Capitalismo

di Lorenzo Infantino

habitat in cui nessuno possa imporre la propria volontà sulla base dell’asserito possesso di una conoscenza superiore. Ecco perché gli attori devono trovarsi su un piano di parità giuridico-formale. E questo è il primo presupposto della competizione, che ha tuttavia bisogno di una seconda condizione: l’esistenza della proprietà privata. In mancanza di risorse detenute privatamente, l’uguaglianza giuridico-formale non può infatti alimentare un processo competitivo.

Se le condizioni di cui sopra, e l’ordine giuridico che da esse discende, sono rispettate, la scelta di ciascuno, intersecando quella degli altri, permette in ogni momento di stabilire quali risorse siano scarse e in che misura. Di qui il sistema dei prezzi (che è il risultato della spontanea aggregazione delle preferenze individuali) e il calcolo economico. Ciò significa che qualunque intervento della mano pubblica, volto a modificare artificiosamente i prezzi, si traduce in un’alterazione del calcolo e in un elemento di grave disturbo nella formulazione dei piani degli operatori.

Come tutti i fenomeni complessi, il capitalismo non è di facile «decifrazione». La Gran Bretagna ha potuto beneficiare dell’opera chiarificatrice di tanti studiosi. I contributi di David Hume, Adam Smith, Adam Ferguson e John Millar forniscono delle irrinunciabili chiavi di lettura. Esemplari sistematizzatori della teoria delle conseguenze inintenzionali, i moralisti scozzesi hanno mostrato che il processo storico-sociale ha carattere ateleologico. E hanno visto nel capitalismo un esito non programmato, generato da azioni che i soggetti avevano finalizzato ad altri scopi. L’«anarchia feudale», la mancanza cioè di un forte potere centrale, aveva consentito ai baroni d’Inghilterra di ottenere delle «concessioni», che sarebbero poi divenute la base della libertà d’azione dei soggetti a loro subordinati [Infantino 2008, pp. 40-46). Ossia: il capitalismo è nato da una condizione connotata dalla debolezza del potere politico. E ciò ha permesso l’acquisizione da parte dei governati dell’autonomia di scelta e del controllo sui governanti. Le città sono divenute i «santuari» del capitale [Smith 1975, p. 529].

Quanto agli autori italiani, Werner Sombart ha richiamato l’attenzione su Leon Battista Alberti, i cui scritti rappresentano «il testo più prezioso per documentarsi sullo stato d’animo di quelle antichissime epoche della Weltanschauung borghese» (Sombart 1978, p. 82). Sombart ha però aggiunto che la «magnificenza capitalistica» italiana giunse «abbastanza velocemente alla fine […] [e] lo spirito d’impresa» decadde (ivi, p. 105). Il che non ha certo facilitato l’indagine sul capitalismo, alla cui comprensione la debole tradizione liberale italiana ha comunque dato un certo contributo.

Il nome su cui è necessario soffermarsi per primo è quello di Francesco Ferrara, che ha occupato la cattedra di Economia politica nell’Università di Torino. In verità, quella cattedra era stata soppressa con la «restaurazione» seguita ai moti piemontesi del 1821. Le ragioni di ciò sono di facile comprensione. L’economia politica era nata come critica ai fallimenti dello Stato interventista. E gli economisti di allora, rivendicando la libertà economica, si trovavano nello schieramento di quanti desideravano tutelare e accrescere l’ambito della scelta individuale in tutta la sua estensione. La lotta per la libertà economica si coniugava quindi con quella della libertà politica.

Quando nel 1849 si è giunti al ripristino della cattedra e alla sua attribuzione, il nuovo docente, Francesco Ferrara, ha reso chiaro fin dalla prolusione che quella economica è propriamente una dimensione della più generale lotta per l’affermazione di istituzioni liberali. Una frase contenuta in quella prolusione potrebbe senza dubbio porsi a epigrafe dell’intera opera ferrariana: «Il despota transige col demagogo, non perdona all’economista». E all’epoca l’economista (non c’era bisogno di precisarlo) era liberale, perché vedeva nello sviluppo del mercato una limitazione al potere d’intervento dello Stato.

I più originali contributi di Ferrara alla spiegazione del fenomeno capitalistico si trovano tuttavia altrove. Il suo nome è soprattutto legato al tentativo di superare il «convenzionalismo» della teoria economica premarginalista, introducendo l’elemento soggettivo nel processo economico. Non è pervenuto all’idea dell’utilità relativa all’ultima dose, ma è stato sicuramente un precursore della teoria soggettivistica del valore, che pone in primo piano il problema della scelta individuale. Non è un caso che, nell’introdurre la traduzione italiana dei Principles di Ricardo, Ferrara abbia scritto che il valore «è un giudizio della nostra mente». E va a suo permanente merito avere mostrato l’urgenza di affrancare la teoria economica dalla reificazione dei concetti, impiegati sovente come entità autonome rispetto all’azione umana.

«se venisse meno lo stimolo, che vien dall’assalto sferrato contro la loro posizione [da altri imprenditori], si dovrebbe trovar modo di sostituirlo con qualche altro per evitare di vedere decadere l’industria» [ivi, pp. 725-726].

Alla luce di quel che precede, si comprende la rigorosa adesione di Pareto alla causa del liberoscambio e la severa critica rivolta al protezionismo. Quel che non si comprende è invece la conclusione secondo cui «l’economia pura non ci dà criteri veramente decisivi per scegliere fra un ordinamento di proprietà o di concorrenza privata e un ordinamento socialista» [Pareto 1974, p. 257]. Conclusione che poggiava sulle seguenti proposizioni: «I prezzi, i frutti netti dei capitali, possono sparire, se pure ciò è possibile, come entità reali, ma rimarranno come entità contabili, senza di esse il ministero della produzione andrebbe brancolando come cieco e non saprebbe come ordinare la produzione […]. Per ottenere il massimo di ofelimità lo Stato collettivista dovrà ridurre eguali i diversi frutti netti e determinare i coefficienti di produzione come li determina la libera concorrenza» [ivi, p. 256]. Si tratta però di una via impercorribile. Il Ministero della produzione non può infatti centralizzare all’istante tutte le conoscenze mobilitate dal processo concorrenziale, che peraltro è stato soppresso. E poi, sebbene Pareto abbia più volte vagheggiato l’idea di un socialismo pervenuto «a uno stadio di libera concorrenza» [1971, p. 779], lo scopo dello Stato collettivista è esattamente l’opposto: rendere impossibile, tramite la soppressione della proprietà privata, qualsiasi forma di competizione.

Si può pertanto dire che il marginalismo ha introdotto la dimensione soggettiva nell’economia, ma la teoria dell’equilibrio economico generale lo priva della sua fecondità: perché è la «camicia di Nesso» che sopprime lo spazio dell’azione umana e rende incomprensibile il processo di mercato. Non è accidentale che Enrico Barone, dopo avere utilizzato gli schemi di quell’equilibrio per dare soluzione al problema del «ministro della produzione», abbia concluso: «allorché alcuni scrittori collettivistici […] sperano che con la produzione organizzata si possano risparmiare gli sperperi e le distruzioni di ricchezza che […] [gli] esperimenti [della concorrenza] traggon seco […] con ciò dimostrano semplicemente di non aver punto un’idea chiara di che cosa sia la produzione, e di non essersi mai accinti allo studio, un po’ a fondo, del problema che incomberà al ministro che vi sarà preposto nello Stato collettivista» [cfr. Infantino 2008, pp. 206-213].

Bisogna allora riflettere su quanto ha scritto Schumpeter, il quale ha messo in dubbio la genuinità del liberalismo paretiano: perché Pareto, «osservando con appassionato furore le gesta degli uomini politici nelle democrazie liberali d’Italia e Francia, […] è stato dall’indignazione e dalla disperazione indotto ad assumere un atteggiamento anti-étatiste che, come gli eventi avrebbero dimostrato, non era veramente suo proprio» [1990, vol. 3, p. 1057]. Ma lo stesso Schumpeter non si è reso conto dell’impossibilità di far convivere scelta ed equilibrio, tant’è che ha accreditato l’idea che Barone avesse risolto il problema del calcolo in un’economia socialista, avesse cioè indicato come sostituire il mercato con il sistema delle equazioni della teoria dell’equilibrio economico generale.

Anche Maffeo Pantaleoni è rimasto rinserrato all’interno del territorio rigidamente utilitaristico. Ed è caduto pure in altri fraintendimenti. Quando nel 1909 ha presentato l’edizione italiana dei Grundsätze der Volkswirtschaftslehre di Carl Menger, egli ha ritenuto che la prima lacuna di quell’opera stesse nella mancanza della «concezione dell’equilibrio generale economico». Ma ciò è esattamente quel che dà modo alle pagine mengeriane di contenere un’autentica teoria dell’azione, di porre in evidenza come il processo di mercato si articoli tramite la scelta individuale. Pantaleoni riteneva che le uniche opere in grado di dare compiuta conoscenza in campo economico fossero quelle di Pareto (il Corso e il Manuale). Ed è questa la ragione per cui si è a lungo soffermato sulla questione della massimizzazione sociale dell’utilità, giungendo anche a vedere nello Stato l’ente illuminato capace di sollevarsi sopra gli interessi dei singoli. Il che equivale a credere nell’esistenza di una fonte privilegiata della conoscenza. Ed è questa una posizione incompatibile con la logica di mercato, perché in tal modo il processo capitalistico viene delegittimato dalla mano pubblica. Pantaleoni ha fatto sostanzialmente proprio l’itinerario paretiano. Il punto è però che la questione della massimizzazione si pone solo all’interno di un universo statico come quello dell’equilibrio economico generale, in cui sono noti i dati rilevanti. Quando tuttavia, come nella quotidianità operativa, gli attori si trovano davanti a una situazione problematica, che impone di formulare congetture anche sui dati di quella stessa situazione, parlare di «massimizzazione» non ha alcun senso: non si sa infatti cosa massimizzare. Si comprende allora che l’allocazione competitiva delle risorse è, «al pari degli esperimenti scientifici, prima di tutto ed essenzialmente, un processo di scoperta […] [e] non si può dire della concorrenza, come di nessun altro tipo di esperimento, che essa porti a una massimizzazione di un qualche risultato misurabile. Semplicemente, essa porta, in condizioni favorevoli, all’uso di maggiori capacità e conoscenze di qualsiasi altra procedura» [Hayek 1986, pp. 442-443].

Pantaleoni vedeva giustamente nel capitalismo una «rivoluzione perpetua» [1925, p. 222]. E ciò lo avrebbe dovuto portare lontano dagli schemi dell’equilibrio economico generale. Il che non è avvenuto. I suoi scritti contengono anzi un’ancora più inquietante deriva: l’adesione al nazionalismo e l’esaltazione della guerra, giudicata un’occasione per rifondare moralmente una collettività e accrescere la sua ricchezza. È una posizione totalmente insostenibile, contraria anche ai princìpi su cui Pantaleoni basava la sua difesa del liberoscambio.

Con Antonio De Viti de Marco, c’è un recupero del territorio su cui aveva operato Francesco Ferrara. Questi aveva rifiutato la «paterna sollecitudine dello Stato», ma aveva ben compreso che spetta ai governanti il compito di fornire determinati servizi ai cittadini. De Viti de Marco ha contrapposto lo Stato democratico o cooperativo allo Stato monopolista o assoluto. Ha rivolto le sue preferenze al primo. E ha spiegato che i servizi pubblici, poiché hanno lo scopo di rendere possibile l’attività privata, costituiscono un fattore della produzione. È così che attività pubblica e attività privata si integrano, c’è fra di esse uno scambio: «I cittadini contribuiscono beni privati che lo Stato trasforma in beni pubblici» [De Viti de Marco 1953, p. 49]. Sono in errore coloro che «non amano di trattare l’obbligo delle imposte come la contropartita del diritto di ricevere servizi pubblici. Ciò ricorda, in forma attenuata, i tempi in cui l’imposta era il tributo che i vinti pagavano al vincitore» [ibidem]. Non è quindi la «sovranità dello Stato» che giustifica le imposte. Ciò è quanto accade nello «Stato etico» o assoluto, ma nello Stato cooperativo le imposte sono il prezzo dei servizi prestati ai cittadini.

Per un verso, c’è dietro tutto ciò la consapevolezza che «il principio del valore subiettivo non consente confronti di sensibilità fra individui diversi» [ivi, pp. 124-125]: non ci può pertanto essere che ostilità nei confronti del «germanesimo economico» e di quelle concezioni che, sacrificando la libertà individuale di scelta, fanno dello «Stato assoluto» la variabile indipendente dell’ordine sociale. E c’è, per altro verso, la comprensione dell’insopprimibilità dell’«industria governativa». Lo sviluppo capitalistico ha bisogno dei servizi prestati dalla mano pubblica. Come dire che il liberalismo non può coincidere con il laissez-faire. D’altronde, Hayek ha scritto che «né Locke, né Hume, né Burke […] si posero mai a difesa di un completo laissez-faire che, come dicono le parole, fa parte […] della tradizione razionalistica francese e che in senso letterale non è mai stato difeso da nessuno degli economisti classici inglesi» (Hayek 2007, pp. 162-163).

ivi, p. 376]. È questo un tema che, in tempi più vicini a noi, sarà ripreso da Buchanan per sostenere la necessità di una costituzione economica, capace di vincolare i provvedimenti di spesa alla deliberazione di maggioranze particolarmente qualificate [cfr Infantino 2008, pp. 314-317].

Degli insegnamenti di De Viti, come di quelli della Scuola austriaca di economia, ha beneficiato Luigi Einaudi, fra i cui contributi alla «decifrazione» del capitalismo occorre sicuramente annoverare l’idea secondo cui la libertà politica poggia sulla proprietà privata e sul processo capitalistico da quella alimentato. È questo il tema su cui, com’è ben noto, si è sviluppata la polemica con Benedetto Croce. Benché sicuramente accoglibili, gli argomenti di Einaudi non hanno l’adeguata ampiezza teorica: utilizzano il semplice buon senso. Già in The Commonwealth of Oceana, pubblicato da James Harrington nel 1656, la proprietà privata viene vista come il mezzo della libertà politica. Vengono poi i Voyages di Bernier, la cui pubblicazione è incominciata a partire dal 1670, nei quali quel legame viene confermato [cfr. Infantino 2008, pp. 319-320]. E da allora gli autori che, in un modo o nell’altro, si sono misurati con il tema sono numerosi e concordanti. Einaudi avrebbe potuto fare ricorso a un materiale molto esteso, rinvenibile anche in campo avverso al suo. Il primo formulatore del teorema secondo cui la proprietà privata sta alla base della libertà può infatti essere considerato Platone, che intendeva tuttavia sopprimere l’autonomia individuale e chiedeva per l’appunto la soppressione della proprietà privata. Il che è stato riproposto, a distanza di tanti secoli, da Karl Marx.

Aufbruch che ha permesso all’Europa di sopravanzare tutte le altre civiltà e di estendere su di esse la sua egemonia culturale» [Pellicani 1988, p. 179]. Detto diversamente: «solo grazie alla formazione di un sistema politico a struttura policentrica il capitalismo è riuscito a svilupparsi sino a imporsi come il modo di produzione dominante. Esso poté fare i primi passi, proprio in quanto si erano aperti, nel seno del mondo feudale, numerosi interstizi di libertà. In questo senso, si può senz’altro dire che la storia del capitalismo e la storia del Potere limitato sono un’unica storia o, quanto meno, si presentano sulla scena come due storie strettamente intrecciate» [ivi, p. 178]. E ancora: «nei Comuni, incominciò l’esplorazione metodica dell’universo dell’economia, dei suoi princìpi costitutivi e delle sue potenzialità: una esplorazione che porterà alla formazione di una nuova forma mentis, tutta dominata dalla razionalità calcolatrice e, quindi, in netta antitesi alla mentalità cristiano-feudale» [ivi, p. 194].

Con l’aiuto di autori italiani, si può ancora chiarire un punto. C’è in Weber una spiegazione delle origini del capitalismo sintonica rispetto a quella fornita dai moralisti scozzesi. Tale spiegazione utilizza la via dell’«anarchia feudale» e vede nella città occidentale, e in senso specifico nella città medioevale, il «luogo di ascesa dalla servitù alla libertà per mezzo del profitto economico monetario» [Weber 1968, vol. 2, p. 555]. Ma di ciò, con riferimento a Weber, si discute poco. Il nome del sociologo tedesco è di norma associato all’idea secondo cui l’etica protestante avrebbe favorito l’affermazione (non del capitalismo, il cui sviluppo era da tempo in atto, ma) dello spirito capitalistico. È questa una tesi che Weber ha però esposto in modo ambiguo. Egli ha infatti scritto che, «a creare un’etica capitalistica – non certo intenzionalmente – fu […] l’ascesi intramondana del protestantesimo» [ivi, vol. 1, p. 577]. Ma la sua «ricostruzione» mette sovente ai margini la dichiarata inintenzionalità del processo. E altre volte la orienta verso una direzione improponibile: quella della vocazione, intesa calvinisticamente. Ma Calvino non ha mai affermato quel che Weber gli ha attribuito. La «vocazione» del protestantesimo è accettazione di quel che si ha, non ricerca del successo in quanto testimonianza della predestinazione divina. E non ha nulla a che vedere con la «prontezza» di cui si nutre l’attività imprenditoriale.

Controriforma, che ha creato, soprattutto nelle aree in cui ha avuto maggiore forza, un habitat ostile a ogni attività innovativa [Pellicani 1988, pp. 101-111].

Bibliografia

Economia e società, Comunità, Milano 1968.