Illuminismo

di Eugenio Di Rienzo

Nonostante il fatto che molto spesso, per definire la fisionomia intellettuale di Benjamin Constant, si sia aggiunta alla qualifica di «padre fondatore del liberalismo europeo» quella di «figlio dell’illuminismo volteriano», in realtà pochi interpreti, come l’autore del Cours de Politique constitutionnelle, hanno dimostrato con tanto vigore e tanta consequenzialità la loro incompatibilità con l’universo mentale dell’Aufklärung. La radicale presa di distanza dal mondo dei lumi di Constant arrivava a perfetto compimento nel Commentaire sur l’ouvrage de Filangieri edito a Parigi tra 1822 e 1824. In questo scritto, ritornavano molti degli argomenti della trasposizione politica delle siecentesca «polemica degli antichi e dei moderni», alla quale il filosofo francese aveva dato inizio nel famoso discorso pronunciato all’Ateneo reale di Parigi nel 1819 (De la liberté des anciens comparée à celle des modernes), che proprio nell’analisi del testo di Filangieri trovavano la loro conferma più clamorosa.

Già dai primi capitoli del commento, Constant metteva in evidenza l’abisso insormontabile che si era spalancato tra i convincimenti degli uomini del tardo Settecento e le opinioni di tutti coloro che avevano attraversato il fuoco e le fiamme del periodo rivoluzionario e della «Grande guerra» europea, scatenata dal primo Bonaparte, per poi approdare nella terra promessa del liberalismo ottocentesco. Proprio in quest’ottica, Filangieri doveva essere considerato propriamente un «antico», la cui fama rischiava di «sopravvivere» alle ormai inattuali conclusioni della sua opera, che risultava in ogni caso viziata da un’insopprimibile contraddizione. Se Montesquieu non aveva saputo sottrarsi nell’Esprit des Lois a un quasi meccanico ossequio per «les inégalités et les privilèges» del ceto nobiliare a cui apparteneva, Filangieri era restato schiavo dello spirito del suo secolo per il disconoscimento di quei princìpi della libertà politica e individuale che costituivano «il solo obiettivo di ogni comunità umana che sarà infine raggiunta tramite dei passi avanti cauti e graduali oppure grazie a terribili ma inevitabili sconvolgimenti».

A partire da questa premessa, l’attacco di Constant alla Scienza della Legislazione non risparmiava nessun argomento dell’opera, nella misura in cui ciascuno di questi sembrava ostacolare la possibilità del progresso civile nella sfera giuridica, economica, religiosa. Ma era soprattutto nel campo politico che l’ombra delle mani «non invisibili» del «Legislatore», evocato da Filangieri, assumevano per Constant il profilo di una silhouette minacciosa. Questo assunto era evidenziato in una serie di capitoli del Commentaire, dove veniva duramente stigmatizzata la confusa «metapolitica» illuministica, che l’autore del La Scienza della Legislazione rappresentava in una misura così significativa proprio per non essersi saputo distaccare, nel fondo della sua meditazione, dalla vecchia ipotesi politica del «dispotismo iluminato» e per aver misconosciuto, invece, l’esigenza di affidare il progresso della società europea alle garanzie offerte da un sistema costituzionale e rappresentativo.

In questo punto, Constant non faceva che allargare e approfondire una controversia già agitata negli anni del Direttorio, quando due suoi opuscoli avevano posto sul banco d’accusa gli ultimi seguaci del vecchio «parti philosophique» settecentesco per la loro incapacità a cogliere le nuove ragioni e le nuove esigenze della politica, che scaturivano dalla congiuntura apertasi con la catastrofe del 1789 e culminata poi con l’avvento del Terrore. Composti tra il marzo e il settembre del 1797, a cavaliere quindi del colpo di Stato del 18 fruttidoro, che aveva bloccato, seppure in spregio alla Costituzione del 1795, un possibile tentativo di riconquista della reazione monarchica, i due scritti apparivano in un momento cruciale per la sopravvivenza stessa delle istituzioni repubblicane aggredite da nemici di diversa natura, tra cui dovevano annoverarsi anche gli ultimi discepoli delle lumières.

Nel Des réactions politiques, Constant deplorava con amarezza il comportamento di molti intellettuali che si opponevano alla stabilizzazione politica in atto, per un malinteso culto del passato non scevro dalla difesa di consolidati interessi personali, di privilegi incompatibili con la nuova eguaglianza repubblicana, di rendite di posizione largamente consolidatesi nell’antico regime. Questo ceto, «composto da uomini che furono pure per molto tempo giustamente celebri sotto la monarchia», non era stato in grado di perdonare alla Rivoluzione di aver spossessati i suoi membri «di una porzione di gloria, ormai impossibile da riconquistare», ma soprattutto di averli superati in ardimento, privandoli dei facili trionfi «che essi avevano conseguito dimostrando, senza rischi, la loro autonomia di pensiero, sicuri di non dover essere perseguitati da un potere politico ormai arrivato alla fine dei suoi giorni».

L’offensiva di Constant conosceva nel discorso, pronunciato al Cercle constitutionnel, il 16 settembre 1797, un nuovo affondo. In questo intervento, l’amico e amante di Madame de Staël, pur riservando un elogio non formale alle lumières, per il loro ruolo di battistrada dell’evento rivoluzionario, tornava a deplorare il comportamento di quegli intellettuali che, in luogo di rinsaldare la «forza delle istituzioni» attraverso il rinvigorimento della «potenza morale della pubblica opinione» grazie al quale la Francia si era lasciata alle spalle l’«arbitraire» del regime terrorista, vegetavano in un pirronismo politico troppo simile agli otia dorati dove l’assolutismo aveva confinato i seguaci di Voltaire, Diderot, Raynal, d’Holbach. Dal rimpianto per quello status privilegiato e dall’orrore per gli eccessi della Rivoluzione, questa classe era poi passata a una conflittualità aperta contro il nuovo regime repubblicano che si era dovuta reprimere, proprio nella recente prova di forza di Fruttidoro, attraverso il recursus ad arma, creando lo «spettacolo, mai visto prima nel corso degli eventi umani, della forza fisica che difendeva la libertà contro i sofismi della speculazione filosofica».

Questa polemica riprendeva vigore nel Commentaire, redatto proprio quando la lotta contro il «mouvement retrograde» imposto dalla Restaurazione alla società francese ed europea, se comportava l’obbligo di non tacere dinnanzi alle nuove manomissioni del principio liberale, non poteva consentire nessuna indulgenza verso i fantasmi del passato. Quasi in esatta coincidenza con la comparsa dello scritto di Constant, la Francia era intervenuta militarmente, infatti, per soffocare la lotta per la libertà di una Spagna ormai costituzionale e liberale. I venti di guerra e di repressione, che soffiavano impetuosi nel continente, minacciavano così di annientare anche il ricordo di quel sistema di eguaglianza politica bene intesa, equidistante dal dispotismo monarchico come dalle esagerazioni del giacobinismo, che faticosamente si era costituito attraverso i traumi della rivoluzione e delle guerre napoleoniche. Era proprio in tale clima, allora, che estremamente pericolose apparivano le opinioni politiche di chi, come Filangieri, nelle contraddizioni della sua opera, oscillava tra un attardato moderatismo e un’inconsapevole, ma per questo più pericolosa, vocazione autoritaria.

In questo caso, la partita tra Constant e l’autore del La Scienza della Legislazione si giocava per intero sull’opposizione tra «legislazione» e «costituzione», in quanto diversissime forme istituzionali attraverso le quali doveva evolversi il futuro politico della società. La distinzione tra i due concetti, o meglio la subordinazione del secondo al primo, che Filangieri tendeva ad avvalorare nell’intero primo libro e nel Piano ragionato dell’opera, rifacendosi alle incarnazioni più recenti del mito platonico del sovrano-legislatore (Federico II e Caterina di Russia), era la stessa che, strumentalmente e capziosamente, i governi europei della Restaurazione accreditavano «con tutto il loro potere». L’influenza che, coerentemente all’accecamento politico della lumières, Filangeri attribuiva alla legislazione, in quanto diretta emanazione dell’autorità sovrana, era funzionale, poi, non solo al modello politico del «despotisme éclairé» ma anche a quello della dittatura democratica auspicata da Mably e da Rousseau. Dittatura che, per Constant, costituiva il presupposto logico della deriva illiberale e terroristica della Rivoluzione «che aveva trasformato la Francia in uno smisurato ergastolo».

Anche Mably, infatti, dopo aver consacrato «sei interi volumi della sua storia della Francia all’analisi dei crimini del potere», aveva ricavato, da quella ricognizione storiografica, non il bisogno di limitare il più possibile le prerogative dell’autorità al fine di «sottrarre ad essa ogni possibilità d’azione su quella parte della vita umana che non può essere sottoposta a nessuna forma di servaggio», ma piuttosto la necessità di estendere il dominio di una legge imposta dall’alto su tutti gli aspetti della vita associata. Nello stesso modo, nel testo di Filangieri, l’istituzione di un nuovo, illuminato corpus juris, soprattutto per quello che riguardava il disciplinamento delle masse popolari, equivaleva alla creazione di una nuova religione, laica certamente nei suoi principi, ma non meno oppressiva delle vecchie confessioni rilevate.

Ma era soprattutto nelle teorie di Rousseau che si poteva cogliere la più profonda affinità con quelle di Filangieri. Questi, infatti, nel porre, proprio nell’atto costitutivo delle società politiche, l’esigenza insopprimibile «d’una persona morale, che rappresentasse tutte le volontà, di una ragione pubblica, la quale interpretando e sviluppando la legge naturale, fissasse i diritti, regolasse i doveri, prescrivesse le obbligazioni di ogni individuo colla società intera e coi membri che la componevano», aveva realizzato una banale ripresa delle tesi del Contrat social che postulavano l’inevitabilità di un «potere illimitato e dispotico al cui arbitrio doveva essere sottoposto l’individuo». Tale concezione, che Constant aveva vigorosamente combattuto nel Cours de politique constitutionnelle, equivaleva alla messa in moto di una dinamica che avrebbe portato a «organiser la tyrannie» e a «far rientrare l’umanità nell’antico stato di schiavitù grazie all’instaurazione di un’autorità egualmente pericolosa, sia che essa venga chiamata col vecchio appellativo di dispotismo sia che essa venga ribattezzata col nuovo nome di legislazione».

Il tema del dissidio insanabile tra illuminismo e liberalismo, evidenziato da Constant, verrà ampiamente ripreso e sviluppato nella riflessione politica di Benedetto Croce. Se per Croce, infatti, lo scopo supremo della riflessione e della pratica politica è il superamento di uno stato conflittuale endemicamente presente nella società, questo obiettivo poteva essere raggiunto soltanto a condizione di tener ben presente la carica di inimicizia, latente o manifesta, che si genera dai rapporti di vita associata e che invece, il pensiero politico dei lumi cercò di «rimuovere» senza tentare di comprenderla. La «mentalità illuministica», scriveva Croce nelle pagine di Etica e Politica, affidò, infatti, in virtù del clamoroso fraintendimento dell’«utile politico» con l’«utile egoistico», la risoluzione di questo problema a una vera e propria teleologia del progresso storico, al cui apice doveva realizzarsi una sorta di miracolosa estinzione della politica nella morale e del conflitto nel venir meno degli interessi antagonistici. In questo modo, continuava Croce, si doveva ricordare con rimpianto di fronte al «mondo nuovo dell’illuminismo», che certo non «è il mondo della storia politica e della filosofia della politica», la perdita di vista del «problema del Machiavelli, cioè quello di affermare la qualità propria e la necessità della politica come politica e quello di Vico, d’intendere come la dura e violenta politica si congiunga con la vita etica».

Di fronte all’evidenza di questa petizione di principio, vanamente si è tentato di costruire una linea di continuità tra la filosofia di riferimento illuministica e quella liberale, attraverso la citazione dell’articolo di Pietro Gobetti, Illuminismo, apparso su «Il Baretti» del dicembre 1924. Articolo dove si poteva leggere un fermo e rigoroso appello a «salvare la dignità, prima che la genialità, per ristabilire un tono decoroso e consolidare una sicurezza di valori e di convinzioni» e a «lavorare con semplicità per trovare anche per noi uno stile europeo» da opporre all’avanzata, ormai incontenibile, della dittatura di Mussolini. Questo messaggio deve però essere meglio contestualizzato, per coglierne l’autentico significato. Il termine «illuminismo» ritorna a più riprese, nel lessico di Gobetti in questo periodo, in un senso che prevalentemente, con poche eccezioni, è sinonimo di mancata adesione alle ragioni effettuali della politica. Così accade nella sua polemica con Salvatorelli, ad esempio, e più esplicitamente ancora in quella che lo opporrà a Giustino Arpesani. Nell’articolo Elogio della ghigliottina, apparso sulla «Rivoluzione liberale» del 1922, Gobetti, infatti, aveva rimproverato ad Arpesani una «visione primitiva» della democrazia, dove «la politica è pensata come un problema di illuminismo, di adesione ai dogmi specifici, tutto l’imprevisto della realtà esaurendosi nella preparazione ideologica e nelle premesse di fede» e dove «il mondo della pratica non sarebbe nulla di diverso da un mondo intellettuale concepito rigidamente, con idee chiare e distinte, senza dialettica, senza sfumature».

In questo contesto, l’appello ai valori illuministici dell’articolo del 1924 poteva risultare coerente unicamente di fronte a una situazione di blocco della politica, verso cui il regime fascista stava rapidamente precipitando il paese, nella quale, almeno provvisoriamente, era possibile la sola resistenza privata e morale delle coscienze. Ma, prima e dopo questo momento di forzato ripiegamento, ben altri erano stati gli insegnamenti politici, che Gobetti era andato riscoprendo nel saggio Croce oppositore, anch’esso pubblicato, nel 1925, sulle pagine di «Rivoluzione liberale», dove si leggeva:

La necessità di ribadire l’opportunità di una virtuosa ripresa del realismo di Machiavelli, operata dal Croce «politico», era ritornata anche nell’articolo del 1924, L’ora di Marx. In quell’intervento Gobetti sosteneva: «In Marx mi seduce lo storico (gli studi sulle lotte di classe in Francia) e l’apostolo del movimento operaio. L’economista è morto, con il plus-valore, con il sogno dell’abolizione delle classi, con la profezia del collettivismo, ma la teoria della lotta di classe è uno strumento acquisito per sempre alla scienza sociale». Un passo, questo, che rimandava direttamente al Croce anti-illuminista della prefazione del 1927 a Materialismo storico ed economia marxistica, nella quale si affermava:

Nella concezione politica il marxismo mi riportava alle migliori tradizioni della scienza politica italiana, mercé la ferma asserzione del principio della forza, della lotta, della potenza e la satirica e caustica opposizione alle insipidezze giusnaturalistiche, antistoriche, democratiche, ai cosiddetti ideali dell’89.

Bibliografia

Il giovane Croce e l’illuminismo. La formazione del giudizio crociano sull’illuminismo, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», Nuova Serie, XX, 1971.