attraverso il confronto le idee progrediscono. Essa si rivela inconciliabile con chi banalizza e ironizza sulle religioni e ostenta, quasi senza avvedersene, un paleo positivismo di ottocentesca memoria che è tutto fuorché liberale: pensiamo al pensiero laicista di Giulio Giorello e di Carlo Augusto Viano o alle polemiche veementi di Piergiorgio Odifreddi. Giancarlo Bosetti ha definito molti di questi protagonisti del dibattito laicista come «laici furiosi», non senza delle valide motivazioni.

Il Papa Benedetto XVI all’esordio del suo pontificato ha denunciato con vigore «la dittatura del relativismo», espressione più volte ripresa dal suo magistero. Il relativismo che non è comunque un sinonimo di laicità e neppure di laicismo, può essere accusato di tendere a negare ogni verità e di non sapere o voler distinguere tra esse, ma certo non può essere «dittatoriale», perché anche il nichilista più totale non solo non nega la libertà del pensiero, ma, a suo modo, la garantisce nel confronto tra idee diverse.

Il problema della laicità non riguarda di certo solo i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica perché in una società multietnica, come sta diventando quella italiana ed europea, c’è da porsi il problema dei rapporti tra l’Islam e lo Stato, ma soprattutto l’interrogativo se l’Islam stesso sia compatibile con la laicità, la democrazia, la libertà di espressione e la tolleranza religiosa. Sadik Jalal al-Azm ha scritto che «l’Islam in quanto ideale coerente e statico fondato su principi eterni non è, evidentemente, compatibile con niente altro che con se stesso. In questo senso rifiuta, respinge e combatte fino in fondo laicità e umanesimo come ogni altra religione considerata dal punto di vista del suo carattere eterno».

Se può essere vero storicamente che l’Islam ha convissuto nei secoli con situazioni storiche molto diverse, è tuttavia difficile da sostenere che l’Islam possa diventare compatibile con la laicità intesa nel senso di cui abbiamo parlato, perché l’unico significativo esempio di tentativo di rendere laico un paese islamico è quello della Turchia emersa dalla Prima guerra mondiale ad opera di Mustafa Kemal, che abolì il califfato, laicizzò lo Stato, riconobbe la parità dei sessi, istituì il suffragio universale, adottò l’alfabeto latino, il calendario gregoriano, il sistema metrico-decimale. Va altresì detto che l’Islam turco era già una «versione» almeno in parte ellenistica. La Turchia, così come è apparsa attraverso la sua storia novecentesca, tuttavia non si è certo ispirata al concetto di laicità inteso come rispetto di ogni idea ed identità, perché il processo storico che ha portato alla Turchia moderna semmai rivela una sorta di «laicismo armato» che ha tentato di occidentalizzare il Paese, senza affatto accoglierne la cultura liberale, non certo ipotizzando la separazione della moschea dallo Stato, ma piuttosto il controllo della religione da parte dello Stato.

Certo il fondamentalismo, ogni forma di fondamentalismo, si rivela inconciliabile con la cultura del pluralismo, della tolleranza e della laicità, che è il meglio che la cultura europea abbia saputo produrre al di là delle grandi tragedie novecentesche del nazifascismo e del comunismo.

Ma difendere l’identità europea non significa solo difendere le ragioni del cristianesimo, ma di tutta la sua storia dalla civiltà greco-romana all’umanesimo, dall’illuminismo alle correnti che hanno laicamente espresso i valori della libertà e del rispetto per le idee degli avversari nel corso dell’Ottocento e del Novecento.

Bibliografia

Come se Dio ci fosse,Einaudi, Torino 2009.