Diritto privato

di Vincenzo Zeno Zencovich

Il diritto privato è intrinsecamente liberale e liberista. Liberale perché si fonda sul presupposto della libertà individuale nella sfera delle relazioni private. Liberista perché, con l’eccezione del diritto di famiglia, presuppone un mercato libero nel quale le attività economiche dei privati, utilizzando gli strumenti del diritto privato, possano svilupparsi.

Questo postulato – che si basa sulla osservazione dello sviluppo del diritto privato grosso modo dal XVII secolo in poi, quando si affermano le correnti di pensiero giusnaturaliste – richiede tuttavia una serie di precisazioni che ne ridimensionano significativamente la portata e, soprattutto, la de-ideologizzano.

Esiste ancora il «diritto privato»?

Storicamente – dai tempi dei giuristi romani e dunque da 2.000 anni – si tende a ripartire il diritto in due grandi branche: il diritto pubblico e il diritto privato. La classificazione, sicuramente utile ai fini didattici, da oltre mezzo secolo è messa in discussione da letture non formaliste del diritto le quali evidenziano che nelle società contemporanee l’esercizio di diritti e libertà privati è costantemente soggetto a discipline che non guardano agli interessi dei singoli, bensì a quelli della collettività. Senza voler indulgere nella creazione di nuove etichette, si assiste a una pubblicizzazione dei rapporti privati. E allo stesso tempo si constata che sempre di più i soggetti pubblici, anziché avvalersi dei loro poteri autoritativi, utilizzano strumenti del diritto privato per regolare i loro rapporti con i cittadini. Se poi si guarda al profilo dei rimedi si constata che da sempre il diritto privato, per garantirsi una effettività, ha bisogno di strumenti pubblici di esecuzione, solitamente il processo. E non si tratta di una mera evenienza patologica. Il fisiologico rispetto dei diritti altrui e degli obblighi propri è garantito dall’esistenza di un sistema di sanzioni il quale ha una chiara funzione general-preventiva.

A voler guardare la cosa secondo i dettami del realismo giuridico – il diritto è realtà effettiva, non mera enunciazione verbale – se la nozione di «diritto privato» è smarrita o comunque offuscata, quel che realmente rileva è il concetto generale di diritto, all’interno del quale si rinviene anche la disciplina dei rapporti fra privati. È chiaro che il diritto non è intrinsecamente «liberale» e «liberista», ma può caratterizzarsi, a seconda dei contesti e delle epoche, per una maggiore o minore prevalenza dei principi di libertà individuale ed economica.

Il ritorno degli status

L’emersione del diritto privato – nel senso che tradizionalmente diamo al termine e che è compendiato nei voluminosi manuali su cui studia ogni studente di giurisprudenza – si accompagna a un contrasto ideologico-politico opposto al modello feudale, il quale si basa su una segmentazione della società in classi, ciascuna con una maggiore o minore quantità di diritti, privilegi, oneri, obblighi.

La unificazione del soggetto di diritto privato costituisce una delle rivendicazioni della Rivoluzione francese compendiata nella parola d’ordine della «egalitè». Sennonché, fin dalla sua prima applicazione, in quel monumento di civiltà giuridica e sociale che fu il Codice Napoleone, il principio della uguaglianza fu derogato a favore di quel ceto mercantile che, come principale artefice della rivoluzione, non intendeva rinunciare ai propri privilegi conquistati in secolari contese con i pubblici poteri. Di qui la creazione di un regime particolare, consegnato al codice di commercio.

Se l’Ottocento si limita a questa dicotomia, il Novecento, soprattutto nella sua seconda metà, vede realizzarsi un processo di fragmentazione il quale, attorno a talune figure ritenute socialmente ed economicamente deboli, costruisce regole speciali il cui fondamento è la qualità di uno dei soggetti del rapporto: il lavoratore dipendente, il lavoratore agricolo, il conduttore di immobili abitativi, l’agente, per arrivare in fine alla progressiva emersione della figura del consumatore/utente/risparmiatore.

Ovviamente non ha senso polemizzare con vicende che accomunano tutte le grandi democrazie europee e, persino, gli Stati Uniti d’America. Né può prospettarsi una aprioristica contrapposizione fra liberalismo e Stato sociale. Il punto è un altro: il profluvio di legislazione creatrice di diritti particolari di status è l’espressione di un processo, questo sì demolitore dei cardini del pensiero liberale, e cioè quello della pervasiva regolazione, soprattutto dell’attività economica.

In altri termini, uno dei nuclei essenziali del pensiero liberale – che nessuno meglio di Adamo Smith ha saputo scolpire – viene fortemente ridimensionato. La libertà si può esercitare solo all’interno di recinti ben disegnati e controllati dalla visibilissima mano pubblica.

La regolazione come parametro giuridico

Il contesto nel quale si è inserito il riemergere degli status, quello della regolazione, esprime il più temibile (e vittorioso) antagonista di una concezione liberale del diritto privato. Ed è ironico che esso rifletta una concezione per molti versi coeva: quella del governo illuminato. La regolazione delle attività private non è tanto l’esercizio di un pubblico potere, quanto piuttosto un dovere che mira a proteggere i cittadini e al tempo stesso interessi generali che altrimenti verrebbero sacrificati. Se ciò può essere anche considerato inevitabile per la complessità degli Stati moderni e la molteplicità dei compiti a essi affidati, ciò che stupisce è la irresistibile spinta ad aumentare la regolazione con riguardo ai suoi ambiti e alla profondità dell’intervento. E una economia fortemente regolata comprime l’esercizio dell’autonomia privata, e comunque sostituisce alla volontà del singolo quella di decisori pubblici.

Beninteso non è possibile stabilire ex ante il punto di rottura fra libertà e regolazione. Ci si trova su un declivio nel quale vi è una gradualità di posizioni variegate in relazione al settore e al contesto. Un punto è comunque certo: al di là di qualsiasi disquisizione terminologica, il diritto della regolazione «non» è diritto privato.

La prospettiva europea

In questo scenario di progressiva amministrativizzazione delle attività dei privati – è un soggetto pubblico che decide chi, quando e come si può esercitare l’autonomia privata – l’entità che ha svolto il ruolo dominante e guida è l’Unione europea. Anche qui non si può non cogliere un paradosso. Per un verso la creazione nel lontano 1957 della Comunità economica europea costituisce una splendida espressione di un pensiero intrinsecamente liberale costruito attorno a quattro libertà economiche: di scambio, di circolazione, di stabilimento, di prestazione e ad una teoria pervasiva, quella della concorrenza.

Ma allo stesso tempo, quasi per controbilanciare la straordinaria libertà che si offre, si costruisce un gigantesco opificio della regolazione cui nessun ambito rimane immune.

Riesce estremamente difficile giudicare questa creatura anfibia o bifronte, senza giungere a conclusioni ossimoriche: un mercato senza libertà, una regolazione liberalizzante.

Le partizioni del diritto privato

Se finora si è osservata la nozione del «diritto privato» nelle sue relazioni per così dire «esterne» con il resto dell’ordinamento giuridico, è opportuno considerare che il termine comprende una varietà di sub-divisioni, dotate di notevole autonomia, concettuale e sociale. Se ne esamineranno alcune, assumendo come parametro il Codice civile italiano del 1942 che, a dispetto dei suoi anni, si presenta fra i più moderni, nell’impianto concettuale e in molte delle sue soluzioni, nel panorama occidentale.

liberal», è legittimo dubitare che in un sistema nel quale la libertà individuale si accompagna a una forte responsabilità verso le persone cui si è legati, per scelta o per sangue, si possa utilizzare un solo parametro valutativo. E, per quanto possano valere queste distinzioni, i casi problematici cui si è appena accennato appaiono utili per segnare la differenza fra «liberale» e «libertario».

primis il già citato Code Napoléon) che combina, con gradazioni variabili, il principio di libertà con quello di solidarietà e di previdenza. Dunque nella stagione d’oro del liberalismo esistevano già in questo campo almeno due versioni giuridiche del pensiero dominante. In realtà quelle regole avevano un impatto limitato sulle sole minoranze degli «abbienti». I romanzi di Balzac e di Dickens ci hanno ampiamente istruito sulle vicende successorie dell’’800, ma anche in contesti apparentemente molto diversi fra di loro dal punto di vista giuridico si poteva constatare che sovente in Inghilterra il disponente o si affidava a una paritaria ripartizione omettendo di individuare o preferire degli eredi, oppure utilizzava lo strumento del trust per assicurare il sostentamento dei suoi discendenti, anche oltre una generazione. E sul continente, il vincolo della quota di legittima, garantita per legge ai figli, veniva aggirato attraverso strumenti contrattuali di disposizione durante la vita del disponente.

Arrivati al XXI secolo la trasmissione della ricchezza per causa di morte appare un problema tutto sommato marginale e ormai ampiamente auto-disciplinato dagli interessati e legato all’allungamento della vita media, alla riduzione del numero dei componenti i nuclei familiari, all’esistenza di numerose altre fonti di sostentamento. Le norme del codice civile fungono – come si dice con termine alla moda – come regole di default, cui solitamente, ed estesamente, si ricorre quando si è già provveduto in vita a distribuire il risparmio accumulato e si ritiene che l’assetto legislativo sia equo.

c) Il diritto di proprietà. Nella società preindustriale la proprietà – e in particolare quella immobiliare – era al tempo stesso fonte della ricchezza, espressione della stessa, obiettivo di politiche individuali di accumulazione. Oramai, con l’avvento prima della società industriale, poi di quella dei servizi e ora, di quella smaterializzata dell’informazione e della conoscenza, la ricchezza si produce e si manifesta attraverso strumenti giuridici diversi da quello appropriativo/esclusivo del diritto di proprietà.

A ciò si aggiunga un ulteriore elemento, apparentemente paradossale: con lo straordinario aumento del benessere nelle società occidentali, il numero dei «possidenti» è cresciuto a dismisura e la proprietà – a partire da quella della casa di abitazione – non è più privilegio di pochi. Complessivamente essa perde importanza, nella misura in cui essa è accessibile alla grande maggioranza. E se l’ideologia liberale non è fine a se stessa ma è rivolta ad accrescere il benessere collettivo il risultato merita apprezzamento.

Non si può, peraltro, dimenticare che la proprietà, al pari delle altre forme di ricchezza subisce nel corso dell’ultimo secolo una progressiva funzionalizzazione. L’espressione «funzione sociale della proprietà» è ormai entrata nel lessico comune e sta a indicare come l’esser proprietari – in particolare di terreni urbani ed extraurbani e di insediamenti commerciali ed industriali – comporta una molteplicità di obblighi posti non più per contemperare gli interessi di altri proprietari, bensì interessi pubblici, e in particolare quelli alla corretta pianificazione urbanistica e all’ambiente salubre.

Se da un punto di vista strettamente teorico tali restrizioni delle libertà individuali potrebbero apparire in una luce negativa, è sufficiente riflettere un attimo fra l’immensa differenza che c’è fra quelle città dove il rispetto dei vincoli ha conservato le bellezze del passato e l’amenità del paesaggio, e quelle zone dove il laissez-faire ha provocato deturpazioni irrimediabili, dissesti idrogeologici, degrado di ogni forma di vita diversa dal cemento e dall’asfalto. Il punto, dolente, va evidenziato perché impone una riflessione sull’ampiezza e sui limiti di una concezione liberale del diritto.

d) Il diritto dei contratti. La società mercantile prima, quella industriale poi, e quella contemporanea poggiano tutte sulla libertà contrattuale, condensata nel concetto della autonomia privata. Si è già visto come essa si sia ridotta per via della emersione degli status individuali e della regolamentazione. E al tempo stesso abbia annesso nuovi terreni e acquisito nuove armi, grazie alla riduzione dei monopoli pubblici e ai pervasivi principi della libera concorrenza. A ciò si aggiunga il fatto che la globalizzazione economica marcia al suono del contratto, che anche gli Stati meno liberali sono costretti ad accettare.

Non basterebbero numerosi libri – figurarsi una breve voce enciclopedica – per descrivere il mutamento di questi ultimi decenni. Dato per morto, il contratto si espande ovunque vi sia una attività economica: da un solido monolite appare piuttosto una sostanza gassosa che si diffonde anche a dispetto di barriere e opposizioni. Il nesso fra diritto e politica economica appare evidente ed è impossibile comprendere il primo se non si inquadra correttamente la seconda.

laissez-faire le quali tendono a lasciare, come si dice, «il danno lì dove è accaduto». Questo manifesto favor per l’attività imprenditoriale verrà eroso e quasi interamente sgretolato, in Europa, dall’emersione di due fattori: il primo è quello della tutela del consumatore visto non solo come soggetto debole, ma soprattutto come componente essenziale del mercato. E nell’ottica della difesa del mercato da imprese inefficienti (perché esternalizzano i loro difetti di progettazione e produzione) la responsabilità civile, oggettiva, svolge un ruolo per così dire di profilassi.

L’altro fattore è quello della costituzionalizzazione di diritti individuali: vita, salute, integrità psichica, libertà, personalità, dignità, e tanti altri. A presidio di questi valori viene posta la responsabilità civile che inevitabilmente restringe gli spazi di libertà di agire, soprattutto dell’impresa. È chiaro che il discorso si interseca con quello sulla regolazione svolto retro.

Conclusioni