Distribuzione del reddito
di Alberto Quadrio Curzio e Ilaria Pasotti
Inoltre si è distinta, pur riconoscendone le sovrapposizioni e le connessioni, la distribuzione del reddito da quella della ricchezza.
Nell’esaminare il contributo degli economisti liberali italiani non si potrà applicare questo schema di classificazione perché in molti di essi vi è una composizione delle diverse impostazioni alla quale si sovrappone una forte attenzione agli aspetti istituzionali. La ragione di ciò sta nel fatto che quasi tutti gli economisti liberali italiani nei due secoli considerati erano anche impegnati politicamente o civilmente e questo li rendeva meno astratti e quindi più inclini a un razionale pragmatismo capace di combinare teoria e istituzioni, politiche e realtà. L’analisi teorica di questi economisti influenzava la loro azione politica o civile che, a sua volta, dovendosi misurare con la realtà, rendeva flessibile l’impostazione dottrinale. Non vi era in loro dunque dogmatismo teorico. Ogni economista liberale italiano è stato, in misura più o meno ampia, uno scienziato ma anche un attore nel sociale e nel politico e non solo un teorico. Per questa ragione ognuno va considerato a sé con le sue peculiarità. Data questa premessa, si pone allora un quesito: in base a quale paradigma si classifica come liberale un economista italiano nel periodo considerato? Lasciando alla conclusione una risposta a esso, procediamo alla valutazione del pensiero di alcune personalità a nostro avviso emblematiche tra gli economisti liberali italiani. Di queste tratteggiamo in modo schematico i principali contributi alla teoria della distribuzione, poiché si tratta di figure accreditate anche internazionalmente come studiosi e accademici che coprono temporalmente i due secoli considerati: Carlo Cattaneo, Francesco Ferrara, Maffeo Pantaleoni, Vilfredo Pareto, Luigi Einaudi, Costantino Bresciani Turroni. È questa una nostra scelta personale – che potremmo definire di accademismo liberale – nella consapevolezza che ci sono anche molti altri economisti liberali italiani ma che quelli selezionati sopra ci pare possano rappresentare figure paradigmatiche come combinazione tra impostazione accademica e impostazione politica. Nella parte finale delineiamo diversi approcci teorici alla distribuzione del reddito, che ricomprendono in una articolata sintesi diversi altri protagonisti del pensiero economico liberale a noi temporalmente più vicini. Anche se non potremo considerare molte personalità troppo recenti per poter dare sulle stesse quello che può definirsi un giudizio storico.
Maffeo Pantaleoni (1857-1924) è il principale protagonista dell’affermazione del marginalismo in Italia del quale egli individua anche diverse criticità.
fosse la medesima funzione del suo reddito che si ha per l’imposta» [Pantaleoni 1911, p. 23, corsivo in originale].
Vilfredo Pareto (1848-1923) è l’economista che sviluppa l’analisi marginalista nello schema dell’equilibrio economico generale, ripreso nella costruzione originaria di Walras ma esteso e affinato nel suo rigore formale sulla base di nuovi concetti analitici.
Coerentemente con la condizione che definisce l’equilibrio economico generale e lo identifica con «il massimo di benessere (massimo di ofelimità) agli scambisti, tra i quali sono compresi i possessori dei diversi servizi» [Pareto (1896-1897) 1971, p. 54], la remunerazione di ciascun fattore produttivo (o «capitali» nella denominazione paretiana) coincide con il prezzo in corrispondenza del quale si ha uguaglianza tra la loro domanda da parte degli imprenditori e la loro offerta da parte dei loro possessori.
Luigi Einaudi (1874-1961) è un economista la cui analisi della distribuzione del reddito ha una portata istituzionale anche per il ruolo cruciale delle imposte che non può essere compressa dentro il marginalismo a meno che tale assonanza sia limitata al fatto che le retribuzioni dei fattori devono essere correlate alle prestazioni.
Dopo queste grandi figure intendiamo delineare diversi approcci alla distribuzione del reddito che a nostro parere si possono distinguere nell’Italia postbellica e che mostrano una ricchezza di riflessione che ha quasi sempre un’impronta riformista che non può dirsi liberale in senso proprio del termine ma che non può essere trascurata nel mappare gli economisti italiani. Nell’elencazione che segue attuiamo delle radicali semplificazioni e sintesi che non rendono adeguatamente conto di questa ricchezza di contributi che essendo anche recenti risultano più difficili da collocare in una prospettiva storica. Inoltre, proponiamo delle «assonanze» tra le classificazioni e le personalità precedenti e le impostazioni postbelliche della distribuzione, pur riconoscendo che esse potrebbero anche essere considerate discutibili.
Un’altra possibile variante dell’approccio istituzionale è quella che si rifà alla impostazione sociale dell’economia mista. Un esempio di questa impostazione è quello di Francesco Vito (1902-1968). Secondo Vito, il salario si determina nel «sistema di collaborazione» [Vito 1943, p. 194] fra imprenditori e lavoratori che, organizzati in associazioni legalmente riconosciute, stipulano contratti collettivi validi per tutti gli appartenenti alla categoria tenendo conto sia della produttività del lavoro sia del tenore di vita dei lavoratori sia dell’interesse generale dell’economia [Vito 1943, p. 194]. Nella misura in cui i mercati generano oltre ai profitti normali che devono rimanere all’impresa anche extraprofitti, questi ultimi vanno commutati in integrazioni salariali (assicurazioni sociali, supplementi proporzionati al carico familiare, assistenza sociale, mediante contributi sociali pagati dalle imprese per assicurare la giustizia sociale) [Vito 1948, p. 197].
la contribuzione specifica di ciascun fattore nel prodotto complessivo» [Bresciani Turroni 1953, pp. 214-215, corsivo nell’originale] e la produttività marginale è tanto più elevata quanto più scarso è il fattore produttivo relativamente agli altri fattori produttivi. Tuttavia, Bresciani Turroni riconosce anche che l’applicazione di questo criterio nella definizione dei redditi può causare «squilibri sociali», in quanto il fattore lavoro tende a essere presente in misura abbondante rispetto agli altri fattori produttivi. Si pone dunque «un problema di distribuzione, ed è compito dello Stato il risolverlo, mediante opportuni provvedimenti, che risultino, direttamente o indirettamente in un aumento del reddito dell’operaio, oltre il limite fissato dalla produttività marginale del suo lavoro» [Bresciani Turroni 1953, p. 280].
Questo approccio potrebbe avere delle assonanze con la posizione di Pantaleoni.
c) L’approccio che in via di approssimazione definiamo «contrattualista» copre un vastissimo spettro di posizioni che vanno da quelle della predominanza sindacale sino a quelle della concertazione. La loro rilevanza sta soprattutto nel fatto che queste impostazioni hanno caratterizzato un lungo periodo della storia italiana postbellica al quale hanno dato contributi interpretativi e propositivi molti economisti italiani. Una sintesi sarà perciò incompleta e opinabile ma una omissione completa sarebbe ancora più grave.
L’approccio sindacale e quello concertativo si collocano nel dibattito sulle politiche dei redditi che si sviluppa a partire dagli anni Sessanta e prosegue nei decenni successivi.
Questo approccio, piuttosto differenziato, ha assonanze con quello dei Classici e delle forme di mercato di Marshall. In definitiva si potrebbe considerare italo-cantabrigense.
Analoghe argomentazioni sono sviluppate da Paolo Baffi (1911-1989). Egli afferma che le retribuzioni devono essere connesse alla produttività perché altrimenti fenomeni «che vanificano o stravolgono gli intenti egualitari» possono generarsi, creando infine disoccupazione giovanile e sommerso [Baffi 1977, p. 395]. Baffi individua dunque nella flessibilità una via per ristabilire i nessi tra retribuzioni e produttività. In particolare, il costo medio del lavoro e il ventaglio dei suoi livelli tra lavoratori e settori di attività dovrebbe cambiare in base alla composizione delle forze di lavoro, alla loro distribuzione geografica, alla dotazione di capitale fissi, alle istituzioni, al sistema di valori culturali e professionali [Baffi 1977, p. 395].
Questo approccio ha delle assonanze con una impostazione alla Cattaneo.
A conclusione della nostra trattazione ritorniamo al quesito iniziale e cioè: quale paradigma consente di classificare come liberale un economista italiano nel periodo considerato? La risposta non è facile a meno che si passi a una individuazione basata sulla appartenenza a un partito politico. Non volendo ricorrere a questo criterio consideriamo congiuntamente il momento di analisi teorica e il momento della sua applicazione all’interpretazione della realtà economica contemporanea nonché l’individuazione di linee di azione politica da parte degli economisti considerati. Teoria e istituzioni, politiche e realtà: è il binomio che caratterizza gli economisti italiani liberali prima presentati.
In conclusione, ciò che a nostro avviso caratterizza maggiormente gli economisti accademici italiani in tema di distribuzione del reddito è un impronta riformista, pragmatica e liberal-sociale.
Bibliografia
Introduzione alla economia politica, Giuffrè, Milano 1948.