Cittadinanza
di Vincenzo Lippolis
L’idea di cittadinanza con la quale oggi ci confrontiamo è legata strettamente all’affermazione dello Stato nazione. È stata la Rivoluzione francese a inventare «sia lo Stato nazione che l’istituzione moderna e l’ideologia della cittadinanza nazionale» [Brubaker 1997].
La nazione esprime un’identità fondata su una comunanza di storia, di tradizioni, di lingua, di cultura, di elementi etnici e religiosi, di valori politici e giuridici. «La nazione è un popolo arrivato all’autocoscienza politica, che agisce o intende agire come soggetto politico», esprime «una coscienza politica» e «un sentimento di comune appartenenza» [Bockenforde 2007]. L’organizzazione giuridica attraverso la quale le nazioni si sono strutturate in soggetti politici è lo Stato. Lo Stato è il soggetto che esercita il potere sovrano su un certo territorio e nei confronti di un determinato popolo. Lo Stato nazione ha come fondamento ed esprime un’identità collettiva, l’identità di un popolo stabilmente residente su una certa parte della superficie terrestre.
La cittadinanza è, nello stesso tempo, espressione dell’identità nazionale e uno strumento di definizione di tale identità perché essa determina la collettività di persone che costituisce il popolo di uno Stato, il suo elemento personale. Sono infatti le regole di acquisto e di perdita della cittadinanza, basate su vincoli di sangue, su specifici rapporti con il territorio, su atti volontari di adesione, su particolari rapporti con soggetti che siano già cittadini, a determinare l’appartenenza di un individuo al popolo di uno Stato.
La cittadinanza esercita così, simultaneamente, una funzione di inclusione e di esclusione, distingue i cittadini dagli stranieri. È questo un elemento connaturato ed essenziale all’istituto giuridico cittadinanza, in mancanza del quale esso perderebbe ogni significato. La funzione di esclusione della cittadinanza contribuisce a determinare l’identità nazionale perché, come evidenzia Sartori, l’alterità è il necessario complemento dell’identità: siamo chi siamo, e come siamo, in funzione di chi o come non siamo. Lo Stato liberal-democratico non sfugge a questa «dialettica inclusione-esclusione», anche se è caratterizzato da un’apertura potenziale agli stranieri maggiore di tutte le altre forme di organizzazione politica fondate su principi religiosi, dinastici o strettamente etnici.
Le regole di attribuzione della cittadinanza variano da Stato a Stato in relazione ai valori fondanti l’identità nazionale. È nota, ad esempio, la diversa ispirazione delle legislazioni sulla cittadinanza di Francia e Germania, che hanno storicamente costituito due modelli. La prima, espansiva e assimilazionistica essendo basata su una concezione politica e statocentrica dell’identità nazionale. La seconda, fondata sul principio della comunità di discendenti e derivante da una concezione etnoculturale dell’identità nazionale. Di conseguenza, caratteristica della legislazione francese è sempre stata quella di integrare lo jus sanguinis (che costituisce comunque un criterio base di qualsiasi normativa in materia) con un’applicazione, sia pur moderata, dello jus soli, mentre caratteristica della legislazione tedesca è stata l’applicazione quasi esclusiva dello jus sanguinis. Solo di recente la legislazione tedesca, con la riforma del 15 luglio 1999, si è aperta a una limitata ipotesi di applicazione dello jus soli a vantaggio del figlio di genitore straniero che risieda regolarmente in Germania da almeno otto anni in base a un titolo che garantisca la stabilità del soggiorno.
Lo jus soli, che è proprio, quantomeno all’origine, dell’ordinamento inglese e derivatamente di quello statunitense, esalta il rapporto dell’individuo con l’autorità sovrana sul territorio ed è stato utilizzato da Stati di recente formazione e scarsamente popolati per radicare gli immigrati.
Le politiche della cittadinanza rispondono a diversi interessi che possono modificarsi o variare nel tempo, ma al fondo sono sempre il riflesso dell’idea di identità nazionale che è propria di ciascuno Stato.
La cittadinanza non definisce solo l’appartenenza dell’individuo allo Stato nazione. Anche la sudditanza nel periodo dell’assolutismo assolveva alla stessa funzione di determinare la sfera personale del potere politico. Nello Stato nazione l’istituzione della cittadinanza muta lo statuto personale dei singoli. All’interno dell’ordinamento giuridico statuale, la cittadinanza è il veicolo dell’affermazione del principio di eguaglianza e la qualità di cittadino rende l’individuo titolare di uno status particolare, di cui lo straniero è privo.
welfare state. La tesi di Marshall è stata criticata sotto diversi aspetti, ma essa esprime la tendenza di fondo e, nelle sue grandi linee e salvo qualche eccezione, lo sviluppo dell’arricchimento dello statuto delle posizioni giuridiche del cittadino.
In sostanza, nello Stato nazione del Ventesimo secolo, cittadino è colui che ha il diritto di risiedere nel territorio dello Stato, che è titolare di diritti di autonomia privata e di libertà, che è partecipe della sovranità statale attraverso l’esercizio dei diritti politici, che usufruisce dell’apparato di assistenza e sicurezza sociale. I diritti di cittadinanza connotano «lo statuto costituzionale della persona umana» [Baldassarre 2002] all’interno dell’ordinamento statale.
A comporre lo statuto del cittadino non vi sono però solo diritti, ma anche doveri che trovano il loro fondamento nel vincolo di solidarietà derivante dall’appartenenza alla medesima comunità: il dovere fiscale, il dovere di fedeltà allo Stato, il dovere di difenderlo fino anche al sacrificio della propria vita.
La cittadinanza tuttavia non si risolve in un elenco di posizioni giuridiche personali. La costruzione storica della cittadinanza in epoca moderna presuppone il processo di unificazione politica e culturale che ha dato vita allo Stato nazione. La cittadinanza esprime un legame particolare con la comunità nazionale: un’adesione ai suoi valori fondanti, il sentimento di partecipare a un destino comune.
A conferma di questo ordine di idee si può ricordare che la Corte di giustizia internazionale nella sentenza sul caso Nottebohm del 1955, che rimane ancora un punto fermo in materia, ha definito la cittadinanza «a legal bond having as its basis a social fact of attachment, a genuine connection of existence, interests and sentiments, together with the existence of reciprocal rights and duties». La Corte costituzionale italiana, per parte sua, nella sentenza n. 62 del 1994 ha individuato l’essenza della cittadinanza in «un legame ontologico con la comunità nazionale» e quindi in «un nesso giuridico costitutivo con lo Stato italiano» di cui lo straniero è privo.
Il fenomeno della globalizzazione e la crisi dello Stato nazione hanno posto in discussione sotto diversi aspetti questa concezione della cittadinanza e, per evidenziare il mutamento, si sono coniate formule come cittadinanza postmoderna, postnazionale, cosmopolitica.
Un primo mutamento attiene ai diritti civili e di libertà. Essi non connotano più lo status giuridico proprio del cittadino in quanto si sono ormai affermati come diritti dell’uomo che gli Stati sono tenuti a riconoscere indipendentemente dalla sua cittadinanza. La distinzione tra droits de l’homme e droits du citoyen (questi ultimi attinenti alla sfera della partecipazione politica), era già inscritta nella Dichiarazione universale del 1789, ma, come è stato esattamente notato [Ferrajoli 1994], all’epoca della Rivoluzione francese e fino alla metà del Novecento «persona» e «cittadino» di fatto si identificavano non essendosi ancora realizzati la mobilità degli individui tra Stato e Stato e i fenomeni migratori dal Terzo mondo propri dell’epoca contemporanea. Oggi i diritti dell’uomo hanno trovato la loro consacrazione e codificazione in vari, importanti atti di diritto internazionale a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata dall’Onu nel 1948. Si tratta di atti in genere elaborati e promossi da organizzazioni internazionali che poi si adoperano perché siano rispettati e applicati. Essi – anche se non sempre e non da tutti – vengono riconosciuti come fonte giuridica superiore a quelle nazionali. Ma anche nelle stesse costituzioni nazionali i diritti di libertà vengono spesso attribuiti agli individui in quanto tali e non ristretti ai cittadini. Basti pensare all’art. 2 della Costituzione italiana e a varie altre disposizioni della sua Prima parte. All’estensione ai non cittadini appare poi spesso orientata la giurisprudenza degli organi di giustizia costituzionale, come quella della Corte italiana, particolarmente aperta in questo senso.
Un fenomeno analogo si è prodotto anche per i diritti nell’area economico-sociale. A partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, negli Stati democratici europei, lo statuto giuridico degli stranieri è stato progressivamente assimilato a quello dei cittadini in materia di salari, diritto del lavoro e della sicurezza sociale.
Meno permeabile a questo fenomeno è l’area dei diritti di partecipazione politica. Ma anche qui non si può dimenticare la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica locale del 1992, che, oltre al riconoscimento dei diritti di riunione e associazione, prevede anche il diritto di elettorato attivo e passivo a livello locale. Il riconoscimento dei diritti politici a livello locale si fonda sull’idea che lo straniero residente debba avere la possibilità di partecipare ai processi di decisione politica della comunità locale in quanto contribuisce alla sua vita e al suo sviluppo. Alcuni Paesi nord europei hanno già da anni intrapreso questa strada e anche in Italia l’argomento è da qualche anno nell’agenda politica, ma un freno è costituito dalla necessità di una legge costituzionale che, superando il disposto dell’art. 48 Cost., riconosca espressamente un tale diritto agli stranieri. Si delineano così i contorni di una cittadinanza che è stata detta amministrativa perché ristretta a livello locale.
A costituire il nucleo proprio e irriducibile della cittadinanza rimangono il diritto di residenza, senza il quale può essere negato l’accesso al territorio dello Stato e sono possibili misure di espulsione, impedendo così o rendendo precario l’esercizio di ogni altro diritto, e i diritti politici il cui esercizio influisce sulla vita dell’intera collettività statale. Ma anche la concreta pregnanza di questi ultimi subisce il colpo della globalizzazione e della conseguente crisi dello Stato nazione, che sottrae a questo poteri di decisione sia politici sia economici e li alloca a livello internazionale non solo in organizzazioni create dagli stessi Stati, ma anche in soggetti di natura privatistica la cui forza è prodotta dalle dimensioni globali del mercato.
Anche sul versante dei doveri i mutamenti non sono stati meno significativi. Una profonda trasformazione ha subito il dovere di difesa. L’affermazione sempre più estesa degli eserciti professionali in luogo della leva generalizzata e obbligatoria (fenomeno che ha interessato anche l’Italia) toglie dalla ribalta e colloca sullo sfondo la figura del cittadino in armi e combattente, uno degli elementi cardine attorno a cui la Rivoluzione francese aveva costruito l’intero edificio della cittadinanza. L’obbligazione di difesa della nazione certo non sparisce e rimane inscritta nei testi costituzionali (vedi l’art. 52 della Costituzione italiana), ma indubbiamente diviene meno immediatamente percepibile e ciò non resta senza influenza sulla percezione complessiva dei vincoli derivanti dalla cittadinanza.
È questo il segno di un fenomeno di più ampia portata che tende a cambiare il senso stesso della cittadinanza e dell’appartenenza politica allo Stato nazione. Essere cittadini tende a perdere il senso di essere all’interno di un sistema di obbligazioni, all’interno di una comunità che richiede il nostro impegno e che non ci fornisce solo delle opportunità. La cittadinanza tende a divenire una lista di prerogative, un semplice statuto individuale di diritti. L’affermazione sempre più estesa e vigorosa dei diritti individuali negli Stati liberal-democratici sembra «svuotare la cittadinanza di ogni contenuto di ingiunzione morale, produrre una cittadinanza senza civismo» [Thibaud 1993].
Si comprende quindi come sia stata prospettata l’idea di una cittadinanza-residenza, cioè di una assimilazione dei due status finora nettamente distinti. La partecipazione di fatto alla vita della società dovrebbe dare titolo (dopo un periodo di residenza non troppo prolungato) all’automatico acquisto della cittadinanza, in un certo senso riproducendo a livello nazionale la situazione cui prima si è fatto cenno della cittadinanza amministrativa. La figura del cittadino con la sua connotazione politica lascia il posto a quella del contribuente o dell’utente.
Il legame tra cittadinanza e identità nazionale è rimesso poi in discussione da quelle teorie che tendono a collocare la cittadinanza a livello infranazionale o sovranazionale. La prima tendenza si manifesta nell’affermazione della necessità di tutelare, oltre ai tradizionali diritti della cittadinanza, anche quelli c.d. culturali, che verrebbero a costituire una sorta di quarta categoria aggiuntiva rispetto alle tre della classificazione di Marshall. Si tratterebbe del diritto dei singoli di coltivare valori e tradizioni culturali specifici, sia singolarmente, sia prevalentemente all’interno di gruppi sociali tendenzialmente minoritari e formati su base etnica, religiosa o linguistica. È in sostanza il tema del multiculturalismo che è divenuto di attualità con l’imponente fenomeno migratorio verso l’occidente dai Paesi del Terzo mondo, ma che attiene anche alla tutela di minoranze già presenti all’interno degli Stati-nazionali prima dell’esplosione del fenomeno migratorio. È stata così sviluppata l’idea di una cittadinanza differenziata o multiculturale, vale a dire di differenti statuti di cittadinanza a seconda dell’appartenenza ai diversi gruppi sociali. La cittadinanza nazionale verrebbe così segmentata anche se con una base comune.
status di cittadinanza cosmopolita.
Dalla rapida analisi condotta si vede come la tradizionale configurazione della cittadinanza nazionale abbia subìto adattamenti, sia sottoposta a critiche, se ne prefigurino evoluzioni lungo strade che ne potrebbero snaturare il significato, se ne ipotizzi addirittura il superamento. Il processo, come si è detto, origina dalla crisi dello Stato nazione nel mondo globalizzato, cui si è unito il fenomeno dell’immigrazione che ha profondamente toccato la composizione sociale dei Paesi dell’Occidente.
Si può dire quindi che si va verso un superamento della cittadinanza nazionale verso una scissione tra cittadinanza e identità nazionale? Una simile conclusione appare azzardata. Innanzitutto, si deve prendere atto che lo Stato nazione sta mostrando una vitalità forse inaspettata da coloro che, come Habermas, ne avevano pronosticato il superamento e appare quantomeno precipitoso consegnarlo «al cestino dei rifiuti della storia» [Brubaker 1997]. Anche a voler ammettere che questa sia la tendenza, la traiettoria non è certo stata compiuta. Lo possiamo constatare a livello europeo: tutto indica che gli Stati europei avrebbero un vantaggio a procedere nel cammino dell’integrazione, ma una identità politica europea tarda a manifestarsi. Si deve quindi prendere atto di una realtà che è ancora costituita dagli Stati nazionali e del suo rapporto con l’istituto della cittadinanza.
I diritti individuali, non solo i diritti propri della cittadinanza, ma anche quelli rientranti nella categoria dei diritti dell’uomo, trovano solo all’interno degli Stati la garanzia della loro effettività perché, salvo rare eccezioni, non esistono sedi internazionali che ne garantiscano l’applicazione. E se è vero che per noi cittadini europei alcuni diritti ci vengono assicurati dall’ordinamento dell’Unione, non è men vero che l’Unione si fonda ancora su Stati che non hanno perso la loro sovranità e quei diritti si fondano in definitiva sul loro consenso.
Il dovere di prestazione militare (sia pure con le attenuazioni di cui si è detto) rimane ancora esigibile solo dallo Stato nazione perché è solo a esso che, nonostante l’accrescersi dell’azione degli organismi internazionali, il cittadino può chiedere che sia protetta la sua sicurezza.
Le ipotesi di cittadinanza multinazionale o postnazionale rischiano di essere delle fughe in avanti. Se guardiamo alla cittadinanza europea a un quindicennio dalla sua istituzione dobbiamo constatare che essa non ha mutato la sua natura di status aggiuntivo alla cittadinanza nazionale, di cui, secondo lo stesso trattato, costituisce un complemento. Non è dato di registrare alcun segnale di un processo di ribaltamento di questo rapporto. Il «patriottismo costituzionale» pur evidenziando valori comuni che sono alla base della civiltà europea, rimane ancora un ideale troppo freddo e astratto per poter costituire il cemento di una nuova identità. Il richiamo al «patriottismo costituzionale» può avere un senso più preciso a livello statale perché i valori che sono alla base della Costituzione sono l’espressione di una storia e di una identità comune. Esso è molto meno significativo riferito all’Europa che non ha ancora una unità politica e una carta costituzionale. In definitiva, le difficoltà sorte nell’approfondimento del processo di integrazione europea, soprattutto dopo l’allargamento a Est e il fallimento del progetto di «costituzione europea», non incoraggiano la prospettiva di una cittadinanza europea che soppianti quelle nazionali. Non appare neanche realizzabile a breve termine la prospettiva, caldeggiata da Haberle, di una «europeizzazione» del diritto della cittadinanza, ovverosia la creazione di una base di regole comuni così come sta avvenendo in altri settori del diritto costituzionale, e la formazione di una cittadinanza multipla tra i Paesi europei. Ma se questo è lo stato dei fatti in Europa ancor più irrealistico appare parlare di cittadinanza cosmopolita, a meno di non voler ridurre l’espressione al semplice richiamo a una generica facilità di rapporti resa possibile dalla globalizzazione.
La cittadinanza rimane quindi ancora legata alla istituzione statale e si salda con l’identità su cui lo Stato si fonda. Il rischio è quello di uno svuotamento dal di dentro che si avrebbe seguendo le teorizzazioni estreme della cittadinanza-residenza poiché si sottrarrebbe l’attribuzione della cittadinanza a ogni peculiare legame con la comunità nazionale e la si ridurrebbe a una lista di prerogative fondata solo sulla permanenza nel territorio statale.
In un certo senso all’estremo opposto si colloca l’idea di una cittadinanza differenziata volta a proteggere le diverse culture presenti in società divenute ormai eterogenee. Non si vuole infatti, come nella cittadinanza residenza, offrire a tutti un’uguaglianza di situazioni giuridiche indipendentemente dalle identità etniche, religiose o linguistiche, ma anzi proteggere le diversità con statuti differenziati. È evidente il rischio di compromettere così i valori fondanti la comunità nazionale e di immettervi i germi della dissoluzione.
Questi problemi si sono acuiti con il dilatarsi del fenomeno migratorio. Gli immigrati godono di diritti civili e sociali solo per il fatto di risiedere legalmente nel territorio dello Stato, ma non accedono facilmente alla cittadinanza. Essi costituiscono una percentuale sempre crescente di popolazione socialmente attiva che rimane esclusa dai diritti politici. Da alcuni questa situazione è giudicata alla lunga insostenibile e si propone di facilitare l’accesso alla cittadinanza. In questa direzione si sono sviluppate negli ultimi anni in Italia varie iniziative legislative volte a modificare la legge sulla cittadinanza del 1992.
Se appare ragionevole evitare il consolidamento di una fascia consistente di popolazione in un certo senso di seconda categoria, non si può, come dice Sartori, pensare che la soluzione del problema sia «dispensare cittadinanza». L’acquisto della cittadinanza non può essere declassato da coronamento di un’integrazione già avvenuta, di una identità già acquisita a strumento di una integrazione ancora da compiere.
Le politiche della cittadinanza incidono sull’identità nazionale e devono essere maneggiate con prudenza perché se è vero che lo Stato liberaldemocratico è aperto all’inclusione, rimane ancora vero che la cittadinanza è un principio di lealtà politica e l’acquisto della qualità di cittadino richiede un’adesione ai valori fondanti della comunità nazionale e una partecipazione alle sue sorti.
Bibliografia
Citoyennetè et engagement moral, in «Pouvoirs», n. 65, 1993.